L'imperfezione che caratterizza l'uomo fa sì che le cure agiscano molto più lentamente di quanto non facciano i mali; e come i nostri corpi s'accrescono con lentezza, ma si dissolvono in un istante, così l'intelletto e le sue opere sono molto più facili da soffocare che da riportare in vita. (3)
Natura tamen infirmitatis humanae tardiora sunt remedia quam mala; et ut corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris facilius quam revocaveris.
Questa cosa ingiustissima segue in ogni guerra, che tutti si arrogano il merito dei prosperi successi, e gli avversi ad un solo sono rimproverati. (27, 1)
Iniquissima haec bellorum conditio est, prospera omnes sibi vindicant, adversa uni imputantur.
Al di là (di noi, di questa terra) non c'è più nessuna gente, niente se non flutti e scogli e, più ostili, i Romani, la cui arroganza invano cercheresti di evitare tramite l'ossequio e la moderazione. Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla loro sete di totale devastazione vanno a frugare anche il mare. Avidi se il nemico è ricco e arroganti se è povero. Gente che né l'oriente né l'occidente possono saziare. Solo loro bramano possedere con pari smania ricchezza e miseria. Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano impero. Laddove fanno il deserto, lo chiamano pace. (30)
Nulla iam ultra gens, nihil nisi fluctus ac saxa, et infestiores Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, et mare scrutantur; si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.[1]
Pensate ai vostri avi, pensate ai posteri. (32)
Et maiores et posteros vestros cogitate.
Un'onesta morte è migliore d'una vita vergognosa. (33)
Honesta mors turpi vita potior.
È proprio della natura umana odiare colui al quale si è recato danno. (42)
Urbem Romam a principio reges habuere; libertatem et consulatum L. Brutus instituit. Dictaturae ad tempus sumebantur; neque decemviralis potestas ultra biennium neque tribunorum militum consulare ius diu valuit. Non Cinnae, non Sullae longa dominatio, et Pompei Crassique potentia cito in Caesarem, Lepidi atque Antonii arma in Augustum cessere, qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis sub imperium accepit.
[Publio Cornelio Tacito, Annali, in Id., Tutte le opere, Newton Compton, 2013. ISBN 978-88-541-5869-6.]
Luigi Annibaletto
La città di Roma nei primi tempi l'ebbero in mano i re; poi L. Bruto istituì, con la libertà, il consolato. Il potere dittatoriale veniva assunto per un periodo limitato e l'autorità dei decemviri non andò oltre i due anni, né poté durare a lungo il potere consolare affidato ai tribuni dei soldati. Breve fu il dominio di Cinna, come pure quello di Silla. La potenza di Pompeo e di Crasso passò ben presto a Cesare e le forze armate di Lepido e di Antonio si concentrarono nelle mani di Augusto, il quale accolse sotto il suo dominio, col nome di "principe", il mondo intero spossato dalle guerre civili.
[Publio Cornelio Tacito, Gli annali, traduzione di Luigi Annibaletto, Garzanti, 1974]
Azelia Arici
Da principio, la città di Roma fu possesso di re; L. Bruto vi introdusse, col consolato, la libertà. Le dittature si assumevano temporaneamente; il potere dei decemviri durò non oltre un biennio, e nemmeno i tribuni militari mantennero a lungo l'autorità consolare. Non fu durevole il dispotismo di Cinna né di Silla, e la potenza di Pompeo e di Crasso passò presto nelle mani di Cesare, le armi di Lepido e di Antonio in quelle di Augusto; il quale, col titolo di principe, ridusse in suo potere lo Stato, stanco delle lotte civili.
Bernardo Davanzati
Roma da principio ebbe i re: da Lucio Bruto la libertà, e 'l consolato. Le dettature erano a tempo. La podestà de dieci non resse oltre due anni: ne molto l'autorità di Consoli ne' Tribuni de' Soldati. Non Cinna, non Silla signoreggiò lungamente. La potenza di Pompeo, e di Crasso tosto in Cesare, e l'armi di Lepido, e d'Antonio caddero in Augusto. il quale trovato ognuno stracco per le discordie civili, con titolo di Principale si prese il tutto.
[G. Cornelio Tacito, Annali, in Opere, traduzione di Bernardo Davanzati, Pietro Nesti, 1637.]
Camillo Giussani
Primi i re tennero in Roma il potere. Libertà e consolato istituì Lucio Bruto. La dittatura assumevasi temporanea; non oltre due anni si mantenne la potestà dei decemviri, né fu per molto tempo in vigore quella dei tribuni militari con autorità consolare. Neppure lungamente durò il dominio di Cinna e non quello di Silla.
