A Palermo aveva trovato un buon alloggio «al largo della marina, appresso santa Maria della Catena». Era sbarcato nella capitale del «fertilissimo regno di Sicilia» forse nell'autunno del 1548, navigando su una nave salpata da Genova dove, lasciata la casa bolognese, si era recato in occasione dell'arrivo di Filippo, primogenito di Carlo V.
Citazioni
Quando era partito da casa nessun astrologo poteva predirgli che sarebbe rimasto per circa sette anni al Sud, a Palermo prima, poi a Messina, in Calabria e infine a Napoli prima di risalire lentamente la penisola. (Da Un medico di «nazion bolognese», p. 9)
Tarda, confusa, orecchiata e di seconda mano fu la conoscenza che Fioravanti ebbe di Paracelso e delle sue opere. Anche se non mancò di elogiare il geniale terapeuta-alchimista-chirurgo elvetico, la sua formazione passò per altre strade. [...] Anche Fioravanti riteneva i medici "audiutori della natura e non maestri" ma non arrivò mai a condannare in blocco con lo sprezzante disdegno dell'elvetico la letteratura dottorale antica e moderna. Condivise con Paracelso la convinzione profonda della superiorità dell'esperienza sulla teoria astratta e la necessità dell'esperimento; del vedere e del fare, più che del leggere; l'umiltà del medico, bisognoso d'apprendere anche dagli indotti e dagli analfabeti; la necessità di conoscere le arti manuali per completare il curriculum policentrico dei saperi umani; la scarsa fiducia, se non la disistima, dell'anatomia. (da Un medico di «nazion bolognese», pp. 12-13)
Emostatico sacro o alchimistico, il sangue era ritenuto un potente rimarginatore. Dal sangue umano si distillavano anche un olio e un sale con cui si preparava il lapis rubeus che ne stagnava il flusso. Nelle amputazioni, Bartolomeo Maggi (1477-1552), medico di Giulio III, interveniva con creta impastata nell'aceto, mentre, quasi un secolo dopo, Cesare Magati, medico e cappuccino (1599-1647), consigliava nel De rara medicatione vulnerum sterco di asino o di cavallo cotto nell'aceto applicato come cataplasmo. Sembra che anche il sangue di gallina venisse usato con buoni risultati nella medicazione di piaghe e ferite. (da Un medico di «nazion bolognese», p. 29)
Da molte generazioni, dai bizantini agli arabi, era fuori discussione lo stretto rapporto che intercorreva fra quartana e malinconia. La melancholia ex stomacho, la febbre che rispuntava puntuale e indomabile ogni quattro giorni, aveva origine ex humore melancholico, perché la bile nera «saglie dalla milza allo stomaco». Lo ribadiva anche un insigne medico patavino contemporaneo di Fioravanti, sotto molti aspetti un innovatore, Girolamo Mercuriali (1530-1606), ancora fedele, nel curare la quartana, ai precetti pseudoaristotelici dei Problemata: consigliava al paziente di tenere lontano, nei limiti del possibile, «curas, moemores, profundas cogitationes, et intenta animi studia», di sottoporsi ai clisteri evacuativi, oppure di bere infusioni di sera arricchita di succo di mercorella. (da Apprendista in Sicilia, p. 37)
Anche quando scrive rivolgendosi ai colleghi (o fingendo che siano loro i destinatari dei suoi pungenti avvertimenti) non resiste alla tentazione d'abbandonarsi a graffianti considerazioni tali da mandare in bestia i destinatari delle sue frecciate. I dottori togati e i medici collegiati – c'era da aspettarselo – lo fecero tribolare tutta la vita, a Roma, a Venezia, a Milano dove nel 1573 riuscirono perfino a buttarlo in carcere sotto la falsa accusa d'esercizio abusivo della professione. Per il "cavaliere aurato" Fioravanti la rabbia e l'umiliazione dovettero essere smisurate. (da Fra tradizione e innovazione, p. 67)
