calciatore italiano (1948-2020) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Pietro Anastasi (1948 – 2020), calciatore italiano.
Citazioni in ordine temporale.
[Nel 1990] Vado raramente a vedere le partite allo stadio. Tecnicamente il gioco è sempre quello, non è cambiato molto, ma ciò che non mi piace e che mi delude profondamente è lo scarso attaccamento dei giocatori alla maglia che indossano. Oggi si pensa troppo ai soldi e poco ai sentimenti. Poi c'è troppo stress, troppa drammaticità intorno ad ogni partita. Infine, la violenza selvaggia e premeditata di coloro che il giorno prima vanno a piazzare le spranghe dentro lo stadio. Sembra quasi che non sia rimasto molto del calcio di vent'anni fa, quando diventare la bandiera della propria squadra era il traguardo massimo per un giocatore e, quando tutt'al più, le discussioni fra i tifosi si risolvevano nelle classiche scazzottate che poi non avevano seguito.[1]
[Riferito ad Angelo Massimino] Se n'è andato uno vero, uno che ha pagato, uno con la passione dentro. Altro che i dirigenti attuali, gente di plastica.[2]
[Riferito al suo gol in Italia – Jugoslavia 2-0, finale del campionato d'Europa 1968] De Sisti mi passò il pallone che compì uno strano rimbalzo: tirai senza sapere dove l'avrei indirizzato e ne venne fuori un gran gol.[3]
Penso di essere stato un giocatore altruista, giocavo soprattutto per la squadra, [...] mai [...] per me stesso. [...] Giocavo come numero nove, però poi il numero nove lo facevo poche volte. Giocavo soprattutto sulle fasce laterali, a cercarmi gli spazi e mettere delle palle in mezzo.[4]
Quando ero arrivato a Torino, Sandro [Salvadore] era uno degli anziani, il capitano, ed è sempre stato per tutti un punto di riferimento. Non voleva mai perdere, era una persona speciale.[5]
[Riferito allo scambio di mercato con l'interista Roberto Boninsegna] È stata una vicenda triste. Se siamo arrivati a quello scambio, però, è perché io avevo litigato con l'allora allenatore della Juventus, Carlo Parola. Ero praticamente fuori rosa, così Boniperti si mise all'opera per quella trattativa incredibile. Per me però è stata durissima. Venivo da otto anni di Juventus, andavo in una rivale come l'Inter. Non l’avrei mai voluto. Sono passati quasi quarant'anni, ma se si dice Anastasi si pensa alla Juventus. E se si dice Boninsegna si pensa all'Inter.[6]
Intervista di Dario Prestigiacomo, la Repubblica, 25 settembre 2011.
[Riferito alla sua infanzia] La mia era una famiglia di operai. Con me, eravamo in nove e vivevamo in una piccola casa. Per questo, appena andai alla Juve, con i primi soldi comprai un appartamento ai miei genitori.
[«Mai avuto problemi con altri calciatori per il fatto che veniva dal Sud?»] Ogni tanto, durante le partite, qualcuno mi insultava a colpi di "terrone". Lo facevano più che altro per farmi innervosire. Io lo sapevo e tranquillamente gli rispondevo dicendogli: "Sarò pure terrone, ma guadagno più di te che sei un polentone".
[«Dalla zona industriale di Catania alle grandi industrie del Nord. Come fu l'impatto?»] All'inizio, ebbi qualche difficoltà. Ma poi grazie ai compagni di squadra mi riuscì ad adattare. Quello che mi colpì subito era la maggiore libertà dei giovani, soprattutto delle ragazze. Vedere tante donne uscire da sole la sera, per me che venivo dalla periferia catanese, era una novità.
[Riferito al trasferimento dal Varese alla Juventus] Il presidente del Varese era Giovanni Borghi, imprenditore del settore degli elettrodomestici. Nell'estate del '68 dovevo andare all'Inter, che aveva un'opzione su di me. Nonostante l'affare non fosse stato ancora concluso, i nerazzurri mi vollero in squadra subito per una amichevole contro la Roma. Con il permesso del Varese, giocai e alla fine del primo tempo avevo già realizzato due gol. Tornato negli spogliatoi per l'intervallo, un fotografo che conoscevo mi disse: "Pietro, guarda che sei un giocatore della Juventus". [...] L'avvocato Agnelli mi voleva da mesi, da quando mi aveva visto segnare una tripletta proprio contro la Juve. Quando seppe che ero a un passo dall'Inter, chiamò Borghi e chiuse in fretta e furia la trattativa, aggiungendo [una] fornitura di motorini [per frigoriferi].
