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creatura mitica Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La manticora (AFI: /manˈtikora/[1]) è una creatura mitica, una sorta di chimera dotata di una testa simile a quella umana, corpo di leone e coda di scorpione, in grado di scagliare spine velenose per rendere inerme la preda (confondendo così la sua immagine con la criptozoologia di un istrice). A volte la manticora può possedere ali di qualche genere. Il nome "manticora" identifica anche un genere di insetto, Insectorum tigrides veloces a detta di Linneo, predatore, appartenente alle Cicindelinae.
Il nome manticora viene dal latino mantichōra, dal greco antico μαντιχώρας?, mantikhṓras o μαρτιοχώρας, martiokhṓras, dall'antico persiano *𐎶𐎼𐎫𐎹-𐎧𐎺𐎠𐎼, *martya-χvāra, «che mangia gli uomini».[2][3]
Il primo a descrivere l'animale era stato Ctesia di Cnido nei suoi Indikà, di cui sopravvive un riassunto nella Biblioteca del patriarca Fozio:
«Ctesia parla anche del manticora, una bestia che si trova presso gli Indiani e che ha il volto simile a quello degli uomini. Questa bestia è grande quanto un leone e ha il colore della pelle di un rosso simile a quello del cinabro; ha i denti disposti su tre file, le orecchie di un uomo e gli occhi glauchi simili a quelli di un uomo. La sua coda assomiglia a quella di uno scorpione di terra, misura più di un cubito ed è munita di un pungiglione. Nella coda, lateralmente, sono disposti, qua e là, altri pungiglioni, oltre a quello che, come nella coda dello scorpione, si trova sulla punta. È con questo pungiglione che il manticora colpisce chi gli si avvicina e chiunque venga da esso ferito trova una morte sicura. Se invece qualcuno lotta con il manticora a distanza, esso, sollevando la coda, si mette a saettare i suoi dardi, come da un arco, contro l'avversario che gli sta di fronte, oppure, voltandosi, cerca di colpirlo da dietro tendendo la sua coda in linea retta. Il manticora riesce a scagliare i suoi dardi fino a cento piedi di distanza e qualsiasi essere vivente venga da essi colpito (ad eccezione dell'elefante) trova una morte certa. I suoi pungiglioni misurano un piede e sono spessi quanto un giunco sottilissimo. Il termine "martichoras" significa in greco "antropofago", proprio per il fatto che questa bestia si nutre per lo più di uomini, oltre che di altri animali. Riesce a combattere anche con le unghie (oltre che con i pungiglioni). I suoi pungiglioni – così dice Ctesia - dopo che sono stati lanciati crescono di nuovo (molti infatti è possibile trovarne in India). In India ci sono molti esemplari di manticora: gli uomini li cacciano a dorso di elefante scagliando da lì le loro frecce.»
Anche Plinio fa riferimento alla descrizione di Ctesia:
«Ctesia scrive che presso gli stessi Etiopi nasce l'animale che egli chiama manticora, con un triplice ordine di denti uniti a forma di pettine, con faccia e orecchie umane, occhi azzurri, colore sanguigno, corpo di leone, e che punge, come lo scorpione, con la coda; la sua voce ricorda un suono di zampogna e insieme di tromba, ha una grande velocità, e soprattutto è avido di carne umana.»
La descrizione è ripresa con più dettagli da Claudio Eliano, che sostiene sempre di citare Ctesia ma colloca la bestia in India e aggiunge all'aculeo lungo un cubito delle spine avvelenate, scagliabili all'occorrenza. L'unico animale che può tener testa alla manticora è il leone, però gli Indiani riescono a catturarne i cuccioli ancora privi di aculei e gli mozzano la coda, per renderli inoffensivi e portarli a spasso, tanto è vero che ne hanno regalato uno al re di Persia. Il vero nome sarebbe martikhoras (dal persiano mardkhora, "mangia uomini")[5].
Pausania non sembra molto convinto e ipotizza che si tratti di una versione distorta della tigre indiana, malgrado tripla fila di denti e aculeo non corrispondano[6].
Anche Filostrato avrebbe cercato la manticora in India, secondo quanto racconta nella biografia romanzata di Apollonio di Tiana[7].
Ad ogni modo, la manticora sopravvive e si moltiplica nei bestiari medioevali[8], spesso assunta come simbolo della tirannia e dell'invidia, o più alla grossa del demonio[9]. Ne parla Brunetto Latini[10], e forse ha suggestionato anche Dante Alighieri, nei tratti di un mostro della Divina Commedia[11].
Nei secoli successivi la ritroviamo in Topsell[12] e Rabelais[13], e in Gustave Flaubert[14]:
La manticora (gigantesco leone rosso, dal volto umano, con tre filari di denti):
«I marezzi del mio pelame scarlatto si confondono col riverbero delle grandi sabbie. Soffio dalle narici lo spavento delle solitudini. Sputo la peste. Mangio gli eserciti, quando s'avventurano nel deserto. Ho le unghie ritorte a succhiello, i denti tagliati a sega; e la mia coda roteante è irta di dardi che lancio a destra, a sinistra, in avanti, in dietro. Guarda! Guarda! (la manticora lancia le spine della coda, che si irradiano come frecce in tutte le direzioni. Gocce di sangue piovono schioccando sul fogliame.)»
Molti hanno concluso che si tratti della tigre del Caspio, e questo perché le citazioni partono da Ctesia, che viveva in Persia.
Ma, a parte il fatto che Plinio sostiene di citare Ctesia anch'egli e parla di Etiopia, nessun felino ha voce di trombetta o vive nei luoghi aridi e rocciosi amati dalla manticora, e comunque i persiani conoscevano già la tigre, quindi non avrebbe avuto senso parlarne in termini distorti. Neppure può trattarsi di un mito venuto dall'India, perché il tipico mostro indiano mangiatore di uomini, il rākṣasa, ha il corpo umano e solo la testa di tigre, cioè l'esatto contrario della manticora (il che può forse aver generato una sovrimpressione dei miti).
Un'altra possibile spiegazione della stranezza della manticora sarebbe da ricercare nel repertorio iconografico dell'arte persiana e babilonese. Dal momento che Ctesia di Cnido era stato prigioniero nella corte degli Achemenidi, è possibile ipotizzare che abbia deciso di creare una versione letteraria di un motivo assai diffuso nell'arte orientale. Ctesia in altre parole avrebbe descritto il Lamassu, demone benevolo con il corpo di toro (e talvolta, appunto, di leone) e con il volto di un uomo persiano barbuto, attribuendo ad esso non poteri magici o divini, ma tratti felini e cannibaleschi.
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