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Opera giuntaci in tre redazioni,[1] tutte di mano del Boccaccio: una prima redazione, nota grazie al manoscritto autografo Toledo, Biblioteca capitular, 104.6 (To), più ampia delle altre due, che sono probabilmente compendi, noti come II redazione A e B.[2] La data di composizione è comunemente collocata tra il 1351 e il 1365. L'editio princeps, col titolo Vita di Dante, apparve nel 1477 davanti alla Divina Commedia stampata a Venezia da Giovanni e Vindelino da Spira.
Il titolo "vulgato" aderisce perfettamente al tono di alto e quasi religioso elogio dell'opera, e, sebbene le prime pagine, dove si tocca dell'amore di Dante per Beatrice, abbiano un sapore leziosamente romanzesco, la moderna critica dantesca ha riconosciuto nel Trattatello non poche notizie autentiche attinte alla tradizione orale e apprese dalla viva voce di persone che avevano conosciuto l'Alighieri.
Ma la rifusione del materiale biografico non è stata certo cauta e positiva, e intorno alla figura del divino poeta vibra come un alone di leggenda conforme al tipo ideale che, nell'Alighieri, Boccaccio delinea e onora come primo, augusto ed eroico cultore della poesia e della scienza. Così il Trattatello è non meno una laude di Dante che una laude della poesia. Ligio all'estetica medievale è il criterio per cui Boccaccio pone la grandezza e la bellezza della poesia nell'intimo legame di questa con la filosofia.
Più nuovo e significativo è invece l'elogio della sapienza e dell'erudizione, aderente allo spirito intimamente laico del Convivio dantesco, ed espressione di freschi entusiasmi per l'erudizione classica.
Caratteristica, perché ripresa più tardi dagli umanisti, è la discussione del motivo dell'utilizzo, nella Commedia, del volgare invece del latino: discussione che Boccaccio chiude ricorrendo, in sostanza, alla giustificazione di Dante, già posta innanzi per il suo Convivio, sulla decadenza degli studi liberali, la conoscenza del latino limitata ai soli letterati, la scarsa utilità di un poema scritto in latino, e la conseguente necessità, per Dante, di scrivere il suo poema "in stile atto a' moderni sensi".
L'elenco dei manoscritti della prima redazione è:[3]
A questi si aggiunge il ms. Ambrosiano A 302 sup. segnalato da Petoletti.[4]
Opera di datazione incerta (tra il 1355 e il 1366), così com'è incerto anche il significato del titolo: è possibile che venga da corvo simbolo della cattiveria, l'uccello che becca gli occhi delle prede di cui si ciba, in questo caso sta a rappresentare l'amore che acceca e rovina; oppure deriva dallo spagnolo corbacho, cioè scudiscio, che riporta al carattere prettamente satirico dell'opera.
La narrazione è incentrata sull'invettiva contro le donne. Il poeta, illuso e rifiutato da una vedova, sogna di giungere in una selva (che richiama il modello dantesco) nella quale gli uomini che sono stati troppo deboli per resistere alle donne vengono trasformati in bestie orribili: il Laberinto d'amore o il Porcile di Venere. Qui incontra il defunto marito della donna che gli ha spezzato il cuore, il quale dopo avergli elencato ogni sorta di difetto femminile, lo spinge ad allontanare ogni suo pensiero da esse lasciando più ampio spazio ai suoi studi, che invece innalzano lo spirito.
Questa satira si basa in particolare sulla concezione medievale (quando addirittura si metteva in dubbio che la donna potesse avere un'anima), e tutto il pensiero giovanile del Boccaccio viene capovolto. La notazione misogina appare in alcuni passi della sua "Esposizione sopra la Comedia", ma anteriormente già nella satira VI di Giovenale. Soprattutto nel Decameron, infatti, l'amore era visto al naturale, come forza positiva e incontrastabile e quelle opere stesse erano dedicate proprio alle donne, un pubblico non letterato da allietare con opere gradevoli; ora invece l'amore è visto come causa di degrado e le donne sono respinte in nome delle Muse, emblema di una letteratura più elevata e austera.
Questo capovolgimento è da attribuire in particolar modo ai turbamenti religiosi propri di Boccaccio negli ultimi periodi della sua vita e il trasporto maggiore che egli ebbe per una letteratura di alto livello, i cui destinatari non potevano che essere solo ed esclusivamente dotti.