[Publio Cornelio Tacito, Gli annali, traduzione di Camillo Giussani, Mondadori, 1942]
Lidia Storoni Mazzolani
Ai primordi, Roma appartenne ai re. Lucio Bruto introdusse la libertà e il consolato. Le dittature venivano assunte temporaneamente, il potere dei decemviri mai per più di due anni né più a lungo il potere consolare dei tribuni militari. La dominazione di Cinna e di Silla non ebbe lunga durata; la signoria di Crasso ben presto passò a Cesare, le forze armate di Lepido e di Antonio ad Augusto; questi, con il titolo di principe, assunse il potere supremo dello Stato, stremato dalle guerre civili.
Citazioni
Le vicende, liete e dolorose, dell'antico popolo romano furono tramandate da illustri scrittori e a narrare dei tempi di Augusto non mancarono splendidi ingegni.[2] (I, 1; 1974, p. 3)
Sed veteris populi Romani prospera vel adversa claris scriptoribus memorata sunt; temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia.
Le richieste presentate in comune ci vuol tempo perché siano soddisfatte; ma un favore personale si può meritare subito e subito riceverlo. (Clemente: I, 28; 1974, p. 25 sg.)
Tarda sunt quae in commune expostulantur: privatam gratiam statim mereare, statim recipias.
[...] il volgo non conosce moderazione: se non ha paura, minaccia, se invece è spaventato, lo si può calpestare impunemente. (I, 29; 2013)
[...] nihil in vulgo modicum; terrere, ni paveant; ubi pertimuerint, impune contemni [...].
Il volgo infatti ha sempre bisogno di incolpare qualcuno, anche senza ragione [...]. (I, 39; 2013)
Utque mos vulgo quamvis falsis reum subdere [...].
La maestà imperiale [...] incute tanto maggior riverenza quanto più è lontana. (I, 47; 1974, p. 39)
[...] maiestate [...] maior e longinquo reverentia.
[Per i barbari] quanto più uno è deciso e audace, tanto più lo ritengono degno di fiducia e in caso di rivolta gli attribuiscono ogni virtù. (I, 57; 1974, p. 46)
[...] quanto quis audacia promptus, tanto magis fidus rebusque motis potior habetur.
[...] la verità è creduta quando la si è vista chiaramente a lungo, la menzogna invece se la si intravede di sfuggita [...]. (II, 39; 2013)
[...] veritas visu et mora, falsa festinatione et incertis valescunt [...].
Nulla però dispiacque di più a Tiberio quanto il calore d'affetto manifestato dal popolo ad Agrippina: la chiamavano onore della patria, sola rimasta del sangue di Augusto, esemplare unico della virtù antica [...]. (III, 4; 2013)
Nihil tamen Tiberium magis penetravit quam studia hominum accensa in Agrippinam, cum decus patriae, solum Augusti sanguinem, unicum antiquitatis specimen appellarent [...].
A me, quanto più rifletto sia sugli avvenimenti odierni sia su quelli antichi, tanto più sembra che risulti lo scherno della sorte in tutte le vicende dei mortali [...]. (III, 18; 2013)
Mihi, quanto plura recentium seu veterum revolvo, tanto magis ludibria rerum mortalium cunctis in negotiis obversantur.
Tanta è l'incertezza intorno agli avvenimenti più importanti, perché alcuni tengono per accertato tutto quanto sentono dire, altri dànno alla verità l'aspetto contrario: ed entrambi i mali si aggravano col tempo. (III, 19; 1952, p. 193)
Adeo maxima quaeque ambigua sunt, dum alii quoquo modo audita pro compertis habent, alii vera in contrarium vertunt, et gliscit utrumque posteritate.
[...] aumentò il degrado dello Stato quanto più furono numerose le leggi. (III, 27; 2013)
[...] corruptissima re publica plurimae leges.
[...] per volontà del destino è raro che il potere duri per sempre: o subentra la sazietà nei principi, quando hanno concesso ogni cosa, o in quelli ai quali non resta più nulla da desiderare. (III, 30; 2013)
[...] fato potentiae raro sempiternae, an satias capit aut illos, cum omnia tribuerunt, aut hos, cum iam nihil reliquum est quod cupiant.
[Tito Livio] autore fra i più illustri per eloquenza e per attendibilità, esaltò con tanto entusiasmo Pompeo che Augusto lo chiamava Pompeiano. (IV, 34; 1974, p. 188)
Titus Livius, eloquentiae ac fidei praeclarus in primis, Cn. Pompeium tantis laudibus tulit ut Pompeianum eum Augustus appellaret.
Ma forse in tutte le cose si verifica quasi una roteazione, e i costumi hanno un ciclo, come le stagioni [...]. (III, 55; 2013)
Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices, ita morum vertantur [...].
Bruttedio, fornito di buone qualità, avrebbe potuto salire in alto se avesse seguito la via retta, ma spronato dall'impazienza di raggiungere posti elevati, aveva cercato di sorpassare quelli che gli erano pari, poi i superiori, infine persino le proprie ambizioni: cosa che ha spinto molti onesti alla rovina. Sdegnando ciò che avrebbero potuto ottenere gradatamente con sicurezza, vollero impadronirsene subito e si rovinarono. (III, 66; 2013)
Bruttedium artibus honestis copiosum et, si rectum iter pergeret, ad clarissima quaeque iturum festinatio exstimulabat, dum aequalis, dein superiores, postremo suasmet ipse spes anteire parat; quod multos etiam bonos pessum dedit, qui spretis quae tarda cum securitate, praematura vel cum exitio properant.