Napoli, a quei tempi, vantava una cultura medica d'alto livello. Analisti e commentatori di talento leggevano Galeno sull'originale greco. Fra questi il siciliano di Regalbuto Gian Filippo Ingrassia (1510-1580), epidemiologo, pioniere della medicina legale, osteologo agguerrito che, lettore dello studio partenopeo dal 1544 al 1553, dimostrerà nel In Galeni de ossibus doctissima et expectatissima commentaria che il maestro di Pergamo aveva costruito la sua osteologia lavorando indifferentemente su ossa di scimmie e ossa di uomini. Ma soprattutto la sua giovanile Iatropologia, uscita proprio a Napoli nel 1549, avrebbe dovuto richiamare l'interesse di Fioravanti per la vis polemica contro la vecchia medicina che aveva stoltamente allontanato la manualità dalla teoria, dilatando quel solco fra physica e chirurgia, fra teoria ed esperimento che Ingrassia avrebbe voluto invece ricondotto ad unità. (da Le «maraviglie» di Napoli, p. 91)
Laggiù aveva lasciato un piccolo gruppo di allievi fra cui il messinese Giuseppe Moleto che lo aveva seguito quando era salpato dalla Sicilia. «Quel vostro messer Iseppo Moleto ciciliano», gli comunicava in quella stessa lettera Zavaglione, «si andò a partire di Napoli che averia guadagnato lo munno, se vi fosse stato». Trapiantato al Nord, questo «sapientissimo» allievo entrato alla corte dei Gonzaga in qualità di medico e astrologo era poi passato nella città dei Dogi dove – ricordava Fioravanti che gli indirizzerà una breve lettera sopra i rapporti ricorrenti fra medicina, astrologia e matematica nel Compendio di tutta la chirurgia – «ora in Venezia è uomo di grandissimo conto e dottor e lettor celeberrimo». (da Le «maraviglie» di Napoli, p. 102)
Corpulento e imponente, Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano, alternava a lunghi periodi di tranquilla mitezza improvvisi scoppi di ferocia crudele. In una notte di luglio, parecchi anni dopo, nel castello di Cerreto Guidi avrebbe strangolato con un laccio, fra gli abbracciamenti coniugali, la prima moglie Isabella, foglia di Cosimo I, il duca di Toscana che nel 1550 serviva come ammiraglio, sospettandola colpevole di turpi amoreggiamenti. Condottiero per terra e per mare, professionista della guerra, il rampollo della grande famiglia «orsina» passò in seguito al servizio di San Marco diventando «Governator generale della serenissima Signoria di Venezia». (da Al vento del Mediterraneo, p. 116)
Anche Francesco di Lorena, duca di Guisa, il grande capitano detto le Balafré (lo Sfregiato), sceso in Italia alla guida di un esercito francese a difesa dello Stato della Chiesa invaso dagli spagnoli di Filippo II, subiva il fascino dei «secreti». Feritosi accidentalmente mentre scendeva da cavallo e curato da Fioravanti, incuriosito dai suoi medicamenti, non solo volle per sé le ricette seguendone personalmente la preparazione, ma molto liberalmente gli passò anche certi segreti medicinali patrimonio geloso della sua casata. Dal racconto che ne diede Fioravanti viene fuori un aspetto discutibile e piuttosto ciarlatanesco di questo medico che sfrutta con molta disinvoltura le nuove acquisizioni del suo patrimonio terapeutico, vantandone la nobilissima origine, l'aristocratico valore aggiunto. Venivano da una famiglia d'altissimo lignaggio imparentata per di più con gli unti del Signore, coi discendenti di quei re taumaturghi, famosi guaritori di scrofole. (da Roma, la «città santa», pp. 137-138)
Anche il giovane Iacopo da Ponte, poco dopo essere arrivato da Bassano sulla laguna, affascinato dai problemi delle acque, fu preso (come suo padre era stato alloppiato dall'isteria alchimistica) dalla febbre idraulica e insieme a due suoi amici pittori aveva inventato e messo a punto una macchina (di essa ci mancano notizie più precise) per la quale il Senato aveva rilasciato nel 1535 un brevetto valido venticinque anni, diffidando che «alcuno non possa senza loro remissione usar il nuovo inzegno et modo per loro ritrovato di far molini, siege, condur, alzar acque, seccar paludi etc. con condicione che li edificii et inzegni predetti non faccino pregiudicio alcuno et danno alli lidi et lagune nostre et acque salse, sì come per li Savii nostri sopra le acque è consigliato». (da Venezia, «ombelico del mondo», p. 150)
