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Nobiltà civica nella Marca pontificia

ceto nobiliare dello Stato Pontificio Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

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La nobiltà civica nella Marca pontificia era costituita dalle famiglie che detenevano il monopolio ereditario delle magistrature nei centri urbani liberi dove era avvenuta la separazione di ceto.

Le caratteristiche dei patriziati cittadini

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Ascoli Piceno, Piazza del Popolo.

A partire dal Quattrocento le élites cittadine della Marca Anconitana si erano venute organizzando secondo i moduli del governo aristocratico, e attraverso il controllo delle funzioni pubbliche e di larghe porzioni della proprietà fondiaria esercitavano un potere dai tratti nettamente oligarchici sui centri urbani e sul loro contado.

Il monopolio del potere come atto fondativo delle aristocrazie civiche

Le famiglie che ricoprivano cariche e magistrature formarono un ceto omogeneo che maturò e si evolse in nobiltà grazie all'accentramento esclusivo ed ereditario del potere legislativo, esecutivo e giudiziario di primo grado[1]. Dal Cinquecento, infatti, le oligarchie urbane cominciarono a escludere le altre classi sociali dagli organi di governo, mediante le cosiddette "chiusure di ceto"[2]. Tali provvedimenti restringevano ai soli nobili l’accesso alle magistrature, rendendole ereditarie in un ristretto gruppo di famiglie. Queste, alternandosi con regolarità e continuità nelle cariche, si garantivano il controllo politico ed economico sulle comunità.

Affinché la distinzione nobiliare potesse acquisire piena validità al di là di un ambito strettamente locale, era necessario che la separazione di ceto non fosse solo un fatto compiuto (de facto), ma venisse sancita anche giuridicamente (de jure). Ciò richiedeva un riconoscimento formale, esplicito[3] o più frequentemente implicito[4], da parte degli organi centrali dello Stato della Chiesa. Riferendosi alle chiusure di ceto nella Marca, lo storico Claudio Donati notava che «in gran parte si trattò di un processo autonomo, per così dire subìto e ratificato post rem dalla Sede apostolica»[5].

Differenze e analogie tra nobiltà civica e feudale

Le famiglie consiliari della Marca, nella maggioranza dei casi, non facevano parte dell'aristocrazia feudale e titolata[2]; la nobiltà civica di antico regime, in effetti, non era considerata un titolo, ma rappresentava piuttosto lo status privilegiato di una famiglia all'interno di una società divisa in ceti. Si trattava, in sostanza, di una qualità che si esprimeva nel «diritto all'esercizio in via ereditaria di una porzione anche infinitesima o addirittura ideale di poteri regi ossia statuali. Malgrado ogni variante è sempre stato considerato nobile chi appartiene ad un ceto che detiene o che ha detenuto tali poteri»[2].

Sebbene le due classi nobiliari avessero origini distinte - frutto di concessione sovrana quella feudale e titolata, sviluppatasi autonomamente la civica -, esse presentavano anche significative analogie. «L'autonomia dei feudi può equipararsi pienamente a quella dei Comuni liberi; come nei primi il feudatario possedeva poteri a carattere pubblicistico più o meno estesi, così nei secondi le oligarchie cittadine avevano analoghi poteri, tant'è che gli stessi Consigli o Consessi, di cui facevano parte le famiglie di nobiltà civica ed alle quali era riservato il governo della città, erano chiamati «sovrani». Anche l'ereditarietà del potere era analoga nelle due classi nobiliari, giacché tanto nei feudi quanto nelle città aristocratiche il governo in queste località trapassava alle famiglie titolate per diritto di nascita»[6].

Le basi economiche e l'estensione del potere aristocratico

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Palazzo Pianetti, galleria degli stucchi rococò, Jesi.

La nobiltà delle famiglie consiliari era espressione di uno status consolidato da generazioni[7], che le oligarchie urbane formalizzarono in risposta al progressivo accentramento amministrativo dello Stato della Chiesa[8]. Le casate nobili divennero un punto di riferimento e di mediazione tra i territori locali e l'autorità pontificia, assumendo un ruolo cruciale nel bilanciare gli interessi delle comunità periferiche con quelli del potere centrale[9].