I primi approcci al potere sono ardui; ma, non appena hai percorso i primi passi, ecco sùbito i sostenitori, i seguaci [...]. (IV, 7; 2013)
Primas dominandi spes in arduo: ubi sis ingressus, adesse studia et ministros.
[...] i beneficii infatti sono graditi fino a quando ci si crede capaci di sdebitarsi, ma quando divengono eccessivi anziché gratitudine suscitano odio. (IV, 18; 2013)
Nam beneficia eo usque laeta sunt, dum videntur exsolvi posse: ubi multum antevenere, pro gratia odium redditur.
[...] mi trovo costretto a chiedermi se non dipenda dal destino e dalla sorte nel nascere, come tutte le altre cose, anche la simpatia dei principi verso alcuni, l'avversione verso altri, oppure se qualche cosa dipenda dalla nostra saggezza; e se tra la sdegnosa arroganza e il disonorevole servilismo sia possibile percorrere una strada che non sia né vile né pericolosa. (IV, 20; 2013)
Unde dubitare cogor, fato et sorte nascendi, ut cetera, ita principum inclinatio in hos, offensio in illos, an sit aliquid in nostris consiliis liceatque inter abruptam contumaciam et deforme obsequium pergere iter ambitane ac periculis vacuum.
[...] tutte le nazioni e le città sono rette o dal popolo o dagli ottimati o da un solo principe: una forma di governo composta di elementi scelti tra quelli ed insieme contemperati è più facile lodarla che attuarla: o, se pure si realizza, non può essere durevole. (IV, 33; 1952, p. 266)
[...] cunctas nationes et urbes populus aut primores aut singuli regunt: delecta ex iis et cons<o>ciata rei publicae forma laudari facilius quam evenire, vel, si evenit, haud diuturna esse potest.
Tanto più è meritevole di scherno la pochezza di coloro che, in possesso del potere presente, si illudono di poter spegnere anche la memoria nelle età successive. Ché anzi cresce il prestigio degli ingegni condannati e i sovrani stranieri o quelli che hanno usato la stessa crudeltà altro non hanno ottenuto che un disonore per sé e gloria per le loro vittime. (IV, 35; 2013)
Quo magis socordia<m> eorum inridere libet, qui praesenti potentia credunt exstingui posse etiam sequentis aevi memoriam. Nam contra punitis ingeniis gliscit auctoritas, neque aliud externi reges aut qui eadem saevitia usi sunt nisi dedecus sibi atque illis gloriam peperere.
[...] una volta dato sfogo alle proprie afflizioni, è difficile indursi a tacere. (IV, 69; 2013)
[...] ubi semel prorupere, difficilius reticentur.
Nell'animo mio [...] permane il dubbio se le cose mortali sono dominate dal fato o da una necessità inflessibile o dal caso. Infatti troverai nei sommi pensatori del passato, e in molti odierni che oggi seguono le loro dottrine, la convinzione che gli dèi non si curano dell'inizio e del termine della nostra esistenza, in una parola del genere umano. Troppo spesso infatti le sventure colpiscono i buoni, la fortuna arride ai malvagi. Altri invece ritengono che gli avvenimenti siano legati al destino e non dipendano dal vago cammino degli astri, bensì da cause prime e dalle conseguenze che ne derivano naturalmente; tuttavia, che ci sia lasciata la facoltà di scegliere la nostra esistenza e, una volta che l'abbiamo scelta, ne consegue un ordine ineluttabile di eventi, che non sono né cattivi né buoni, anche se così vengono chiamati. Infatti molti, che sembrano lottare con le avversità, sono felici, altri invece, pur essendo ricchi, sono profondamente infelici e ciò dipende dal fatto che i primi sanno sopportare la sorte avversa con animo fermo, altri invece vivono da incoscienti la loro fortuna. (VI, 22; 2013)
Sed mihi [...] in incerto iudicium est, fatane res mortalium et necessitate immutabili an forte volvantur. Quippe sapientissimos veterum quique sectam eorum aemulantur diversos reperies, ac multis insitam opinionem non initia nostri, non finem, non denique homines dis curae; ideo creberrime tristia in bonos, laeta apud deteriores esse. Contra alii fatum quidem congruere rebus putant, sed non e vagis stellis, verum apud principia et nexus naturalium causarum; ac tamen electionem vitae nobis relinquunt, quam ubi elegeris, certum imminentium ordinem. Neque mala vel bona, quae vulgus putet: multos, qui conflictari adversis videantur, beatos, at plerosque, quamquam magnas per opes, miserrimos, si illi gravem fortunam constanter tolerent, hi prospera inconsulte utantur.
