Marco Pastonesi (1954 – vivente), giornalista sportivo italiano.
Citazioni in ordine temporale.
- Il primo giorno il dio del rugby creò i piloni. Li creò per tenere separata la luce dalle tenebre, poi il cielo dalla terra. Li plasmò solidi, li forgiò resistenti, li modellò duri. Poi vide quanto aveva fatto ed ecco, era cosa molto buona. Piloni. Le due colonne della prima linea. Base, fusto e capitello, anche in gerarchia di valori, in ordine di importanza. Se la mischia fosse una casa a tre piani, e lo è, i piloni sono le fondamenta e il pianterreno. Affondano, abitano, campano – insomma: vivono – nella zona caldaia, cantina, taverna. È lì che tengono separata la luce dalle tenebre, il cielo dalla terra. Il loro rugby è tutte le voci del verbo spingere. Le prime sono recitate, come in una messa cantata, dall'arbitro: da "crouch, touch, pausa, engage" (bassi, tocco, pausa, ingaggio) a "crouch, touch, set" (bassi, tocco, via) fino a "crouch, bind, set" (bassi, legati, via), perché anche la messa si aggiorna, si semplifica. I due piloni, e il tallonatore crocefisso fra di loro, si caricano la squadra sulle proprie spalle come il titano Atlante si genufletteva per sollevare il mondo. E poi spingono. Una battaglia rimasta ai tempi delle trincee e nel tempo delle trincee. Così che c'è da capire quell'allenatore che ai suoi piloni non mostrava solo gli spezzoni con il francese Paparemborde o l'inglese Leonard, ma anche i film All'ovest niente di nuovo e La grande guerra.[2]
- I piloni – sostengono in Galles – vanno tutti in paradiso. Perché qui sulla terra, e sotto terra, hanno già patito le pene dell'inferno.[2]
- [Su David Campese] Neanche tanto alto (1,80) e neanche tanto grosso (89) se misurato con le attuali dimensioni dei colleghi (trequarti ala), ma più alto e più grosso se confrontato con i colleghi di allora (tipi agili, svelti, rapidi), Campo [...] faceva doppia attività: l'inverno in Italia e l'estate (inverno nell'altro emisfero) in Australia, e così non smetteva mai di giocare e di segnare. Perché andare in meta era il suo compito, la sua missione, la sua specialità.[3]
- L'Irlanda sta al rugby come le Fiandre al ciclismo e l'Ungheria alla pallanuoto, come gli afroamericani al basket e i kenyani alla maratona. Un istinto, una scuola, una tradizione, una vocazione. L’Irlanda che, nella nazionale di rugby, unisce la Repubblica d'Irlanda e l'Irlanda del Nord nella stessa maglia, verde, e lo stesso stemma, il trifoglio. L'Irlanda che, da sempre, si riconosce nel fighting spirit, quello della lotta e del combattimento [...][4]
- Il rugby femminile viene da lontano, nel tempo e nello spazio. Nel giugno 1891 Nita Webbe, un'imprenditrice neozelandese, radunò 30 donne ad Auckland per dare vita alla prima partita della storia. Per reclutare le candidate mise un annuncio sui maggiori quotidiani del paese. Le aspiranti rugbiste dovevano presentarsi con il permesso dei genitori e con una divisa di gioco composta da tuta da ginnastica, maglia, pantaloni alla zuava e gonna. Erano ammessi anche i cappelli. E le spese della trasferta ad Auckland erano a carico delle future rugbiste. Nei piani di Webbe, dopo la partita inaugurale le due squadre avrebbero potuto intraprendere una tournée dimostrativa in Australia per poi proseguirla negli altri paesi dell'Impero Britannico. Ma l'iniziativa di Nita Webbe non ebbe successo. Alcune donne arrivarono, si dice che si allenarono, ma la partita – ingresso a pagamento – venne cancellata e non si disputò. Centrotrentatrè anni dopo (ma tutto si è costruito negli ultimi 40): il Sei Nazioni donne.[5]
ilfoglio.it, 1º novembre 2019.