I patriziati urbani attingevano la loro forza economica dalla proprietà fondiaria[10]. Dal catasto di Recanati del 1530 si evince che quasi l'ottanta per cento della proprietà laica, pari a circa la metà dell'intera superficie comunale, era detenuto da sole sessantotto famiglie. Spesso gli stessi nuclei familiari occupavano i vertici delle chiese locali, e mediante l'affitto e l'enfiteusi controllavano indirettamente anche gran parte dei possedimenti ecclesiastici[11].

All'autorità sul contado esercitata in qualità di proprietari, i nobili possidenti univano quella derivata dall'essere ufficiali del governo comunale per giustizia, amministrazione e difesa, gestori dell'annona e dei Monti Frumentari, responsabili della ripartizione dei carichi fiscali e amministratori dei Monti di Pietà[12], finanziatori dei principali istituti di assistenza e rappresentanti dei vertici di chiese e conventi, nonché detentori di amplissimi poteri informali e infragiudiziari[13].

Nel Settecento, le famiglie della nobiltà decurionale rappresentavano meno del due per cento della popolazione complessiva della Marca[14]. A dare poi la misura del funzionamento nettamente oligarchico dei governi, basti ricordare che verso la fine del Settecento su una popolazione di Arcevia che superava gli ottomila abitanti, solo sedici persone, tutte nobili, detenevano effettivamente il potere[15].

Il carattere dell'aristocrazia cittadina riecheggia nelle parole orgogliose di Francesco Brunamonti, esponente nella seconda metà del Settecento di una famiglia del primo ordine di reggimento di Roccacontrada, oggi Arcevia[16]:

«Il più chiaro indizio della stima che ha la nostra patria sempre avuta di sè stessa, è quella distinzione, che da altre, benchè oneste e benestanti famiglie, ha voluto che abbiano alcune sole e scelte; alle quali, finchè durano, concede privativamente rispetto a tutte l'altre, il Confalone della Giustizia. E questa è quella vera legal segregazione, che unita alla giurisdizione è il fondamento della nobiltà.

(ndr Nei centri urbani dove questo non avviene) si vede nei pubblici rappresentanti quella uguaglianza, che esclude ogni specie di nobiltà, perchè non dà veruna distinzione pubblica a verun numero di famiglie, onde si conoscano per non simili ed uguali a tutte l'altre, ma segregate e maggiori»

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La classificazione dei centri urbani

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Mappa della Marca di Ancona, Vincenzo Luchino, 1564.

I centri urbani della Marca erano costituiti da città e da «terre».

Terra era il termine con cui dal tardo Duecento gli apparati amministrativi dello Stato della Chiesa indicavano quei comuni che, non essendo sedi episcopali, non potevano fregiarsi dello titolo di civitas[17], ma per via dei loro attributi istituzionali, per la vivacità economica e sociale, per l’articolazione della vita religiosa, e in alcuni casi anche per le dimensioni, si definivano alla stregua di città[18].

I centri urbani erano inoltre distinti secondo le prerogative politico-amministrative e giurisdizionali di cui godevano. La loro prima classificazione sistematica si ebbe per motivi meramente fiscali con le Costituzioni Egidiane, che il Cardinale Egidio Albornoz promulgò a Fano nel 1357[19], e con la successiva Descriptio Marchiae Anconitanae (1362-1367)[20][21].

Essi furono suddivisi in due grandi classi:

  • Immediate subiecti, ovvero alle dirette dipendenze della Camera Apostolica, organo che amministrava il patrimonio dello Stato della Chiesa.
  • Mediate subiecti, ovvero dipendenti da un altro centro abitato o da un potentato, come un signore locale.

Fra i secondi, che erano perlopiù ville e castra[22], figuravano anche le terre che erano subordinate a una città, come Camerano che dipendeva da Ancona. Erano invece centri immediate subiecti tutte le città e le terre indipendenti, dove il carattere di dominio diretto esercitato dall'amministrazione papale restava spesso un dato formale e il governo locale era in realtà saldamente posto sotto la giurisdizione cittadina[23].

Per restituire un quadro più preciso del fenomeno, nel Settecento, l'ottanta per cento delle comunità della Marca - ben 304 su 383 - erano mediate subiectae, quindi dipendenti da altre località e prive di autonomia[24].