È un ampio trattato di mitologia in lingua latina in quindici libri inteso a illustrare le discendenze degli dei greci e latini. È un'opera scientifica, una delle prime manifestazioni dello spirito filologico dell'Umanesimo: Boccaccio cerca di interpretare il mito e appoggia la sua interpretazione citandone la fonte bibliografica. Nel XV libro Boccaccio mostra il legittimo orgoglio di poter leggere i testi in lingua greca senza alcuna intermediazione, per aver studiato la lingua di Omero con il greco Leonzio Pilato. La sua conoscenza della lingua greca rimase tuttavia elementare, per cui gli errori, nelle sue trascrizioni di Omero, sono numerosi.
Boccaccio, d'altra parte, non aveva seguito neppure corsi regolari di latino; ebbe per poco tempo come maestro Giovanni di Domenico Mazzuoli da Strada, dal quale apprese soltanto i primi elementi della grammatica; ma il padre, desideroso di fare del figlio un mercante, lo distolse ben presto da quegli studi, cosicché studiò gli autori latini e tentò d'interpretarli come meglio poté solo in età adulta, da solo e senza maestri. Non sorprende pertanto che i modelli del suo latino furono sì i grandi autori classici, ma anche gli scrittori medioevali o quelli della tarda latinità dai quali attinse largamente, ma non fu in grado di discernere ciò che era antico da ciò che era moderno, riportando nei suoi scritti un materiale linguistico eterogeneo. Nonostante le inevitabili difficoltà espressive, i periodi scorrono fluidi e armoniosi, e tanti episodi (per esempio, quello di Psiche, l'inno alla Vergine, la satira contro i giuristi e gli ecclesiastici, la difesa della poesia e dei poeti, la rievocazione dei suoi studi o della sua giovinezza) non hanno nulla da invidiare alle pagine più belle delle opere giovanili o del Decameron.
Per quanto concerne i contenuti delle tradizioni mitologiche, Boccaccio non prende quasi mai posizione e si limita a registrare con equanimità le varianti più diverse, senza valutarne la verosimiglianza o perfino l'evidente erroneità. Non deve sorprendere pertanto che Boccaccio sia incorso spesso in fraintendimenti quali quello di aver ritenuto padre di tutti gli dei Demogorgone, in realtà la corruzione del termine greco indicante il Demiurgo, o di aver identificato le Muse nelle Hymnides, verosimile corruzione del greco Nymphai.
La Genealogia deorum gentilium fu pubblicata nell'editio princeps da Vindelino da Spira nel 1472 e fu tradotta in volgare dall'umanista Giuseppe Betussi nel 1547.
Quest'opera, scritta tra il 1360 e il 1362 (ampliata e rifusa negli anni successivi) contiene la biografia di 106 donne illustri di tutti i tempi, accomunate da una celebrità raggiunta per insolite virtù o eccezionali depravazioni. Si può considerare come un complemento delle Sventure degli uomini illustri. Boccaccio stesso confessa che alla composizione influì l'esempio dato dal Petrarca col trattato De viris illustribus.
Varie sono poi le fonti alle quali ha attinto: Igino, Isidoro di Siviglia, Valerio Massimo, Virgilio, Ovidio e Tacito, autore invece sconosciuto dal Petrarca.
Al contrario del Decameron, nel De mulieribus viene riconosciuta la dignità non solo delle donne “gentili”, ma anche a quelle come Leena, che, dedite ad un mestiere infame, hanno comunque un animo nobile.
L'opera è dedicata ad Andrea Acciaiuoli, sposa in seconde nozze a un conte di Altavilla e sorella di Niccolò Acciaiuoli, appartenente a una famiglia di fiorentini residente a Napoli.
Le vite delle donne illustri si rifacevano a modelli antichi e terminavano con la storia di Giovanna, regina di Napoli. Il De mulieribus divenne ben presto celebre nelle corti d'Oltralpe, dove veniva donato alle principesse come modello di virtù e venne tradotto in francese già a partire dal 1401.
Sono delle riflessioni ed analisi che Boccaccio fece sulla Divina Commedia di Dante Alighieri durante i suoi ultimi anni di vita.
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