[...] il potere del popolo tende alla libertà, quello dei pochi al dispotismo. (VI, 42; 2013)
[...] populi imperium iuxta libertatem, paucorum dominatio regiae libidini propior est.
Se nessuno ne traesse profitto, i processi sarebbero meno frequenti; ora si attizzavano inimicizie, denunce, odii, ingiurie affinché, come la virulenza delle malattie incrementa il guadagno dei dottori, così la peste dei processi porta denaro agli avvocati. (XI, 6; 2013)
Quodsi in nullius mercedem negoti<afi>ant, pauciora fore: nunc inimicitias accusationes, odia et iniurias foveri, ut quo modo vis morborum pretia medentibus, sic fori tabes pecuniam advocatis ferat.
[...] nessuno intraprende un'attività senza aver calcolato in precedenza il profitto che ne ricaverà. (XI, 7; 2013)
[...] nihil a quoquam expeti, nisi cuius fructus ante providerit.
[...] i delitti più tremendi si incominciano pericolosamente, ma si conducono a termine vantaggiosamente. (XII, 67; 2013)
[...] summa scelera incipi cum periculo, peragi cum praemio.
Chi si trova al vertice del potere si conduce meglio con gli auspici e con i consigli che con le braccia. (XIII, 6; 2013)
Pluraque in summa fortuna auspiciis et consiliis quam telis et manibus geri.
Non c'è cosa tanto instabile e passeggera a questo mondo quanto la reputazione d'un potere che si fonda su forze non sue. (XIII, 19; 2013)
Nihil rerum mortalium tam instabile ac fluxum est quam fama potentiae non sua vi nixa.
[...] il volgo, sempre avido di divertimenti e tanto più esultante se riscontra nel principe i suoi stessi gusti. (XIV, 14; 2013)
[...] est vulgus cupiens voluptatum et, si eodem princeps trahat, laetum.
[...] l'atteggiamento di superiorità degli Stoici [...] produce soltanto uomini irrequieti e ambiziosi. (XIV, 57; 2013)
[...] Stoicorum adrogantia sectaque [...] turbidos et negotiorum adpetentes faciat.
Di fronte all'imprevisto anche i prodi si sgomentano [...]. (XV, 59; 2013)
Etiam fortes viros subitis terreri [...].
Molte imprese all'atto pratico riescono, eppure erano apparse ardue ai codardi. (XV, 59; 2013)
Multa experiendo confieri, quae segnibus ardua videantur.
Germania omnis a Gallis Raetisque et Pannoniis Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo metu aut montibus separatur; cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens, nuper cognitis quibusdam gentibus ac regibus, quos bellum aperuit.
Carlo Canilli
L'intera Germania è separata dai Galli, dai Reti e dai Pannoni per mezzo dei due fiumi Reno e Danubio, e dai Sarmati e dai Daci per mezzo del vicendevole timore o dei monti; le altre parti sono bagnate dall'Oceano, che abbraccia vaste penisole ed isole di smisurata estensione, perché se ne sono di questi tempi conosciuti alcune genti e alcuni re, che ci ha rivelati la guerra.
Citazioni
L'esercizio procura la destrezza [...]. (cap. XXIV, p. 103)
Exercitatio artem paravit [...].
È bello per le donne piangere, per gli uomini ricordare. (cap. XXVII, p. 115)
Feminis lugere honestum est, viris meminisse.
[...] la velocità si accosta alla paura, la lentezza è più vicina alla costanza. (cap. XXX, p. 131)
[...] velocitas iuxta formidinem, cunctatio proprior constantiae est.
[...] a torto credi di star in pace frammezzo a popoli prepotenti e forti [...]. (cap. XXXVI, p. 149)
[...] inter impotentes et validos falso quiescat [...].
[...] gli occhi sono i primi ad esser vinti in tutte le battaglie. (cap. XLIII, p. 185)
[...] primi in omnibus proelis oculi vincuntur [...].
Initium mihi operis Servius Galba iterum Titus Vinius consules erunt. Nam post conditam urbem octingentos et viginti prioris aevi annos multi auctores rettulerunt, dum res populi Romani memorabantur pari eloquentia ac libertate; postquam bellatum apud Actium atque omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit, magna illa ingenia cessere; simul veritas pluribus modis infracta, primum inscitia rei publicae ut alienae, mox libidine adsentandi aut rursus odio adversus dominantis; ita neutris cura posteritatis inter infensos vel obnoxios.
Giuseppe Lipparini
Comincerò quest'opera dal consolato di Servio Galba, console la seconda volta, e di Tito Vinio. Poiché, dalla fondazione dell'Urbe, molti autori narrarono gli ottocentrent'anni della passata età, e, finché si raccontavan le imprese del popolo Romano, con eloquenza pari alla libertà; ma dopo la battaglia di Azio, quando il conferire ad un solo tutto il potere fu interesse della pace, quei grandi ingegni disparvero: insieme, la verità fu in più modi infranta, in primo luogo per ignorar le cose di uno Stato che era come d'altri, e poi per ismania di adulare o, all'incontro, per odio contro i dominanti: talché, fra nemici e servi, nessuno si prese cura della posterità.