I restanti centri erano immediate subiecti, e godevano di una giurisdizione che implicava la potestas statuendi, ovvero il potere legislativo all'interno della comunità, il diritto di eleggersi magistrati e ufficiali, la cognizione delle cause di primo grado, anche in materia penale e talvolta di jus sanguinis, oltre al governo e alla giurisdizione sul contado[25].

I reggimenti aristocratici si svilupparono nelle ventidue città della Marca e in un numero comparabile di terre rimaste indipendenti[26][27]- circa la metà di quelle immediate subiectae - poiché solo queste garantivano alla comunità quei poteri sovrani di tipo politico-amministrativo e giudiziario, che con le chiusure di ceto divennero esclusivo appannaggio della nobiltà[28].

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Origine e sviluppo della nobiltà civica

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Stemma della famiglia Leopardi di Recanati.

A partire dalla metà del Cinquecento, lo Stato della Chiesa adottò un sistema di governo dei territori periferici in cui il Papa concedeva ampia autonomia alle oligarchie urbane, favorendo l’instaurarsi di un regime patriziale che garantiva il controllo sociale e la rendita fiscale. La nobiltà si perpetuava attraverso le aggregazioni ai Consigli cittadini, le quali, secondo il pensiero allora prevalente, non conferivano nobiltà, ma attestavano alle famiglie ammesse uno status nobiliare che si considerava già esistente; queste, nella maggior parte dei casi, avevano origini civiche anziché feudali. Con il crollo dell'Antico Regime, l'ingresso dei ceti borghesi nei Consigli e l'abolizione dei vincoli giuridici che tutelavano i patrimoni dalla frammentazione ereditaria, la nobiltà vide gradualmente erodersi il proprio predominio economico e politico.

L'alleanza tra il potere centrale e le aristocrazie civiche

All’indomani della pace di Cateau-Cambrésis (1559) nello Stato della Chiesa si consolidò una architettura di governo nella quale il Papa, principe naturale, lasciava un ampio margine di autonomia alle oligarchie urbane a discapito dei regimi signorili e della feudalità, marginalizzati dai pontefici nel corso del secolo precedente[29]. Lo Stato Ecclesiastico, pur conoscendo un rilevante processo di accentramento amministrativo, venne quindi a configurarsi come una diarchia tra un apparato clericale centrale e un diffuso patriziato nei territori periferici[30].

Tale evoluzione fu particolarmente evidente nella Marca, caratterizzata fin da tempi antichi da una fitta trama di nuclei urbani[31] con un ricco e glorioso passato di autogoverno, secondo una modalità che la storiografia ha definito pattizia[32]. Gli uffici pubblici delle città e dei centri minori erano frequentemente monopolizzati da famiglie legate alla curia romana da vincoli di subordinazione ma quasi sempre individuate dalle stesse oligarchie comunali attraverso chiusure di ceto e autonome decisioni di aggregazione[33]. Solo raramente il processo di aristocratizzazione del governo locale fu gestito direttamente dai rappresentanti pontifici[34], dando luogo a una estrema frammentazione politico-territoriale.

Il potere centrale non si limitò a trovare un equilibrio con quello periferico ma vi si alleò esplicitamente vedendo in questo il fondamento della pace, dell'ordine sociale e un sicuro strumento di governo fiscale[35]. Una identificazione di interessi a cui non era estranea la comune origine sociale delle gerarchie e del personale dello stato, da un lato, e dei ceti dirigenti periferici, dall'altro[36]. Dalla fine del Seicento in poi, infatti, la provenienza dei pontefici, che nei secoli precedenti aveva visto l'alternarsi della grande aristocrazia italiana soprattutto centro-settentrionale, si restrinse allo Stato della Chiesa, da Clemente XI Albani e Innocenzo XIII Conti, attraverso una lunga serie di papi romagnoli e marchigiani fino a Pio IX Mastai-Ferretti[37].

L'aggregazione ai Consigli cittadini come atto ricognitivo della nobiltà familiare

Si inaugurò in tal modo un regime patriziale basato sulla stratificazione sociale e scandito dalla gerarchia urbana. Il controllo esclusivo delle magistrature - come i Consigli, il priorato e il gonfalonierato - comportava l'esercizio ereditario del potere legislativo, esecutivo e giudiziario di primo grado, noto come mero et mixto imperio[38], codificato negli Statuti comunali. Questo, unito a una condizione di vita more nobilium[39], portava al riconoscimento dello status nobiliare per la famiglia, secondo un indirizzo che si andò sempre meglio delineando a partire dal XVI secolo.

