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conflitto interno a Cosa nostra tra il 1962 e il 1963 Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La prima guerra di mafia fu un conflitto interno a Cosa Nostra svoltosi nella prima metà degli anni '60.
Prima guerra di mafia parte della guerra di mafia siciliana | |||
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Angelo La Barbera, ritenuto uno dei protagonisti della prima guerra di mafia. | |||
Data | 1962-1963 | ||
Luogo | Sicilia | ||
Schieramenti | |||
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+60 morti totali[2] | |||
Voci di guerre presenti su Wikipedia | |||
Fu caratterizzata dall'utilizzo da parte dei mafiosi dell'autobomba, arma fino ad allora mai adoperata in Italia[3], che culminò nella tristemente celebre strage di Ciaculli, nella quale trovarono la morte sette appartenenti alle forze dell'ordine (4 carabinieri, 2 soldati e un poliziotto).[4]
Secondo il rapporto dei Carabinieri di Roma del 1968[5], basato in gran parte su fonti confidenziali ed utilizzato nell'ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal giudice istruttore Cesare Terranova[6], nel 1962, al fine di contrastare l'azione dello Stato contro la mafia (espressa dalla promulgazione della legge che istituiva la Commissione parlamentare antimafia), si riunì un "comitato" (una sorta di "Commissione" ante litteram) composto da «alcuni malfattori», cioè Cesare Manzella, Salvatore "Cicchiteddu" Greco, Giuseppe Panno, Gaetano Badalamenti, Salvatore La Barbera e Luciano Liggio, che stabilirono di sospendere ogni attività delittuosa che avrebbe potuto confermare la pericolosità dell'organizzazione e tutte le "famiglie" mafiose della Sicilia occidentale si impegnarono a rispettare questa tregua.[7][6]
La pace raggiunta venne subito rotta da una truffa a proposito di una partita di droga: agli inizi dello stesso anno, i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera, Cesare Manzella, "Cicchiteddu" Greco, il suo cugino omonimo Salvatore Greco (detto «l'ingegnere») e Gioacchino Pennino avevano finanziato una spedizione di eroina, che venne affidata a Calcedonio Di Pisa, il quale la doveva consegnare negli Stati Uniti ad alcuni emissari della "famiglia" Profaci di New York attraverso un corriere imbarcato come cameriere sul transatlantico Saturnia[1]; Di Pisa aveva però consegnato ai soci una somma inferiore a quella stabilita adducendo di essere stato truffato dai compratori. Nella riunione del "tribunale" mafioso composto da "Cicchiteddu" Greco, Cesare Manzella, Salvatore La Barbera, Rosario Mancino e Vincenzo D'Accardi che doveva decidere sul caso, si stabilì che Di Pisa non era colpevole di aver sottratto una parte dell'eroina, al fine di non rompere la fragile tregua raggiunta con fatica tra i principali mafiosi del tempo. Ma questa decisione non soddisfò i La Barbera, che non celarono il loro malcontento e reagirono uccidendo Di Pisa.[8][7][4]
Il rapporto redatto dalla Squadra Mobile e dai Carabinieri di Palermo il 31 luglio 1963, anch'esso utilizzato nell'ordinanza del giudice Terranova, indicò Tommaso Buscetta come il principale sicario e sodale dei fratelli La Barbera (da cui si sarebbe subito distaccato per timore di essere ucciso) per poi passare con "Cicchiteddu" Greco ed, infine, con i boss Pietro Torretta e Michele Cavataio, sospettandolo di tutti gli omicidi commessi da quest'ultimo gruppo, compreso quello di Bernardo Diana e il duplice omicidio Garofalo-Conigliaro, ed anche per la strage di Ciaculli, in cui morirono sette uomini delle forze dell'ordine.[8][1][5]
La cronaca di allora presentò la prima guerra di mafia come uno scontro tra due generazioni di mafiosi: i Greco di Ciaculli rappresentanti di una mafia arcaica di tipo agricolo e feudale contrapposti ai La Barbera esponenti di una nuova mafia cittadina dai metodi violenti e spregiudicati mutuati dai gangster italo-americani. Tale narrazione non fu condivisa dagli storici Salvatore Lupo e John Dickie (autori di importanti studi su Cosa nostra), che la considerarono semplicistica[4][9], e nemmeno dal giudice Terranova, che nella sua sentenza-ordinanza scrisse[10]:
«Ancora oggi si continua a parlare di vecchia e nuova mafia, per attribuire alla prima una funzione addirittura di equilibrio o comunque positiva nella società (...), alla seconda invece i caratteri di una delinquenza priva di scrupoli, spietata e sanguinaria, degenere derivato della prima. (...) Basta guardare al fenomeno per quello che è nelle sue attuali manifestazioni: una aberrante forma di delinquenza organizzata, particolarmente pericolosa e dannosa per le sue capillari infiltrazioni nella vita pubblica ed economica, per le esplosioni di sanguinosa violenza, per la oppressione soffocante esercitata in tanti ambienti e settori.»