Citazioni
[...] nell'adulazione si trova uno sconcio delitto di servitù, e nella malignità appare un falso aspetto di libertà. (I, 1; vol. I, p. 27)
[...] adulationi foedum crimen servitutis, malignitati falsa species libertatis inest.
[...] chi fa professione di fede incorrotta deve senza amore e senz'odio parlar di ciascuno. (I, 1; vol. I, p. 27)
[...] incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est.
[...] questa rara felicità dei tempi ove pensar come vuoi e dir quel che pensi è permesso. (I, 1; vol. I, p. 27)
[...] rara temporum felicitate ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet.
[...] ciò che ti attende per destino, anche se svelato, non si evita. (I, 18; vol. I, p. 53)
[...] quae fato manent, quamvis significata, non vitantur.
Sospetto sempre e malvisto dai dominanti, chi è indicato come il più vicino a succedere. (I, 21; vol. I, p. 59)
Suspectum semper invisumque dominantibus qui proximus destinaretur.
La morte, che da natura è a tutti sorte comune, si distingue presso i posteri in gloria e in oblio; e se una medesima sorte attende il buono e il reo, tocca ai coraggiosi morir per un fine. (I, 21; vol. I, p. 59)
Mortem omnibus ex natura aequalem oblivione apud posteros vel gloria distingui; ac si nocentem innocentemque idem exitus maneat, acrioris viri esse merito perire.
[...] quella avidità che ha l'uomo di credere più volentieri al mistero. (I, 22; vol. I, p. 61)
[...] il delitto si giova della fretta, le buone deliberazioni con l'indugiare guadagnano [...]. (I, 32; vol. I, pp. 73 e 75)
[...] scelera impetu, bona consilia mora valescere [...].
[...] la viltà è malsicura; anche se si dovrà soccombere, bisogna affrontare il pericolo [...]. (I, 33; vol. I, p. 75)
[...] intuta quae indecora; vel si cadere necesse sit, occurrendum discrimini [...].
[...] all'odio è più facile credere. (I, 34; vol. I, p. 75)
[...] facilius de odio creditur.
[Detto di Otone che bacia e stringe le mani al popolo] [...] agire da servo per esser signore. (I, 36; vol. I, p. 79)
[...] omnia serviliter pro dominatione.
[...] l'avarizia e l'arroganza, vizi speciali dei più forti [...]. (I, 51; vol. I, p. 103)
[...] avaritia et adrogantia, praecipua validiorum vitia [...].
[...] fra i malvagi è più facile accordarsi per la guerra che esser concordi in pace. (I, 54; vol. I, pp. 107 e 109)
[...] faciliore inter malos consensus ad bellum quam in pacem ad concordiam.
[...] tale essendo la natura degli uomini, di seguir prontamente ciò che non si osa di cominciare. (I, 55; vol. I, p. 109)
[...] insita mortalibus natura, propere sequi quae piget inchoare.
[...] nelle discordie civili nulla è più sicuro della prontezza, allorché v'è più bisogno di agire che di discutere. (I, 62; vol. I, p. 117)
[...] nihil in discordiis civilibus festinatione tutius, ubi facto magis quam consulto opus esset.
[...] i più perversi, per diffidenza del presente temendo un mutamento di cose, si preparano contro il pubblico odio il favore privato: onde nessuna cura dell'innocenza, ma uno scambio d'impunità. (I, 72; vol. I, p. 133)
[...] pessimus quisque diffidentia praesentium mutationem pavens adversus publicum odium privatam gratiam praeparat: unde nulla innocentiae cura, sed vices impunitatis.
[...] è naturale negli uomini l'esaminar con occhio aguzzo la nuova fortuna degli altri, ed esigere moderazione nella fortuna sopra tutto da quelli che videro già loro pari. (II, 20; vol. I, p. 195)
[...] insita mortalibus natura recentem aliorum felicitatem acribus oculis introspicere modumque fortunae a nullis magis exigere quam quos in aequo viderunt.
[...] i forti e i valorosi, anche contro la fortuna persistono nella speranza, i timidi e i vili si affrettano a disperar per paura. (II, 46; vol. I, p. 233)
[...] fortis et strenuos etiam contra fortunam adversa insistere spei, timidos et ignavos ad desperationem formidine properare.
[...] chi vuole l'impero non ha via di mezzo fra i precipizi e le cime. (II, 74; vol. I, p. 271)
[...] imperium cupientibus nihil medium inter summa aut praecipitia.
[...] presso i vinti ci son più lamentele che forze. (II, 75; vol. I, p. 271)
[...] apud victos plus querimoniarum quam virium.