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Stemma della famiglia Honorati di Jesi.

Secondo l'Arnone «allorquando i Consigli nobili aggregavano un individuo non creavano in questi nobiltà, ma accertavano e dichiaravano che egli e la sua famiglia per l'antichità, il tenore di vita, la posizione sociale ed economica, la capacità, i parentadi, avevano i requisiti per essere egli ammesso a far parte del consiglio. La nobiltà quindi degli appartenenti ai Consigli civici era dichiarativa e non attributiva, ed inoltre generosa cioè proveniente da una lunga serie di avoli ed infissa nella schiatta tanto che veniva considerata valida come prova nobiliare per l'ammissione negli ordini militari»[40].

L'origine delle famiglie nobili

Quanto all'origine delle famiglie nobili, lo Zenobi nota che nel Settecento nei reggimenti aristocratici delle terre quasi il 30 per cento delle casate risaliva a prima del Cinquecento, il 18 per cento rimontava ai secoli XI-XIV e tra queste meno della metà aveva origini feudali: il 7 per cento del totale[41]. La stessa preminenza di una origine civica delle casate rispetto alla feudale si riscontra nelle città, anche se con una componente feudale più importante e una antichità mediamente maggiore, conseguenza della più antica e consistente strutturazione del loro quadro sociale e politico[42].

Allo stesso tempo per le casate non feudali solo raramente si possono riscontrare origini negli artifices popolari. In conclusione Zenobi ipotizza che queste derivassero dai cosiddetti boni homines, cioè le élites cittadine immediatamente sottostanti i milites feudali e con questi spesso imparentate nel corso dei secoli, che fin dalla prima epoca comunale si erano assicurate una preminenza sociale attraverso la proprietà fondiaria e l'esercizio di funzioni cancelleresche nei comuni e nell'amministrazione della giustizia[43].

La caduta dell'Antico Regime e la fine dell'egemonia nobiliare

Le aristocrazie urbane della Marca arrivarono a sopravanzare per decoro, prestigio, cultura e potenza le famiglie meno ricche di origine feudale[36], adottandone gli stili di vita[44]. Esse mantennero fino all'Unità d'Italia la loro preminenza economica, che venne meno soltanto nella seconda metà dell'Ottocento quando l'abolizione dei fedecommessi[45] dei patronati[46], e dei benefici laicali determinarono il frazionamento dei patrimoni. Fatto tanto più significativo in quanto fin dalle Campagne d'Italia del 1797 i patriziati cittadini erano stati privati del loro potere essenziale, l'egemonia politica, che non avrebbero riacquistato neanche dopo la Restaurazione[47].

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Diffusione della mezzadria, concentrazione fondiaria e rafforzamento delle oligarchie urbane

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Biroccio marchigiano, 1961.

Alla vocazione agricola delle Marche la storiografia ha ricollegato gran parte delle dinamiche politiche, istituzionali, ed economiche sperimentate dalle forze aggreganti urbane[48]. L'analisi della struttura fondiaria riveste quindi un ruolo centrale per intendere l'evoluzione delle forme del potere locale[49].

Diffusione della mezzadria

A partire dal Duecento nella Marca anconitana la proprietà fondiaria venne progressivamente strutturandosi attraverso l'appoderamento e la mezzadria. Tra il Duecento e il Quattrocento si diffusero unità fondiarie compatte, dimensionate a una conduzione di tipo familiare e dotate di casa colonica e di varie infrastrutture agricole, in locazione commerciale di breve durata con contratti per lo più scritti e molto dettagliati. I patti prevedevano la divisione a metà dei principali prodotti agricoli e d’allevamento e la compartecipazione di padrone e mezzadro alle spese d’esercizio e ai capitali necessari all’azienda rurale.

A metà del Trecento la fase di drammatico spopolamento causata dalla Peste Nera favorì l'estendersi della proprietà cittadina a discapito del medio e piccolo possesso contadino. Per le Marche è documentata una forte espansione quattrocentesca della mezzadria, nel quadro di un potente movimento di ricolonizzazione agricola successivo a un’ondata trecentesca di abbandoni su vasta scala[13].