Inseritosi facilmente nel ricettivo ambiente veneziano, era entrato in contatto non solo con molti maestri delle arti meccaniche ma anche con alcuni prestigiosi esponenti di quelle liberali, ritrovando anche vecchi discepoli come Giuseppe Moleti che matematico, astrologo e precettore alla corte dei Gonzaga, poi docente di astronomia allo studio di Padova, si era anche cimentato nella traduzione della Geografia di Tolomeo. (da Venezia, «ombelico del mondo», p. 150)
Fra i personaggi più in vista in quegli anni era Girolamo Ruscelli «splendor di molte scienze», «di tutte le scienze et arti grandissimo professore», uomo di «gran dottrina, sì nelle lettere, come anco in tutte l'arti liberali e mecanice», versatile cervello che aveva dato alle stampe nel 1557 la prima parte di una miscellanea di segreti. A Fioravanti che dopo una «longa peregrinazione» in «diverse provincie», dopo avere conosciuto «le qualità di diversi uomini, le virtù di molti simplici, le differenzie di diversi paesi» era approdato all'ombra di San Marco, Ruscelli apparve il grande letterato classicista non insensibile al vento nuovo mosso dalla «figura turbolenta e paradossale» (W. Pagel) del mistico, ambiguo mago di Einsiedeln, un rinnovatore della cultura che, trascurando la teologia dei generi letterari e gli statuti delle liberali discipline, lavorava al ricongiungimento dei saperi «mecanici» e «ignobili» con quelli nobili. (da Venezia, «ombelico del mondo», pp. 150-151)
Salpando verso la Sicilia Leonardo Fioravanti sapeva molto bene d'andare incontro all'avventura: seguiva le orme e la tradizione d'innumerevoli chirurghi che fiutavano il sangue da lontano, di ciarlatani erranti e d'empirici girovaghi che passavano di piazza in piazza, di terra in terra, intraprendenti, abili maestri della seduzione orale e teatrale. Geniali talvolta e colti, sempre consumati incantatori e spericolati commedianti. Spiccava tra questi un personaggio d'eccezione, Iacopo Coppa, altrimenti detto Iacopo Modenese o il Modanese tout court. (da Da Firenze a Pola, p. 177)
Compariva Iacopo Coppa sulle piazze «con un gran stendardo nel quale», raccontava Clelio Malespini, «era depinta una donna ignuda con una lingua nella mano sinistra e un coltello nella destra, figurata per la bugia»: un emblema parlante che dovette certamente colpire Fioravanti quando lo vide, probabilmente a Venezia, dove il Modanese aveva abitato a più riprese e che a Venezia ritroviamo nel 1561 quando già il giramondo bolognese vi era arrivato da alcuni anni. Fioravanti infatti vedeva nella lingua l'organo infame della maldicenza, il carnoso strumento della calunnia, della mormorazione, dell'invidia. (da Da Firenze a Pola, p. 178)
La lettera-dedicatoria ad Alfonso Ulloa (1529-1570?) posta subito dopo quella indirizzata al futuro duca d'Urbino Francesco Maria della Rovere, costituisce un significativo omaggio allo storico e poligrafo spagnolo che a Venezia aveva trovato la sua seconda patria. Indefesso traduttore (fra l'altro voltò in castigliano anche l'Orlando Furioso e il Canzoniere di Petrarca) fu particolarmente attivo nello scambio culturale fra le due penisole. Il pubblico riconoscimento rivoltogli da Fioravanti sottolinea proprio questo aspetto dell'attività di Ulloa, grande importatore e diffusore di cultura iberica fra i lettori italiani. Il Signor Alfonso, cui si rivolge Fioravanti con deferente familiarità, era da lui personalmente conosciuto e frequentava quel circolo di letterati (Ruscelli, Dolce, Atanagi, Borgarucci...) che aveva accolto anche il medico bolognese. (da Note al capitolo 9, p. 217)