[...] si crede sempre più grandi le cose lontane [...]. (II, 83; vol. I, p. 285)
[...] maiora credi de absentibus [...].
Ma la grandezza non è mai abbastanza sicura quando è troppa [...]. (II, 92; vol. I, p. 299)
[...] nec umquam satis fida potentia, ubi nimia est [...].
[...] nelle civili discordie può l'audacia anche dei singoli [...].(III, 57; vol. II, p. 99)
[...] civilibus discordiis etiam singulorum audacia valet [...].
[...] nella paura si ascoltano così i consigli dei savi come le voci del volgo. (III, 58; vol. II, pp. 101 e 103)
[...] in metu consilia prudentium et volgi rumor iuxta audiuntur.
[...] tutte le cose con inconsulto impeto intraprese, nel principio son gagliarde e col tempo languiscono [...]. (III, 58; vol. II, p. 103)
[...] omnia inconsulti impetus coepta initiis valida spatio languescunt [...].
Pace e concordia sono utili ai vinti; pei vincitori, solamente onorevoli. (III, 70; vol. II, p. 121)
Pacem et concordiam victis utilia, victoribus tantum pulchra esse.
[Vitellio] Era tuttavia bonario e liberale: virtù che, se non c'è misura, menano a rovina. (III, 86; vol. II, p. 147)
Inerat tamen simplicitas ac liberalitas, quae, ni adsit modus, in exitium vertuntur.
[...] fra gli imbrogli e le discordie chi più è malvagio, più può: ma alla pace e alla quiete ci vuol la virtù. (IV, 1; vol. II, pp. 151 e 153)
[...] inter turbas et discordias pessimo cuique plurima vis, pax et quies bonis artibus indigent.
Tanto è più agevole restituir l'ingiuria che il beneficio, perché la riconoscenza si stima un peso; ma il vendicarsi, un guadagno. (IV, 3; vol. II, p. 155)
Tanto proclivius est iniuriae quam beneficio vicem exolvere, quia gratia oneri, ultio in quaestu habetur.
[...] la passion per la gloria è l'ultima di cui si spogliano anche i sapienti. (IV, 6; vol. II, p. 157)
[...] etiam sapientibus cupido gloriae novissima exuitur.
Non v'è miglior mezzo dei buoni amici, per comandar bene. (IV, 7; vol. II, p. 161)
Nullum maius boni imperii instrumentum quam bonos amicos esse.
Come ai pessimi imperatori piace una signoria senza confine, così anche i più egregi amano la moderazione. (IV, 8; vol. II, p. 163)
Quomodo pessimis imperatoribus sine fine dominationem, ita quamvis egregiis modum libertatis placere.
La natura ha dato anche ai muti animali la libertà, ma la virtù è un bene proprio dell'uomo. (IV, 17; vol. II, p. 177)
Libertatem natura etiam mutis animalibus datam, virtutem proprium hominum bonum [...].
Gli dei stanno coi più forti [...]. (IV, 17; vol. II, p. 179)
Deos fortioribus adesse [...].
[...] la frode e l'inganno sono all'oscuro e però[intendi: perciò] inevitabili. (IV, 24; vol. II, p. 189)
[...] fraudem et dolum obscura eoque inevitabilia.
[...] gli amici col tempo, con la fortuna, con le passioni alle volte e con gli errori diminuiscono, se ne vanno, cessano [...]. (IV, 52; vol. II, p. 235)
[...] amicos tempore, fortuna, cupidinibus aliquando aut errorihus imminui, transferri, desinere [...].
[...] gli odii fra parenti sono i più aspri [...]. (IV, 70; vol. II, p. 267)
[...] acerrima proximorum odia sunt [...].
[Parlando ai Galli delle mire espansionistiche dei Germani] [...] mettono avanti la libertà e altri nomi speciosi; e non c'è mai stato nessuno che abbia desiderato per sé la servitù e il dominio altrui, senza usurpare codesti medesimi nomi. (Quinto Petilio Ceriale: IV, 73; vol. II, p. 275)
[...] libertas et speciosa nomina praetexuntur; nec quisquam alienum servitium et dominationem sibi concupivit ut non eadem ista vocabula usurparet.
Finché vi saranno uomini, vi saranno vizi [...]. (Quinto Petilio Ceriale: IV, 74; vol. II, p. 275)
Vitia erunt, donec homines [...].