Nel 1984, Tommaso Buscetta, interrogato dal giudice Giovanni Falcone, diede un'altra versione delle cause del conflitto, che non avrebbe avuto niente a che vedere con la droga. Si sarebbe trattato invece di un complotto organizzato da una coalizione formata da alcuni anziani boss mafiosi della zona ovest di Palermo ostili all'istituzione della "Commissione provinciale" di Cosa nostra, voluta dallo stesso Buscetta e da Salvatore "Cicchiteddu" Greco su consiglio del boss italo-americano Joe Bonanno[11]. La coalizione di dissidenti era capeggiata dai capi delle "famiglie" mafiose dei quartieri di Resuttana (Antonino Matranga), di San Lorenzo (Mariano Troia), di Partanna-Mondello (Vincenzo Nicoletti), dell'Uditore (Pietro Torretta) e dell'Acquasanta (Michele Cavataio), i quali fecero assassinare Calcedonio Di Pisa per far apparire l'omicidio come una ritorsione dei fratelli La Barbera perché un loro picciotto aveva violato le regole contraendo un matrimonio riparatore con la figlia di un uomo della cosca del Di Pisa[12][11].
Stessa spiegazione venne fornita al giudice Falcone da un altro collaboratore di giustizia, Antonino Calderone, che indicò Cavataio come principale ispiratore del complotto ai danni della "Commissione".[13][14]
Buscetta negò di essere stato coinvolto nel conflitto come sicario prima dei La Barbera e poi di Cavataio e Torretta in quanto era molto amico di "Cicchiteddu" Greco, avversario di entrambi i gruppi, ed inoltre affermò di essere fuggito negli Stati Uniti prima della strage di Ciaculli, in cui gli inquirenti lo ritenevano coinvolto[11].
Gli storici Salvatore Lupo e John Dickie ritengono non credibile la versione fornita da Buscetta perché tenderebbe a mettere in secondo piano le sue responsabilità nel conflitto e a negare il ruolo centrale assunto all'epoca da Cosa nostra nel traffico di droga.[4][9]
Dopo la strage di Ciaculli, che scosse l'opinione pubblica nazionale, il governo, nella persona del ministro dell'Interno Mariano Rumor, decise di correre ai ripari: nei mesi successivi furono arrestate duemila persone sospette di legami con Cosa Nostra e la prima Commissione Parlamentare Antimafia iniziò i suoi lavori: la "Commissione" di Cosa Nostra venne sciolta perché molti capi finirono in carcere (come Michele Cavataio, Paolino Bontate, Pietro Torretta, Luciano Liggio, Salvatore Riina e tanti altri)[19][20][21] oppure decisero di riparare all'estero (come Tommaso Buscetta, "Cicchiteddu" Greco e Antonio Salamone)[11][8].
Le indagini furono condotte dal giudice istruttore Cesare Terranova, che, basandosi sui rapporti di polizia e sulle dichiarazioni di diversi testimoni, tra cui quelle della vedova Serafina Battaglia (che aveva avuto il marito e il figlio uccisi per una vendetta mafiosa), di Tancredi Ninive (cognato dello scomparso Salvatore La Barbera) e dell'imprenditore Giuseppe Ricciardi (vittima di estorsioni da parte dei fratelli La Barbera), rinviò a giudizio i protagonisti del conflitto mafioso con le sentenze-istruttorie Angelo La Barbera + 42 (22 giugno 1964)[6] e Pietro Torretta + 120 (8 maggio 1965)[10], poi riunite in un unico processo svoltosi per legittima suspicione a Catanzaro a partire dal 1965 presso la palestra dell'istituto statale Pascoli-Aldisio (noto come "processo dei 117");[22] nel dicembre 1968 venne pronunciata la sentenza ma solo alcuni mafiosi ebbero condanne pesanti: Pietro Torretta venne condannato a 27 anni di carcere per il duplice omicidio Garofalo-Conigliaro; Angelo La Barbera ebbe 22 anni e sei mesi; Salvatore Greco e Tommaso Buscetta (entrambi giudicati in contumacia) furono condannati a dieci anni di carcere ciascuno. Il resto degli imputati furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, siccome avevano aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente[1]. L’effetto, secondo quanto emerge dai successivi rapporti giudiziari firmati – tra gli altri – da Carlo Alberto dalla Chiesa e da Boris Giuliano, fu da un lato conferire “più rinnovato prestigio ed autorità a quanti ne erano usciti indenni” e dall’altro il devastante incremento di sfiducia dell’opinione pubblica”[23].
A seguito delle assoluzioni in massa nel processo di Catanzaro, diversi boss mafiosi tornarono in libertà ed iniziarono ad avere sentore delle responsabilità di Cavataio e dei suoi alleati nell'uccisione di Calcedonio Di Pisa e negli altri omicidi avvenuti durante il conflitto, compresa la strage di Ciaculli[24]; per queste ragioni scatenarono la vendetta contro i responsabili, che si rese necessaria per la ricostruzione dell'organizzazione mafiosa (tranne nei confronti del boss Mariano Troia, deceduto di morte naturale nel 1967)[8]:
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