[Riferito al rapporto con i tifosi] Io fui uno dei primi giocatori meridionali ad avere successo nel grande calcio. Il rapporto con la gente all'epoca era diretto, non c'erano le guardie del corpo a proteggere i calciatori. Quindi sentivo di essere diventato un modello, anche un motivo di speranza per tanti ragazzi che come me inseguivano i loro sogni partendo per il Nord.
La mia Juve meridionale
Intervista di Nicola Calzaretta, Guerin Sportivo, maggio 2015, pp. 68-77.
[Riferito alla sua infanzia] Per tutti ero Pietro 'u turcu perché d'estate diventavo nero come la pece.
[«Talvolta la critica ha sottolineato certe presunte lacune tecniche»] Spesso capitava che anticipassi il pallone. Però rimaneva li, tra i miei piedi. Ed io, a quel punto, potevo fare la giocata desiderata.
[«Si è sempre considerato un centravanti?»] Ho spesso giocato con il [numero] nove, ma il centravanti non l'ho mai fatto. Mi piaceva allargarmi, spaziare, servire i compagni.
[«E il Varese com'è che la scova in Sicilia?»] Per caso. Il direttore sportivo varesino Casati era al Cibali per assistere a Catania-Varese. Sarebbe dovuto ripartire con la squadra, ma lasciò il posto in aereo a una donna incinta. Il rinvio del volo di ritorno gli consentì di seguire il giorno dopo, sempre al Cibali, Massiminiana-Paternò. Anche se finì 0-0, mi vide e prese nota. Ero felice perché andavo in B a diciotto anni, avrei avuto una bella vetrina e qualche soldo in più. Ma avevo paura, perché andavo lontano per un'avventura che avrebbe potuto finire subito.
[Sull'approdo nella Juventus] Il primo impatto con il mondo bianconero fu istruttivo. Era estate e andai in sede a incontrarmi per la prima volta con i nuovi dirigenti non pensando alla forma. Avevo una maglietta e un normale paio di pantaloni. Il presidente Catella mi disse: "La prossima volta si presenti in giacca e cravatta".
[Su Heriberto Herrera] Un uomo molto rigido, maniacale. Incuteva timore [...]. Durante uno dei primi allenamenti mi trattò malissimo davanti ai compagni. Stavamo facendo una seduta tattica, io non ero abituato a certi metodi. A un certo punto mi dice: "Basta, cono[stupido], vada fuori". Mi mandò via e fece entrare al mio posto Zigoni per farmi vedere come andava fatto il movimento. A me vennero le lacrime agli occhi dalla rabbia.
Per i tanti lavoratori che venivano dal Sud e che si facevano il mazzo in fabbrica sono diventato un simbolo, anzi ero uno di loro, quello che aveva avuto la buona sorte di giocare a pallone. Ricordo che mi fermavano fuori dello stadio e mi dicevano di farmi valere anche per loro. Mi rendeva orgoglioso.
[Su Italo Allodi] Molto dimenticato, ma questo è il vecchio vizio del nostro mondo. Senza nulla togliere a Boniperti, Allodi ha avuto grandi meriti nella rinascita della Juve. Quando le cose non andavano bene o c'era da cementare il gruppo, lui organizzava delle cene, spesso con le famiglie. Una volta accadde dopo la papera di Carmignani contro il Cagliari. [il numero uno bianconero si fece sfuggire di mano un pallone innocuo] Tutti a cena e lui che regala al portiere una pinza. Geniale.
[«Il 1973 è [...] l'anno della finale della Coppa dei Campioni persa dalla sua Juventus contro l'Ajax»] Un gran peccato. Loro erano sicuramente più forti. Noi andammo in ritiro per troppo tempo. [...] Ma la cosa che ci fece più male fu vedere come loro trattarono la Coppa una volta saliti sul pullman. La buttarono lì, sui sedili, come fosse un trofeo qualsiasi.
[Riferito alla sua tripletta in Juventus – Lazio 4-0, 27 aprile 1975] Quando mancano venti minuti alla fine, Parola mi dice di entrare al posto di Bettega. In cinque minuti, dall'83' all'88', realizzo una tripletta. Nessun subentrante era mai riuscito nell'impresa prima [...] Felice Pulici [il portiere laziale] fece come l'orso nei giochi della fiera: a ogni sparo, cambiava direzione, senza capirci più nulla.