Monopolio di Stato, la teriaca veneziana aveva praticamente cancellato quella orientale, invadendo tutte le piazze mediterranee, del centro e del nord Europa, approdando perfino nel Nuovo Mondo. Manifesti stampati in varie lingue (francese, spagnolo, inglese, tedesco, greco, arabo, turco, armeno) portanti le insegne delle farmacie con le molteplici virtù del quasi bimillenario divinum inventum, la composizione e le istruzioni per l'uso, ne appoggiavano la diffusione e la commercializzazione. Per quasi tutto il XVI secolo lo smercio di questo antichissimo farmaco universale ritrovato da Crateva, medico di Mitridate, poi modificato da Andromaco, medico di Nerone, e perfezionato da Galeno, fu intenso, anzi massiccio. Ma anche nel Seicento, seppur con minor slancio, continuò la sua marcia trionfale ovunque. (da Da Venezia all'Europa, p. 226)
All'Archivio di Stato di Venezia si legge in una lettera dell'ambasciatore di Francia (2 maggio 1621) che «la Theriaca di questa Città solita fabbricarsi per il passato è stata sempre tanto in Pariggi, che in tutte le provincie della Francia, dico stata tenuta sempre in grandissima reputazione, e d'ogni sorte di persone ricercata, e posta in uso, come antidoto preziosissimo per la salute umana». Nello stesso anno e nello stesso mese, il 28, l'ambasciatore d'Inghilterra accreditato a San Marco certificava che la «Theriaca composta annualmente dagli approbati Speciali di Venezia... è sommamente pregiata ed adoperata volgarmente, con evidentissimo benefizio nelle nostre bande». (da Da Venezia all'Europa, p. 226)
Eppure era proprio fra le calli e i canali del labirinto veneziano che si acquattavano i suoi più velenosi nemici. Fioravanti sentiva che qualcosa si stava preparando contro di lui, lo fiutava nell'aria densa di salsedine e di aromi che impregnava campielli e sestieri. Sapeva che molti medici diffidavano di lui, che molti speziali lo odiavano a morte pronti a qualunque calunnia pur di eliminare un medico che disprezzava la teriaca, la panacea universale che impinguava i forzieri delle loro botteghe rinomate in tutto il mondo. (da Da Venezia all'Europa, p. 233)
A Venezia, «centro d'Italia», aveva infatti intrecciato una serie di relazioni con noti personaggi del milieu culturale lagunare: da Ludovico Dolce versatile compositore di tragedie, commedie, rime, al poliedrico e irrequieto Girolamo Ruscelli, «lume e splendore di molte scienze e gran professore delle lettere ebraiche, greche, latine e toscane», che fu, fra mille altre cose, «segretista» di successo nonché esperto di fuochi artificiali e d'artiglieria nei Precetti della militia moderna, tanto per mare quanto per terra; al suo fraterno compare Dionigi Atanagi, revisore dell'Amadigi di Bernardo Tasso, poligrafo occupato in una miriade di attività, correttore anche delle opere di Fioravanti. (da Da Venezia all'Europa, pp. 235-236)
Essere divenuto un medico alla moda, ascoltato e imitato nelle terre subalpine, era soddisfazione non piccola se anche Girolamo Ruscelli aveva ritenuto opportuno nascondersi sotto il nome di «Alessio Piemontese», travestirsi da mago-erborista pedemontano per dare un blasone di tradizionale nobiltà al suo libro di segreti, sulle orme del canavesano Pietro da Bairo (c. 1468-1558), autore del fortunatissimo Veni mecum, un manuale di rimedi spiccioli, più noto sotto il titolo italiano di Secreti medicinali (Torino 1512), un repertorio di medicina popolare fra i più diffusi fono al Settecento. (da Da Venezia all'Europa, pp. 231-232)
Nemmeno nei momenti di maggior successo e di presumibile agiatezza, Fioravanti aveva voluto acquistare una casa di sua proprietà a Venezia. [...] Non è chiaro se si recasse anche a Siviglia dove abitava il più esperto conoscitore delle meraviglie naturali che affluivano dal Nuovo Mondo, ma è certo che la lettura delle opere fresche di stampa del dottor Nicolas Bautista Monardes e in particolare della Historia medicinal de las cosas que se traen de nuestras Indias Occidentales, que sirven en medicina, uscita a Siviglia nel 1574 (rapidamente tradotta in italiano da Amilcare Briganti da Chieti e pubblicata a Venezia nel 1576), insieme alla possibilità d'incontrare indiani e testimoni oculari provenienti dai paesi d'oltreatlantico stimolò la sua sempre accesa curiosità invitandolo a un serrato confronto fra la farmacopea italiana e quella americana. (da Gli ultimi anni, pp. 249 e 252)
