principali tentazioni nella dottrina cristiana Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
I sette vizi capitali, noti anche come peccati capitali, sono un raggruppamento e una classificazione dei vizi nell'ambito degli insegnamenti cristiani.[1] Sebbene non siano direttamente menzionati nella Bibbia, esistono dei paralleli con le sette cose che Dio detesta nel Libro dei Proverbi. I comportamenti o le abitudini sono classificati in questa categoria se danno direttamente origine ad altre immoralità.[2]
Secondo l'elenco standard, i sette vizi capitali sono la superbia, l'avarizia, l'ira, l'invidia, la lussuria, la gola e l'accidia[2] e possono essere catalogati in parallelo alle virtù alle quali si oppongono,[3] cioè le tre virtù teologali e le quattro virtù cardinali.[4]
Questi vizi (dal latino vĭtĭum, mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero)[5] distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero in realtà causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
La classificazione dei vizi capitali ebbe origine con i Padri del deserto, in particolare con Evagrio Pontico. L'allievo di Evagrio, Giovanni Cassiano, con il suo libro Le istituzioni cenobitiche, portò la classificazione in Europa,[6] dove divenne fondamentale per le pratiche confessionali cattoliche, come documentato nei manuali penitenziali e in opere letterarie come "Il racconto del parroco" da I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer e il Purgatorio di Dante Alighieri, in cui i penitenti del Purgatorio sono raggruppati e penitenziati in sette cornici in base al loro peccato peggiore. L'insegnamento della Chiesa si concentrava in particolare sull'orgoglio, ritenuto la radice di tutti i peccati in quanto allontana l'anima da Dio, e sull'avidità o cupidigia.
I sette peccati capitali sono discussi nei trattati e raffigurati nei dipinti e nelle decorazioni scultoree delle chiese cattoliche, nonché nei libri di testo più antichi.[1] I sette peccati capitali, insieme ai peccati contro lo Spirito Santo e ai peccati che gridano vendetta al Cielo, sono insegnati soprattutto nelle tradizioni cristiane occidentali come cose da deplorare.[7]
Una descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
L'elenco dei vizi fu quindi analizzato dal primo Cristianesimo ad opera dei primi monaci, tra cui Evagrio Pontico e Giovanni Cassiano. A Evagrio si deve la prima classificazione dei vizi capitali, e dei mezzi per combatterli.[8] In particolare, egli individuò otto "spiriti o demoni o pensieri malvagi" (logismoi): gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia. Nell'Antirrhetikos suggerisce un passo biblico per contrastare ogni demone di uno degli 8 vizi e la sua opera.
La tristezza appare come vizio a sé, successivamente accorpata da Gregorio Magno come già effetto dell'accidia o dell'invidia; stessa cosa accadde per la vanagloria, accorpata successivamente nell'unico vizio della superbia. Gli altri vizi sono gli stessi giunti a noi (ira, lussuria, avarizia, gola), mentre l'invidia venne aggiunta successivamente.
Nell'Età dei lumi la differenza tra vizi e virtù perse importanza, poiché anche i vizi, come le virtù, concorrerebbero allo sviluppo materiale (industriale, commerciale ed economico) della società. Dopo il periodo illuminista, i vizi compaiono ancora in alcune opere di Kant, che vede nel vizio un'espressione della tipologia umana o di una parte del carattere. Dall'Antropologia pragmatica di Kant, nell'Ottocento sono stati scritti grandi trattati, fino a diventare un argomento molto interessante e vasto tra filosofia morale, psicologia umana e teologia.
Il Testamento di Ruben contiene una classificazione simile degli 8 spiriti dell'errore.[9] Il Rotolo della Regola di Qumran la amplia. Lo Gnosticismo ritiene che l'anima, prima di unirsi al corpo, debba attraversare ognuno dei 7 pianeti retti da altrettanti spiriti ribelli a Dio.[10] Lo Spirito incontra altrettanti vizi e si riveste di un corpo astrale che gli impedisce di ricordare la sua origine e di giungere alla Gnosi.[11]
Riassunti con l'acronimo saligia,[12] i vizi capitali sono:
Durante il Medioevo la Chiesa aveva incluso nei vizi capitali anche la tristezza,[14] in quanto questo sentimento indicava il disprezzo per le opere che Dio aveva compiuto per gli uomini, così come la vanità o vanagloria; ciò almeno fino a Gregorio Magno, quando la tristezza fu considerata parte dell'accidia e la vanagloria fu unita al nuovo vizio della superbia.[14][15][16]
Nella Divina Commedia di Dante Alighieri i sette vizi capitali sono puniti nell'alto Inferno (cerchi II-V) e purgati nelle sette cornici del Purgatorio; inoltre le tre fiere lonza (vv. 31-43), il leone (vv. 44-48) e la lupa (vv. 49-60), incontrate da Dante nella selva oscura all'inizio della sua avventura (canto I) sono raffigurazioni di altrettanti vizi che ostacolavano il poeta nel cammino verso la salvezza.
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