El medesimo Cornelio Tacito a chi bene lo considera, insegna per eccellenzia come s'ha a governare chi vive sotto e' tiranni. (Francesco Guicciardini)
Fino a quei tempi il Vico ammirava due soli sopra tutti gli altri dotti, che furono Platone e Tacito; perché con una mente metafisica incomparabile Tacito contempla l'uomo qual è. (Giambattista Vico)
Il gusto poi che si riceve dal modo di Tacito consiste prima nello stile laconico, il quale tanto più piace dello asiatico quanto il vino puro dell'inacquato. Secondo, è di gran sodisfazione il non perder tempo a legger molte righe nelle quali non sia qualche insegnamento. Terzo, l'oscurità sua dà grandissimo gusto a chiunque, affaticandosi, ne trova il vero senso, giudicandolo parto del proprio intelletto; il quale, ricevendo occasione da quelle sentenze d'uscir fuori della cosa che legge ed uscendo senza ingannarsi, riceve quel godimento che trar sogliono gli uditori delle metafore per consentimento di chi ne ha scritto. (Virgilio Malvezzi)
Insegna molto bene Cornelio Tacito a chi vive sotto e' tiranni el modo di vivere e governarsi prudentemente, così come insegna a' tiranni e' modi di fondare la tirannide. (Francesco Guicciardini)
Io già predico, né la mia predizione è fallace, che le tue istorie saranno immortali. (Plinio il Giovane)
L'opera di Tacito è buona per uomini d'età provetta, i giovani non possono capirla: bisogna imparare a scorgere nelle azioni umane i primi lineamenti del cuore umano, prima di volerne sondare le profondità; bisogna saper leggere bene nei fatti prima di leggere nelle massime. (Jean-Jacques Rousseau)
Ma ciò, che in Tacito piace sopra ogni cosa, si è, ch'egli è uno Storico Filosofo. Ei non è pago di narrar ciò che avvenne: ne esamina le ragioni, ne scuopre il mistero, ne osserva i mezzi, ne spiega gli effetti: egli sviscera in somma, e scioglie, e analizza ogni cosa. Ma non cade egli ancora nel difetto del secolo, cioè in un soverchio raffinamento di pensiero e di espressione? I fini politici, e gli occulti misteri, ch'ei trova negli avvenimenti, vi ebbero veramente parte, o non furon anzi immaginati spesso da lui per desiderio di comparire profondo indagatore degli animi e de' pensieri? Le sentenze non sono elleno sparse con mano troppo liberale; e non son talvolta raffinate e ingegnose, anziché verisimili e naturali? La precisione e la forza non passa ella spesso i giusti confini, e non rende il discorso oscuro, difficile, intralciato? Questi sono i difetti, cui sembra di scorgere in Tacito, a chiunque prende a leggerlo attentamente. (Girolamo Tiraboschi)
Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona propria. (Giacomo Leopardi)
Non conosco autore che introduca in una storia di eventi pubblici tante considerazioni sui costumi e le inclinazioni particolari. E penso il contrario di quel che pensa lui: che dovendo in particolar modo seguire le vite degli imperatori del suo tempo, così diverse ed estreme in ogni sorta di forme, e tante azioni notevoli che proprio la loro crudeltà determinò nei sudditi, aveva una materia più forte e attraente da trattare e da narrare che se avesse dovuto parlare di battaglie e sconvolgimenti universali; tanto che spesso lo trovo sterile, quando sorvola rapidamente su quelle belle morti, come se temesse di annoiarci con il loro numero e la lunghezza del racconto. Questo tipo di storia è di gran lunga il più utile: i moti pubblici dipendono piuttosto dalla condotta della fortuna, quelli privati dalla nostra. È più un giudizio che un'esposizione di storia: ci sono più precetti che racconti. Non è un libro da leggere, è un libro da studiare e da imparare; è così pieno di sentenze che ve ne sono a dritto e a rovescio: è un vivaio di riflessioni morali e politiche, per profitto e ornamento di coloro che occupano un posto nel governo del mondo. Egli perora sempre con ragioni solide e vigorose, in modo acuto e sottile, secondo lo stile ricercato del tempo; amavano tanto agghindarsi che quando non trovavano acutezza e finezza nelle cose, la traevano dalle parole. Si avvicina non poco alla scrittura di Seneca; lui mi sembra più polputo, Seneca più acuto. È particolarmente utile a uno Stato confuso e malato come il nostro attuale: direste spesso che ci dipinge e ci punge. Quelli che dubitano della sua buonafede si accusano a sufficienza di volergli male per altro verso. Ha opinioni sane e propende per il partito buono nelle faccende di Roma. (Michel de Montaigne)
Quell'anima ardita e maschile, quello stile che va nelle viscere dell'uomo come una lama infuocata, quelle alte e tremende virtù e quelle spaventose turpitudini che scolpisce nel diaspro. (Giuseppe Giusti)
Tacito fu monarchico per necessità, si potrebbe dire per disperazione. (Theodor Mommsen)
Tacito, maestro di concisione sintesi e intensificazione verbale, è lo scrittore latino più futurista e molto più futurista dei maggiori scrittori moderni. Ad esempio: Gabriele d'Annunzio. (Filippo Tommaso Marinetti)
Tacito s'era persuaso che la divinità non avesse alcun diretto rapporto coi fatti umani, che anche i prodigi avvenissero sine cura deum; spesso gli veniva il dubbio, non forse un certo fatale movimento affatichi gli esseri senza lasciar posa mai, oppure il caso li governi; ma questo con certezza sapeva, che la prima ragione degli atti umani sta nelle passioni dei singoli e nell'indole generale dell'umanità. Tale persuasione lo condusse a fare delle profonde osservazioni psicologiche, e di qui la sua abilità nel ritrarre i caratteri, di qui le belle e vere sentenze che egli opportunamente intrecciò al racconto, dandogli lume e varietà. (Felice Ramorino)
Tacito respinge ciò che è futile o laido o grossolano. La sua opera non vuole essere uno stimolo alla curiosità o una raccolta compiacente di episodi minuziosi.