[Riferito alla rottura del rapporto con la Juventus] Tutto inizia nell'intervallo di Lazio-Juventus del 7 marzo 1976. Era una giornata no per me [...]. Chiesi di essere sostituito, pensavo che avrebbe fatto bene alla squadra. [...] Quel gesto fu mal interpretato da Parola, che mi mise in panchina per la successiva gara contro il Milan, dandomi gli ultimi venti minuti. La rottura vera si consumò la settimana dopo. Si gioca a Cesena e il mister mi rimette fuori. A quel punto chiedo spiegazioni, ero il capitano. Mi risponde male. Ed io lo mando a quel paese. La partita con il Cesena la vedo dalla tribuna. Quindi qualche giorno dopo sbotto e dico chiaro e tondo che con Parola non voglio più avere niente a che fare. Finisco "fuori rosa".
[«Infine c'è l'Ascoli e soprattutto una data: 30 dicembre 1979»] Giochiamo a Torino contro la Juventus. [...] Io sono alla caccia del mio centesimo goal in Serie A. Sembra una maledizione, me ne hanno già annullati un paio nelle giornate precedenti. Dopo otto minuti batto Zoff con un colpo di testa e tutto il Comunale mi applaude. Come se non fossi mai andato via.
[Riferito al debutto in nazionale, Italia – Jugoslavia 2-0, finale del campionato d'Europa 1968] Eravamo nello spogliatoio, mi chiama Valcareggi e mi fa: "Picciotto, tocca a te!" E non aggiunge altro.
[«Chiudiamo la parentesi azzurra con il suo forfait al Mondiale di Messico 1970»] È ancora oggi uno dei miei più grandi rimpianti. E tutto per una sciocchezza. Stavo scherzando con il nostro massaggiatore [...]. A un certo punto lui, spazientito e dopo avermi detto già diverse volte di smetterla, mi dà un colpo con il dorso della mano e mi colpisce ai testicoli. Dolore immediato, ma la cosa finisce lì. Durante la notte, ero in camera con Furino, non ce la faccio più dal dolore, mentre il testicolo colpito si è gonfiato paurosamente. Il dottor Fini mi dà un calmante, ma dobbiamo andare di corsa in ospedale. La situazione è grave, posso correre il rischio di un'amputazione se non mi operano all'istante per assorbire il versamento interno. Eravamo alla vigilia della partenza per il Messico. Non ce la potevo fare.
Citazioni non datate
Le mie qualità migliori erano lo scatto, la velocità e l'altruismo. E seppur scendessi in campo, anche in Nazionale, con la maglia numero nove, spesso mi posizionavo sulla sinistra, per effettuare dei cross a favore del compagno di reparto. Insomma, ero un uomo d'area che sapeva anche manovrare.[7]
[Riferito al legame con la Juventus] Andai via [...] ma con la società sono sempre rimasto in ottimi rapporti. Alla Juventus è dove mi sono trovato meglio e rimarrò sempre un tifoso juventino.[7]
Attribuite
[Gaffe] Attenti a non travasare quello che vi ho detto.[8]
[Gaffe, a Parigi chiedendo un limone [citron] al cameriere] Per favore vorrei del citroën.[9]
Anastasi, il sud che diventava gloria del nord: la vittoria degli operai Fiat. (Andrea Vianello)
Di statura piccola, tocca la palla come Meroni, di destro e di sinistro, magari con minore fantasia del Beatle comasco, ma, spesso, con superiore altruismo; ritorna pure, ed inventa palle gol. (Cesare Lanza)
Erano piene di nebbia, a quel tempo, le mattine d'inverno a Torino, ed era dura rimettersi a battere la lastra nel reparto presse della Fiat. Ma c'erano giorni diversi, c'erano i magici lunedì in cui l'operaio "terùn", naturalmente juventino, poteva dimenticare ogni gelo nella strada e nel cuore, ogni amarezza, ogni sporca fatica della vita grama. Perché la domenica la Goeba aveva vinto. E al centro dell'attacco di quella squadra c'era lui, Pietro Anastasi da Catania, Pietruzzu, Pietro 'u turco. (Maurizio Crosetti)