[Sul pilone del rugby]
- Se fossero una casa, quelli bravi sarebbero le fondamenta, quelli scarsi la cantina. Se fossero un albero, tutti – bravi e scarsi – sarebbero le radici, poi dipenderebbe dal tipo di albero, e fra quercia e cipresso c'è una bella differenza. Se fossero una guerra, sarebbero comunque una guerra di trincea, combattuta da fanti, nel fango. Perché se fossero o terra o acqua o aria o fuoco, nessun dubbio, sarebbero soltanto terra. Se fossero una bicicletta, povere biciclette, ma se fossero una moto, da grossa cilindrata e probabilmente smarmittata. Se fossero un pallone, sarebbero ovviamente un pallone ovale (come si racconta: i palloni erano tutti rotondi fino al momento in cui proprio loro non ci si sono seduti sopra). Se fossero una birra, non sarebbero pinte, medie, stivali, colonne, ma botti. Se fossero una pizza, allora quelle a metro, o alla pala, o mangia-tutto-quello-che-puoi (e loro possono). Se fossero un gesto, sarebbero un poderoso abbraccio. Se fossero una parola, un pesante silenzio. Se fossero un suono, meglio lasciar perdere. Se fossero un mese, sarebbero agosto, perché agosto è il mese in cui si suda anche stando fermi, è il mese in cui anche il sudore suda, e loro sudano di brutto. Se fossero un orecchio, avete presente quelli a cavolfiore? Piloni, il massimo del rugby. Piloni, i pesi massimi del rugby. I numeri 1 e 3 di ogni squadra, perché la numerazione (da 1 a 15, obbligatoriamente) li gratifica, li privilegia, li favorisce.
- Piloni, quelli che hanno il collo più largo della mascella, quelli che dimostrano dieci o vent'anni più di quanto dichiarato sulla carta d'identità, quelli che correndo rimbalzano e che rimbalzando corrono, quelli che se in una squadra c'è chi suona il piano e chi lo sposta, loro lo spostano. Perché è gente da Gondrand, da Tir, da tram, da bassa manovalanza, da puro bracciantato. Gente che veniva reclutata fra gli scaricatori di porto, fra gli idraulici delle cooperative, o rubando spudoratamente spalle all'agricoltura, prima che il professionismo [...] riuscisse a riprodurre tanta sana ignoranza (nel senso buono del termine: nel rugby l'ignoranza è un valore, un traguardo, anzi, una meta) sollevando artificiosi pesi in palestra.
- I piloni incassano e restituiscono, secondo leggi non scritte e regolamenti tramandati. I piloni sopportano e supportano. E come tutti i rugbisti, sostengono (il rugby è lo sport del pronto e del mutuo soccorso). Ma se gli altri giocatori sostengono di corsa, i piloni sostengono da fermi. In tempi amatoriali i piloni erano lentigradi se non pachidermici, giganteggiavano nelle mischie chiuse e poi assistevano al resto della partita, sorprendendosi le rare volte in cui si ritrovavano il pallone fra le mani, spesso non sapendo neanche che cosa farsene, invece oggi i piloni hanno acquisito non solo mobilità, ma anche velocità, e non solo forza, ma anche sensibilità [...]
- Piloni si nasce: per – appunto – ignoranza. Piloni si diventa: un fenomeno raro, ma succede. Piloni si slitta: a tallonatori, sempre in prima linea, una forma di evoluzione darwiniana. Piloni si cresce: in larghezza e in altezza che, dato il particolare tipo di gioco spesso orizzontale, significa lunghezza.
ilfoglio.it, 2 dicembre 2022.
[Su Ercole Baldini]
- [...] Ercole Baldini, l'Elettrotreno di Forlì, così ribattezzato quando la sua andatura in pianura, il suo ritmo a cronometro, la sua energia sul passo, la sua esplosività in corsa lo promossero immediatamente a erede di Fausto Coppi. Il Campionissimo c'era ancora [...] ma si cominciavano a intravedere le luci del tramonto. E l'Italia non voleva perdere il primato nel ciclismo, lo sport più popolare, dunque più sociale, più stradale, dunque più teatrale, più giornalistico, dunque anche più letterario.
- Il nome Ercole profetizzava imprese eroiche, il cognome Baldini sarebbe rimasto l'unico diminutivo di una vita, in bici e poi giù dalla bici, esplorata e consumata alla grande. Lui, campione anche in modestia, avrebbe poi confidato che la sua traiettoria agonistica è stata quella di una meteora. In tre anni conquistò il record dell'ora al Vigorelli e il titolo olimpico su strada ai Giochi di Melbourne nel 1956, il Giro d'Italia e il Mondiale nel 1958, nonché campionati italiani su strada e su pista, in tutto una quarantina di vittorie in otto anni di professionismo. E così da Elettrotreno fu promosso a Diretto, Direttissimo, Espresso [...]. Il massimo, per il suo motore umanamente romagnolo, era un percorso piatto come una tavola di biliardo e diritto come quello dell'Orient Express. A queste due condizioni, era irresistibile, perfino per uno specialista di classe ed eleganza cone Jacques Anquetil. A tradirlo, forse, anche, il vagone ristorante: a tavola, spesso, non sapeva tirarsi indietro. E ogni grammo, in salita, si moltiplica fino a diventare un chilo.