Concentrazione fondiaria e rafforzamento delle oligarchie urbane

Il progressivo accentramento della proprietà fondiaria in capo alla nobiltà è esemplificato dall'esperienza di Macerata. A metà del Duecento, in piena epoca del Comune di Popolo, a Macerata vi erano quasi 1.900 proprietari. Tre secoli dopo, a metà del Cinquecento, ve ne erano 650, in ulteriore e costante riduzione fino ai soli 388 registrati nel catasto del 1778. Si noti che nel frattempo, dopo il crollo seguito alla Peste Nera, la popolazione di Macerata era fortemente aumentata: da 2.200 residenti nel 1450 a 3.600 nel 1550, a oltre 12.000 - incluso il contado - alle soglie del 1800[50].

Ulteriori informazioni Anni, Popolazione ...

Alla drastica diminuzione del numero di proprietari corrispose il forte incremento della quota di proprietà laica detenuta dai nobili, che raggiunse l'85 per cento alla fine del Settecento, e il parallelo incremento della proprietà della Chiesa - in gran parte nella disponibilità degli stessi patriziati urbani, che occupavano i vertici degli enti ecclesiastici - che aumentò dal 18 per cento del totale a metà del Cinquecento, al 40 alla fine del Settecento[53].

L'espansione della proprietà urbana diede vita a rapporti di tipo clientelare che avvolgeranno il mezzadro in forme di dipendenza sempre più accentuate. «Di pari passo con la diffusione del contratto mezzadrile, ancora definito dalla terminologia notarile ad soccitam, si fanno più evidenti i segnali dell'evoluzione o della degenerazione dalla iniziale societas verso un patto sostanzialmente squilibrato a danno del lavoratore: così i polli che deve portare al padrone devono essere "grandi e buoni" e le galline "grasse"; "le sue donne siano obbligate dar l'opra loro a far la bugata", deve coltivare il lino e "conciarlo"»[54].

La concentrazione della proprietà fondiaria, il sistema mezzadrile e il monopolio aristocratico del potere, inseriti nel più ampio quadro dell'assolutismo papale, garantirono un lungo periodo di stabilità, ma anche di stasi sociale[55], da cui il mondo rurale cominciò ad emergere solo alle soglie del XX secolo. Nel 1911, oltre il sessanta per cento dei contadini marchigiani erano ancora mezzadri[56].

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Nobiltà civica e formazione degli Stati regionali

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Ritratto dell'imperatore Francesco I di Lorena di Martin van Meytens, 1745 circa, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna.

La relazione tra nobiltà civica e titolata è emblematica del processo di formazione degli Stati regionali. I patriziati urbani incarnavano il tenace particolarismo di origine medievale di oligarchie strettamente ancorate alle loro patrie cittadine, che dirigevano e da cui derivavano nobiltà e privilegi. Era quindi naturale che la marcata frammentazione del potere implicita nell'autonomia comunale entrasse in conflitto con gli emergenti Stati regionali, di ispirazione monarchica e assolutista, che vollero assicurarsi il pieno controllo sulle dinamiche di cooptazione e di nobilitazione[57].

Esemplare in tal senso è la vicenda del Granducato di Toscana nel passaggio dai Medici agli Asburgo-Lorena. Anche nel Granducato di Toscana l’aristocrazia urbana deteneva rilevanti prerogative di governo locale, che la dinastia lorenese intese fortemente limitare[58]. Principale strumento di questo disegno fu la «Legge per il regolamento della nobiltà e la cittadinanza», promulgata da Francesco Stefano di Lorena nel 1750, che impose a tutti i rappresentanti delle oligarchie locali che desiderassero istituzionalizzare il proprio status privilegiato di sottoporsi a un esame teso ad accertare la legittima appartenenza al ceto nobiliare[59].

In tal modo la nobiltà civica era formalmente equiparata a quella titolata, la cui legittimità era sempre derivata da concessione sovrana, e vedeva venir meno la sua autonomia, che riuscì invece a preservare nello Stato della Chiesa fino all'instaurazione del Regno d'Italia napoleonico.

