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scrittore italiano (1903-1976) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Ercole Patti (Catania, 16 febbraio 1903[1] – Roma, 15 novembre 1976) è stato uno scrittore, giornalista, sceneggiatore e drammaturgo italiano.
Proviene da una famiglia benestante di Catania: suo padre è un noto avvocato e suo zio è lo scrittore Giuseppe Villaroel. 17enne si trasferì a Roma. Dopo la laurea in diritto internazionale nel 1925, inizia la carriera letteraria come giornalista, professione che lo porterà a dare un taglio da terza pagina alla sua produzione. Collabora alla Gazzetta del Popolo, diretta da Ermanno Amicucci e con Il Tevere di Telesio Interlandi, di cui è anche inviato all'estero[2]. Dal 1931 collabora al Popolo di Sicilia, diretto da Piero Saporiti. A metà degli anni '30 tiene una rubrica di critica cinematografica su Il Popolo d'Italia. Dopo il 25 luglio 1943 sostiene Badoglio e, con l'occupazione tedesca della capitale, viene arrestato e resta tre mesi in carcere (ottobre-dicembre 1943).
Frattanto arriva alla notorietà, nel 1940, grazie al romanzo Quartieri alti, una narrazione satirica dell'alta borghesia romana col piglio dell'indagine di costume. Da questo libro, e da Le rendez-vous de Senlis di Jean Anouilh, il regista scrittore Mario Soldati trarrà ispirazione per l'omonimo film del 1945. Con Il punto debole nel 1953 ottiene il "Bagutta del venticinquennale"[3] ed è finalista al Premio Strega. Più tardi, con Giovannino (1954) (in cui inserisce brani di un giovanile romanzo rimasto incompiuto, I Barbagallo o Il signor Barbagallo), finalista al Premio Strega, un romanzo giocato fra Catania e Roma che riporta ai temi dell'apatia giovanile, della sindrome di Peter Pan e della disillusione, Patti definirà più compiutamente la propria fisionomia di narratore moralista, in un punto di incontro fra acume e amarezza. Una tendenza confermata con i tre libri successivi, Un amore a Roma (1956), Le donne e altri racconti (1959) e Cronache romane (1962).
La svolta nella produzione letteraria di Patti arriva tre anni dopo Cronache romane, nel 1965: con La cugina la narrazione si sposta in una Sicilia morbida e pigra, descrivendo le sue vicende sensuali. Adesso Patti racconta profumi e colori della Sicilia dell'inizio del Novecento, con un eros rimasto nel guscio, incapace di essere più che fisico, su una linea seguita due anni più tardi da Un bellissimo novembre (1967), considerato il suo capolavoro, a Graziella (1970), preso a soggetto per il film La seduzione, e da Diario siciliano (1971), vincitore del Premio Selezione Campiello dello stesso anno.[4] Con il libro successivo, Gli ospiti di quel castello (1974), vincitore del Premio Brancati-Zafferana,[5] si cambia ancora genere: adesso la narrazione, in una cornice di fiaba magica, torna a Roma, città che lo ospiterà fino alla morte e nella quale lavorerà anche come autore teatrale e sceneggiatore cinematografico. Bompiani, nel 1972 e nel 1974, pubblica Tutti i romanzi.
Ercole Patti muore a Roma, in seguito a tumore, il 15 novembre 1976.
Ercole Patti scrive “Molti di questi fogli scritti in varie epoche sono stati sparsi e dispersi su giornali, libri e nei miei cassetti”, infatti per la prima volta tutti questi vari brani sono raccolti in un unico volume dove egli prosegue all'indietro nel tempo alla ricerca della felicità e la trova per sé e per il lettore, ricca delle più sottili voluttà dell'immaginazione, della distanza della memoria e dello stile. In Diario Siciliano coglie con un realismo tinto di elegia gli aspetti e i colori della campagna che si stende intorno a Catania tra l'Etna e il mare, soprattutto a Trecastagni coperta di agrumeti, dove in novembre le arance “hanno la stessa tonalità delle foglie”. Uno di questi brani di diario, allusivamente intitolato Alla ricerca della felicità, può considerarsi la chiave di lettura di tutto il Diario Siciliano: lo sguardo dello scrittore sembra penetrare oltre l'apparenza delle cose, fino all'essenza non soltanto del paesaggio, ma degli oggetti stessi.
“Questa specie di viaggio autunnale compiuto a ritroso”, così come lo chiama l'autore, comincia con un prologo, intitolato L'adolescenza, dove l'autore propone in un tono di poesia autobiografica tutti i motivi con cui egli ha celebrato questo tema: la felicità di sentirsi giovani, pieni d'amore e di ammirato stupore per il mondo e la vita; la scoperta delle piccole gioie quotidiane, comuni, in cui si trova improvvisamente un'intima e segreta bellezza. È come un ritorno alla cassa dell'infanzia in cui il presente si nutre di ricordi che riempiono il cuore di una pace rincorsa da anni inutilmente. Anche il senso di morte evocato nel capitolo "I notabili di Savoca" si colora della suggestione familiare di una continuità di vita, di un accordo tra passato e presente, tra ciò che è stato e ciò che è. Allo stesso modo il capitolo "La credenza" restituisce un tempo perduto ma su un piano di ricordi festosi: l'elegia di questi ricordi è senza tristezza poiché le cose che appartengono a quel passato sono ancora lì, e la realtà che esse evocano sembra più vera della realtà presente.
La protagonista del diario infine è una Sicilia ormai fuori dal tempo, ritrovata con una freschezza di sensazioni che qualche volta è rimpianto per un paesaggio che sparisce, come ad esempio paesi “che erano immersi in un grande languore, in un dolcissimo letargo” (Paesetti sull'Etna) sono oggi inghiottiti dal cemento della città che si estende. Diario Siciliano è pieno di queste quiete emozioni, di questi incontri con la verità elementare dell'esistenza che vengono espresse con un umile e calma poesia profondamente assaporata, in un tono intenso e pacato, perciò dopo lettura del Diario ci resta nella memoria l'immagine consolante delle passeggiate all'alba nella frescura dei boschi di castagni, fra gli agrumeti e gli ulivi, dove il frastuono e l'affanno del nostro vivere di oggi appare assurdo e remoto.[senza fonte]
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