- Accompagnò Coppi, il suo idolo giovanile, in un trionfale Trofeo Baracchi, quello del 1957, la cronocoppie che chiudeva le stagioni e consacrava i vincitori. Meno affettuoso il rapporto con la Dama Bianca, impaurita dell'ombra con cui Ercole avrebbe potuto oscurare il suo Fausto (o farne dimagrire gli ingaggi). Per tutti gli altri corridori Baldini sarebbe stato compagno, amico, mentore, guida, maestro, esempio, modello, soccorritore, punto di riferimento. Prima da corridore, poi da direttore sportivo, quindi sempre nel ciclismo procurando contatti e contratti, sponsor e finanziamenti, e ancora ricordi e testimonianze. La sua generosità era proverbiale.
ilfoglio.it, 15 marzo 2023.
[Su Massimo Cuttitta]
- I piloni – mischia, prima linea, uno a destra, l'altro a sinistra, in mezzo c'è il tallonatore – sono le fondamenta di una casa, i fanti in trincea della Grande Guerra, il leggere e lo scrivere in prima elementare. Senza, crolla tutto. Hanno soprannomi da animali ("Os", bue, per il sudafricano Jocobus Petrus Du Randt), o legati alle dimensioni dei capoccioni ("Watermelon", anguria, per il gallese Gethin Jenkins), o riferiti alla superficie base per altezza ("Bus" per l'inglese Jason Leonard, anzi, "Fun Bus" per riconoscerne la vena umoristica). A Massimo Cuttitta fu regalato un soprannome che non sembra avere nulla a che fare con la sua stazza, la sua forza, la sua possanza: "Mouse", topolino. Ma la dedica risale a quando era un bambino e sul campo si muoveva rapido, scattante, imprendibile.
- "Mouse" era speciale. Davvero. Sul campo sprigionava solidità e veemenza, come se con la maglia numero 1 indossasse anche un'armatura, e una tempra, metalmeccanica. Fuori dal campo era di una timidezza, di una riservatezza, anche di un pudore sorprendenti. Gli amici confidano come fosse sufficiente la presenza di una donna, senza neppure il barlume di un vago corteggiamento, perché Massimo tradisse la sua sensibilità e in viso diventasse rosso.
- L'educazione sudafricana contribuì a forgiarne il carattere e rivelarne il talento. Per Massimo un programma degno dei Marines: su e giù per le colline, scatti e accelerazioni a zig zag sui prati, infine – e qui "Mouse" ci mise del suo – sollevando pesi nel cortile. Un'arte elaborata studiando le posizioni statiche e le linee di forza per non disperdere energie. Non basta mettere le fondamenta per edificare una casa: la casa deve essere resa antisismica. E ogni mischia, si sa, equivale a un terremoto.
ilfoglio.it, 13 giugno 2023.
- Il rugby non era (e non è), come pensava Berlusconi, la somma di quindici giocatori (in campo), più due (in panchina, a quel tempo), più uno (la riserva viaggiante, in tribuna, a quel tempo), più altri (dirottati nella formazione iscritta al torneo delle riserve, a quel tempo). Il rugby era (ed è) quindici uomini (e quindici donne, adesso) stretti e uniti, coesi e coerenti, legati e mischiati, sostenibili e sostenuti, quindici insieme sul campo più sette in panchina più altri in tribuna. Una squadra. Lo sport di squadra. Che non si misura sul più forte, ma sul più debole. Che gioca sulla tecnica quanto sui sentimenti, sulla strategia quanto sullo spirito, sulla forza di gambe e braccia quanto su quella dell'animo, che è sempre pronto e mutuo soccorso. Quattordici uomini (e donne) che spingono, saltano, lottano, corrono, si aiutano per dare al quindicesimo un metro, mezzo metro, una spanna o uno spiffero di vantaggio. E poi vedere l'effetto che fa.