Con la Restaurazione anche lo Stato Pontificio accolse le istanze uniformatrici e di centralizzazione dell'esperienza giacobina e napoleonica, abolì gli statuti comunali sottraendo i contadi alla secolare subordinazione alle città, e aprì cautamente i consigli civici alla partecipazione dei ceti non nobili[36]. In seguito molti comuni delle terre non vennero elevati a rango di città e rimasero perciò esclusi dal novero dei centri urbani aventi ufficialmente nobiltà per effetto della riforma dell’amministrazione contenuta nel Motu proprio di Papa Leone XII del 1827[60]. Nel Regno d'Italia per detti comuni la Regia Consulta Araldica, basandosi sugli elenchi compilati dallo Stato Pontificio in epoca di Restaurazione, non riconobbe né il titolo di Patrizio né quello di Nobile[61].

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L'analisi degli storici

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Il reggimento aristocratico dei Comuni - di cui la Marca fu un esempio eminente per genesi, durata, e diffusione[62] - è stato ritenuto dagli storici un elemento caratterizzante della società italiana in epoca moderna[63], destinato ad avere importanti ripercussioni sull'identità della classe dirigente che avrebbe condotto l'Italia all'unificazione.

Fondamentale è stato riconoscere le radici storiche alla base dell'affermazione dei nuovi ceti dirigenti. Questi emersero vittoriosi dalle secolari lotte di fazione tra cives e rappresentanti popolari di arti e mestieri[64], che vennero infine completamente estromessi dal potere. Una dinamica che evidenzia la lunga gestazione delle oligarchie in seno ai Comuni e la natura essenzialmente ricognitiva della nobiltà civica, frutto di una preminenza sociale di lungo periodo[65].

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Dialoghetti sulle materie correnti nell'anno 1831, Monaldo Leopardi.

A partire dal XVI secolo l'egemonia aristocratica impresse alla vita sociale una forma gerarchica, persino a livello paesaggistico con la diffusione della villa all'italiana, che assunse per i patriziati cittadini il significato che il castello aveva avuto per la feudalità[66]. Si instaurò un regime di dipendenza dalle famiglie potenti cui dovettero sottostare, oltre al contado, la quasi totalità delle classi urbane artigiane e commercianti, reintroducendo un sistema di clientele che era stato caratteristico della società feudale, e che la prima epoca dei Comuni sembrava aver eliminato con l'instaurazione di una società più mobile e aperta[67].

L'alto grado di integrazione sociale che venne a stabilirsi mise fine alle lacerazioni e ai contrasti che avevano caratterizzato l'epoca comunale, al costo di un assetto sostanzialmente paternalistico e autoritario[67], anche se le piccole patrie aristocratiche conservarono per le epoche successive il gusto della legalità, del confronto politico largo e dell'uguaglianza (entro il ceto)[68].

«La grande affermazione storica delle classi che diedero vita alla civiltà comunale e ai suoi sviluppi rinascimentali appare, così, inseparabile dalla prosecuzione di fatto di una condizione politica - il particolarismo - che era stata una caratteristica del mondo medievale»[67], con conseguenze che incideranno sulle capacità di sopravvivenza dei principati prima, e sul processo di unificazione italiano in seguito[69].

Esemplare in tal senso il pensiero di Monaldo Leopardi, gonfaloniere di Recanati in epoca di Restaurazione, padre del sommo poeta Giacomo, e perfetto rappresentante della nobiltà pontificia di antico regime[70]

«Bisogna lasciare che i popoli abbiano occupazione e sollievo nelle loro faccende municipali e domestiche, acciocché trovandosi oziosi nella patria non escano a turbare le cose della nazione»

ed ancora

«Gli abitatori dello Stato ci sono quasi tutti sconosciuti, i loro interessi e quelli delle loro città sono in gran parte diversi dai nostri, e non di rado in opposizione dei nostri, e noi con quegli abitatori non abbiamo comuni tutte quelle consuetudini e tutte quelle ragioni che costituiscono la comunità della patria. [...] precisamente quella terra nella quale siamo nati, e in cui vivamo insieme con gli altri cittadini, avendo comuni con essi il suolo, le mura, le istituzioni, le leggi, le pubbliche proprietà, e una moltitudine d'interessi e rapporti»
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Le casate nelle città della Marca Anconitana

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Il Salone dell'Eneide di Palazzo Buonaccorsi, Macerata.