[Riferito alla sua esperienza interista] Il furbo Boniperti non si era sbagliato: Anastasi ha ormai finito la benzina. [...] Mazzola si danna l'anima pur di restituire fiducia al compagno che aveva atteso per otto lunghe stagioni: inutile, tutto inutile. Lentamente ma inesorabilmente, Pietruzzu si intristisce. (Leo Turrini)
[Riferito all'addio alla Juventus] Improvvisamente l'umiltà scomparve, lo sguardo di Pietruzzo si rabbuiò. Visse momenti tristi, molti lo capirono, altri lo consigliarono male. E venne il giorno del dissenso. Si sfogò [...], vide congiure di palazzo attorno alla sua figura di capitano senza macchia e senza paura. E, frattanto, non riusciva ad offrire alla squadra il rendimento delle stagioni passate. [...] Ci fu la separazione, irrimediabile e logica. (Angelo Caroli)
In terza media, la professoressa [...] ci diede un tema: "Parlate del vostro personaggio preferito del Novecento". I miei compagni scrissero di Kennedy e di Papa Giovanni, io di Anastasi. La prof mi disse, con un sorriso lieve: "Ero indecisa se darti 4 o 9. La scelta mi sembrava decisamente fuori tema, ma lo hai scritto con così tanta passione che ti sei meritato il 9. Bravo, comunque". Proprio come il numero sulla maglia del mio beniamino! (Darwin Pastorin)
Paragonato ai centravanti tradizionali, è un misto di Gabetto e Lorenzi, ha più estro che tecnica, più possesso fisico dell'azione che senso tattico; caccia il goal come uno stallone la femmina. (Vladimiro Caminiti)
Pietro Anastasi finì per essere il simbolo vivente di un'intera classe sociale: quella di chi lasciava a malincuore il meridione per andare a guadagnarsi da vivere nelle fabbriche del Nord. (Alessandro Baricco)
Pietruzzu, il ragazzo di Catania, quartiere Fortino. Pelle olivastra da indio etneo, anzi no: chiamatelo ancora «'U Turcu» come fa la gente catanese. Emigrato dalla Massiminiana [...] per stanziarsi alla corte degli Agnelli. [...] Pupillo dell'Avvocato che lo volle a tutti i costi alla casa reale della Vecchia Signora. [...] La Juve comprando Anastasi fece un affare e anche un'azione "politico-sindacale": ottenere la tregua dagli operai meridionali della Fiat Mirafiori in piena agitazione sessantottina. La squadra bianconera da quel momento in poi divenne una fucina di "talenti sudisti": Gentile il tripolitano, Furino il palermitano, Causio il leccese, Cuccureddu da Alghero e appunto Pietruzzu, il catanese. (Massimiliano Castellani)
Rientrava, svariava, scattava, trascinava. Una furia, sull'intero fronte d'attacco, di quelle che la porta la sentono senza bisogno di vederla [...]. Con la tifoseria bianconera fu amore a prima vista. Non solo il ragazzino ci dava dentro come un matto, con quegli strappi improvvisi, con smarcamenti continui che era l'istinto a dettargli, con la generosità a tutto campo, con quei fior di gol che segnava. Ma prima ancora per la sua sicilianità, in un'epoca in cui era stata una vera e propria migrazione di massa dal sud a dotare gli stabilimenti torinesi della Fiat di nuova manodopera: non a caso i più amati dal Comunale bianconero di quegli anni furono il catanese Anastasi, il leccese Causio, il palermitano Furino. E quando dopo tanto tempo e non poche disavventure, Anastasi tornò in quello stadio con la maglia dell'Ascoli [...], un suo gol che condannò la Juve alla sconfitta fu salutato da un'ovazione del pubblico che scattò in piedi commosso. (Gigi Garanzini)
Un grande giocatore, per abilità, per destrezza, per generosità. (Candido Cannavò)
↑ Dall'intervista di Francesco Baccilieri, Pietro non torna indietro, Guerin Sportivo (Bologna), anno LXXVIII, nº 46 (820), 21-27 novembre 1990, pp. 62-63.
↑ Citato in Manuela Romano (a cura di), Roberto Saoncella (con la collaborazione di), La grande storia della Juventus (DVD-Video): 1966-1975 "Da Herrera a Parola", RCS Quotidiani, RAI Trade, LaPresse Group, 2005, a 07 min 30 s.