- Quel Campese, un fenomeno. Per una decina di anni, doppie stagioni, in Australia e in Italia, prima nel Petrarca di Padova, poi a Milano. E il suo celebre passo dell'oca, una finta irresistibile e una corsa implaccabile.
- 23 aprile 1994, al Plebiscito di Padova. Davide (L'Aquila) contro Golia (il Milan). La squadra di una città, di una civiltà, di una cultura ovale (L'Aquila) contro la squadra di un progetto, di un Fininvestimento, di un'industria a tutto tondo (il Milan). Il rugby ignorante delle contrade (L'Aquila) contro quello sberluccicante dei condomini e dei residence (il Milan). I dilettanti (L'Aquila) contro i professionisti (il Milan, anche se ufficialmente il professionismo sarebbe stato ammesso solo un anno dopo). E la tigna ebbe ragione sull'eleganza. Finale: 23-14 per i neroverdi aquilani. E anche per tutti quelli che sostenevano l'idea di un gioco di squadra, villaggio, paese, provincia, comunità. Dove è indispensabile avere fame, voglia, fuoco. Dentro.
ilfoglio.it, 6 febbraio 2024.
[Su Barry John]
- Barry di nome, John di cognome, Galles di passaporto, 10 di numero. Era lui il Re del rugby.
- Per capire Barry John, tre storie. La prima. Un appassionato gallese di rugby: "Guarda, c’è Barry John". Un appassionato inglese di rugby: "E allora, non è mica l'Onnipotente". L'appassionato gallese di rugby: "No, ma è ancora giovane". La seconda. Barry John era richiestissimo per giocare nelle partite di esibizione, celebrative, amichevoli. Prima di una partita c'era questo cartellone: "Ingresso due sterline. Se Barry John gioca, dieci". La terza. Anche se il suo soprannome era the King, i dirigenti gallesi cercavano di evitare che Barry John si montasse la testa. Quando John Dawes si ritirò da capitano del Galles, il nome di Barry fu fatto in lungo e in largo. Chi meglio di lui, chi più di lui, finché fu scritto che "questo è il giorno dell'incoronazione del vero Re". Barry telefonò a Clive Rowlands, a quel tempo manager del Galles, per confessargli le sue preoccupazioni, e Rowlands esagerò: "Non preoccuparti, non ti abbiamo neppure preso in considerazione".
- [...] era divino, anzi, più che divino. I fedeli predicavano e distinguevano: Cristo camminava sulle acque, Barry John ci corre. Finché un giorno, all'inaugurazione di una banca, un'impiegata s’inginocchiò davanti a lui, forse si fece anche il segno della croce. Troppo. Troppe aspettative, troppe pressioni, troppe responsabilità. E il Re abdicò. Aveva 27 anni.
ilfoglio.it, 3 agosto 2024.
[Sul rugby a 7]
- Un po' come il calcetto rispetto al calcio, un po' come il tie-break rispetto al meglio dei cinque set, un po' come il beach volley rispetto alla pallavolo. Il rugby a sette è la versione "light", "smart", "turbo" [...] del rugby tradizionale, quello a 15. [...] Era il 1883 – questa la genesi più credibile – quando un club scozzese, al verde, decise di organizzare un torneo a inviti per fare cassa. Si narra che l'idea brillò a un giocatore, calciatore pentito, rugbista convinto, macellaio di professione: Ned Haig, per rendere più veloce la competizione, suggerì di accorciare i tempi di gioco, non due frazioni da 40 minuti ma due da 15, e soprattutto di dimezzare i componenti delle squadre, da 15 a sette. Morale: un trionfo.
- Troppo conservatore, il mondo del rugby, per convertirsi allo spettacolo del Seven (così, in gergo ovale). Troppo religioso, anche. [...] O di qua o di là. Di qua i puri, i dilettanti, i fedeli del rugby a 15; di là i mercenari, i professionisti, i dissidenti del rugby a 13. E quelli del Seven relegati ai tornei di fine stagione, metà feste e metà sagre, per divertimento e per beneficenza.
- Il rugby a sette prevede tre uomini dentro e quattro fuori: tre per le mischie e le touche, tutti e sette per il resto, cioè corsa a perdifiato. La filosofia è impadronirsi del pallone, mantenerne il possesso e, al primo spiffero, creare un buco e tagliare, infilare, trapassare la difesa avversaria. Quindi grande gioco di mani e grandissimo gioco di gambe. Quindi niente sportellate e sfondamenti ma dribbling e slalom, cambi di passo e direzione, finte e controfinte.