L'importanza delle casate, della loro origine, dell'articolazione del loro potere non di rado esteso a più città o terre, è duplice. Da un lato esse costituirono il ceto dominante e dirigente, dall'altro incarnarono nuovamente nei secoli XVI-XVIII un carattere originario del Comune italiano, e cioè il suo essere prevalentemente signorile prima che "borghese".

Nelle parole di Philip Jones[71]: «nella forma o nella sostanza, la storia politica dei Comuni cittadini, come quella sociale, fu una storia delle famiglie principali, delle casate civiche e sempre più frequentemente comitatine, terriere o feudourbane. Nati signorili, tali nella maggioranza dei casi i Comuni essenzialmente rimasero. A differenza delle città transalpine, essi non furono in generale, come città-Stato, governati o conquistati da interessi mercantili [..] la politica era regolata da forze più antiche e indipendenti dallo sviluppo economico e dagli obiettivi "borghesi"; le più intense, se non le più profonde, divisioni politiche non erano, come oltralpe, conflitti economici di mercanti e "meccanici", di capitale e lavoro, o neanche conflitti di classe, ma vendette e contrasti tra fazioni e parentele aristocratiche che aspiravano, e alla fine arrivarono, sotto forma di signoria, al dominio esclusivo sopra tutto il resto».

Il tipo di organizzazione e di partecipazione della nobiltà delle città all'esercizio del potere può essere schematizzato come segue[72]:

  • Nelle città maggiori - Ancona, Camerino, Fano, Recanati, Osimo, Corinaldo, Numana, Filottrano e Montecchio (Treia) - il consiglio generale era composto di soli nobili, con esclusione totale dei popolari.
  • In tutte le città il consiglio di credenza o di cernita era composto di soli nobili, ad eccezione di Cingoli dove era riservato ai nobili e ai cittadini, ma sempre con esclusione dei popolari.
  • Il magistrato era riservato ai nobili in Ancona, Fermo, Camerino, Ascoli, Fano, Recanati, Macerata, Osimo, Tolentino, Ripatransone, Corinaldo, Montalboddo (Ostra), Montecchio, Filottrano e Numana.
  • In tutte le città - le sopra menzionate più Jesi, Fabriano, San Severino, Cingoli, Montalto e Matelica - la carica di gonfaloniere, capo della magistratura e quindi della comunità, era riservata ai nobili.
  • In Ancona, Camerino, Ascoli, Macerata la nobiltà era divisa in due o più gradi sulla base dell'anzianità di aggregazione delle singole famiglie: al primo di questi gradi, detto dei "patrizi", erano riservate le cariche più elevate, fra cui la partecipazione in esclusiva al consiglio di cernita.

Le città marchigiane la cui nobiltà civica venne riconosciuta anche dal Regno d'Italia e che si possono riscontrare sulle edizioni regionali dell'Elenco Ufficiale delle Famiglie Nobili e Titolate, sono le seguenti:

Ancona (Patrizio di; Nobile di) - Arcevia, già Roccacontrada (Nobile di) - Ascoli (Patrizio di; Nobile di) - Urbania, già Casteldurante - Cagli (Nobile di) - Camerino (Patrizio di; Nobile di) - Cingoli (Nobile di) - Civitanova (Nobile di) - Corinaldo (Nobile di) - Fabriano (Nobile di) - Fano (Patrizio di; Nobile di) - Fermo (Patrizio di; Nobile di) - Filottrano (Nobile di) - Fossombrone (Nobile di) - Jesi (Nobile di) - Loreto (Nobile di) - Macerata (Patrizio di; Nobile di) - Matelica (Nobile di) - Montalto (Nobile di) - Numana (Nobile di) - Osimo (Nobile di) - Ostra, già Montalboddo (Nobile di) - Pennabilli (Nobile di) - Pergola (Nobile di) - Pesaro (Nobile di) - Recanati (Nobile di) - Ripatransone (Nobile di) - San Leo (Nobile di) - Sanseverino (Patrizio di; Nobile di) - Sant'Angelo in Vado (Nobile di) - Sassoferrato (Nobile di) - Senigallia (Nobile di) - Tolentino (Patrizio di; Nobile di) - Treia, già Montecchio (Nobile di) - Urbania, già Casteldurante (Nobile di) - Urbino (Nobile di).