La sua storia è strettamente politica, e considera l'uomo soltanto come attore o come strumento della vicenda politica: escluso quanto esista di attività individuale, oltre questo limite.
Lo stile di Tacito è stile dotto per eccellenza, con le sue cesellature raffinate, con le sue esclusioni meditate, con le sue novità inaudite; è lo stile più personale che ci offrano le letterature di ogni tempo, ed è pure il più intraducibile nel linguaggio comune. Tacito non si può tradurre, fedelmente, in nessuna lingua del mondo: sarebbe ridurlo allo stato selvaggio. Lo stile di Tacito è inimitabile, come il suo pensiero. La brevità e la varietà sono gli espedienti dell'inatteso, non le regole di un genere stilistico determinato. Così pure il suo pensiero è analitico, non costruttivo: è anch'esso fuori degli schemi generici. È il pensiero di un uomo solo posto di fronte al resto degli uomini. Egli muove da una tradizione che vorrebbe ristorata, da un dubbio che vorrebbe risoluto: ma più penetra nella realtà, più egli resta solo col proprio pensiero e sente svanire la certezza assoluta di un bene che la storia è impotente ad attuare e a dimostrare. Tacito è soprattutto un indagatore e un narratore che nella instancabile varietà della frase riflette la varia e irrequieta vicenda delle umane fortune.
L'epoca e la letteratura romana cui Tacito appartiene, erano assolutamente retoriche e Tacito maestro della rappresentazione rettorica. Chi venne dopo inciampava in lui. Il peso del suo gran nome era quasi una bandiera che copriva l'intero carico della sua nave, piena di falsità storiche.
Non v'ha esempio in tutta la storia d'un modo così astioso, sfigurante e perfido di rappresentare un vero sovrano, qual è quello adoperato da Tacito nella rappresentazione e nella caratteristica di Tiberio. Questo per quattro buone ragioni. I. Tacito era aristocratico, e fautore del nobilume, in tutta la peggiore estensione del senso; e la severità di Tiberio aveva colpito quasi esclusivamente il nobilume romano. II. Tacito fu nudrito ed allevato nell'odio della sua casta verso il sovrano democratico, che teneva in freno le superbe famiglie patrizie ed impediva loro di spolpare le provincie. III. Prese i colori per il suo ritratto di Tiberio dalla tavolozza d'una capitale nimica di Tiberio e della casa Claudia, cioè dalle memorie di Agrippina II figlia della prima Agrippina. IV. È un retore. E lei mi insegna che il Retore «giudica o produce con ragioni subjettive vere cioè nella sola mente del produttore o del giudicante invece di produrre o giudicare con ragioni objettive, cioè storiche».
Tacito non è un malvagio carattere (né Tiberio un angelo); sibbene una mente angusta, ed un cuor gretto, un ingegno felice ma quasi esclusivamente rettorico; maestro di stile e coloritore impareggiabile, ma pieno di fiele e di mal talento; v'ha del pretino nel suo nepotismo. Il suo Tiberio è un mostro, un portento, una caricatura creata da lui, un impossibile.
↑ L'ultima frase viene parafrasata anche con «desertum fecerunt et pacem appellaverunt», cioè «fecero un deserto e la chiamarono pace». Vedi Wikipedia sulla prima e sulla seconda locuzione.
↑ «Espressione usata da Tacito con riferimento al suo programma storiografico, talvolta citata per sottolineare l'obiettività di un proprio giudizio o atteggiamento» (sine ira et studio, in Vocabolario, Treccani.it).
traduzione di Luigi Annibaletto, Gli annali, Garzanti, Milano, 1974. Aggiuntovi il testo latino stabilito da C.D. Fisher, Cornelii Taciti Annalium, Oxford, 1906.
traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, Annali, in Id., Tutte le opere, Newton Compton, 2013. Testo latino a fronte. ISBN 978-88-541-5869-6.
Cornelio Tacito, La Germania, traduzione di Carlo Canilli, Sansoni, Firenze, 1925. Testo latino a fronte.
Publio Cornelio Tacito, Historiae, traduzione di Giuseppe Lipparini, Le storie, 2 voll., Società anonima Notari, Milano, 1930, vol. I, vol. II. Testo latino a fronte.