Si rilevano alcuni casi anomali:

1) alcuni centri abitati ai quali è stato riconosciuto lo status di città e la conseguente esistenza di una nobiltà civica pur con requisiti molto dubbi: Loreto Civitanova e Numana[73][74].

2) alcune terre che - pur elevate a città e con governo patriziale documentato[75] - non vennero prese in considerazione dal Regno d'Italia: Amandola (elevata a città nel 1836) e a Corridonia, già Montolmo (elevata a città nel 1851).

3) Castelfidardo, terra con modulo patriziale ben attestato[76] ed alla quale venne negata l'elevazione a città nel 1828[77].

Di seguito sono elencate le casate nobili delle città della Marca. In nota sono riportate le fonti da cui ciascuna lista è stata desunta, assieme a brevi cenni sulla tipologia di reggimento oligarchico che venne a stabilirsi nei centri principali.

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Ancona, veduta.
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Ascoli Piceno, Loggia dei Mercanti.
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Cingoli, Palazzo Comunale.
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Corinaldo, Porta Nuova.
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Fabriano, Palazzo del Podestà.
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Fano, Teatro della Fortuna.
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Fermo, Piazza del Popolo.
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Jesi, Piazza Federico II.
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Loreto, Santuario della Santa Casa.
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Macerata, vista.
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Montalto, Cattedrale
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Comune di Numana
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Recanati, torre civica.
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Le casate nelle «terre» della Marca Anconitana

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Palazzo dei Priori, Montelupone.

Di seguito sono elencate le casate ascritte alla nobiltà di ventiquattro terre della Marca pontificia di antico regime, identificate dallo storico Bandino Giacomo Zenobi. Egli mostra attraverso l'esame della legislazione statutaria che in quei nuclei urbani era avvenuta la separazione di ceto, e grazie a una ricerca condotta su fonti archivistiche settecentesche - bussoli, estrazioni, Consigli - identifica i 365 lignaggi[107] che parteciparono in maniera ereditaria al loro reggimento. Accanto a ciascun cognome tra parentesi è indicata l'epoca a cui è possibile far risalire il casato[108].

«In ciascuno di questi casi (ndr dove era avvenuta la separazione di ceto) [...] la nobiltà era caratterizzata ed individuata dalla partecipazione in via ereditaria a una carica o a un gruppo di cariche dalle quali i popolari erano esclusi. Ed era appunto questa esclusione a conferire carattere aristocratico all'organo [...] Era quindi nell'esercizio delle funzioni connesse a tali organi che la nobiltà civica veniva ad identificarsi e a riconoscersi»[72].

Giova precisare che Zenobi, per redigere il suo elenco, ha analizzato solo piccole porzioni temporali dei registri dei bussoli e dei Consigli ed afferenti principalmente al secolo XVIII. Ciò ha portato alla conseguente esclusione delle famiglie ascritte ai reggimenti delle terre sia prima delle date da lui considerate, sia dopo, ovvero durante le varie restaurazioni del Governo Pontificio avvenute prima della grande riforma amministrativa del 1816[109][110].

Va inoltre ricordato che nelle terre, specialmente dopo la metà del secolo XVIII, avvenivano aggregazioni nel cosiddetto "Bussolo degli Onorari". In questo bussolo figuravano famiglie non residenti localmente e che non erano chiamate a partecipare direttamente alla vita politico-amministrativa, ma che all'occorrenza potevano esserlo: l'esempio più classico consisteva nell'utilizzo degli Onorari per rimpiazzare le estinzioni delle stirpi locali di reggimento, evitando quindi aggregazioni dagli altri ceti sociali. Anche queste famiglie spesso non figurano nell'elenco redatto da Zenobi[110].

Un fulgido esempio di quante casate non figurino negli elenchi di Zenobi per questioni puramente metodologiche lo fornisce Marco Moroni, il quale ha enumerato tutte le schiatte di reggimento di Castelfidardo suddivise per secolo di aggregazione, per un totale di ben 84 famiglie, rispetto alle appena 24 individuate da Zenobi[111].

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