Se nel Nord Tomaso Garzoni aveva in verso e in prosa esaltato il «glorioso Fioravanti da i miracoli» per i suoi spericolati interventi chirurgici, per l'«angelico e divino Elixir Fioravanti», perla della sua irraggiungibile perizia terapeutica, anche nel Sud si era alzata la voce di Marco Aurelio Severino (1580-1656) a elogiare il «Fioravanti Bolognese» per i suoi «medicamenti policresti» nella Trimembris chirurgia, e a difenderlo dai detrattori. (da Gli ultimi anni, p. 264)
La scienza coabitava fruttuosamente coi saperi magici ed esoterici, con le invenzioni fantastiche e prodigiose, con le affatturazioni «miracolose» e i «prestigi» anche in persone che, abilissime nelle arti meccaniche «dove interviene», precisava Tomaso Garzoni, «lima e martello» (orologiai, ingegneri militari, esperti di idraulica, maestri delle arti del fuoco...), avrebbero dovuto essere meno sensibili ai richiami dell'occulto. Il fascino dell'arcano, delle «secrete e maravigliose cose» contagiava tutti. (da Gli ultimi anni, p. 269)
Quando l'ora lo colse e l'avida signora entrò senza bussare nella sua casa, certamente d'affitto, per riscuotere l'ultima pigione, trovò che la stava aspettando. Da tempo aveva gettato ogni medicina. Aveva sempre saputo che contra vim mortis non est medicamentum in hortis. Ora doveva scendere sotto terra «a far», come amava dire, «pignatte».
«Non è cosa né cibo che più sia conforme al nutrimento dell'uomo quanto è la carne umana, se non fosse la abbominazione che la natura ha a quella», osservava serenamente alla fine del '400 il medico-astrologo Girolamo Manfredi nel libro del Perché volgarizzato. E invero la vecchia società coltivava nei sogni della notte e nelle fantasie diurne una inquietante predisposizione a pratiche alimentari molto disinvolte, affascinata da rituali trasgressivi, rimossi ma non cancellati dal «processo di civilizzazione». Fin da allora il disagio della civiltà incominciava a farsi sentire, col suo insopportabile carico.
Citazioni
Anche le più edonistiche prestazioni sessuali si configuravano come prelievi, come donazioni, come trasfusioni. Da vivi a vivi per dare scacco alla morte o per dimenticarla, temporaneamente. [...] Traendo da queste premesse le logiche deduzioni, si potrebbe banalmente riassumerle nella considerazione che mangiare, bere o succhiare il corpo dell'altro – come di solito avviene negli atti venerei – è un rispettabile atto d'amore e d'ossequio verso se stessi. Il linguaggio d'amore («ti mangerei di baci», con tutte le infinite varianti personali) è la copertura verbale e metaforica d'una pulsione dolcemente omicida. (da Il «misterio del coito», p. 11)
L'appetito femminile, nell'età premoderna, non aveva nulla da invidiare a quello maschile. La lussuria muliebre, non medicata, non affatturata, nasceva nella natura calda e umida, spontanea e incontenibile. Per temperarne il calore, per mitigarne o esorcizzarne i libidinosi richiami, la farmacologia prescriveva alimenti inclinanti al freddo e al secco, non di «virtù calida e umida o ventosa»: come i cosiddetti «testicoli di cane», già individuati e descritti da Galeno, dalla doppia radice. (da L'inutile ludibrio, p. 34)
Uomini e donne, però, più che perseguire sogni di castità, più che ricercare nuovi segreti "contro l'ardore de la libidine e de la luxuria» (come scriveva Caterina Sforza, signora di Forlì, nei suoi Experimenti), attendevano all'alacre ricerca di remedia e medicamenta di segno opposto. Nella Clizia di Niccolò Machiavelli, il vecchio Nicomaco si preparava alla giostra amorosa con quegli stessi corroboranti che godranno la fiducia, molti anni più tardi, anche di Alessandro Petronio: satirione e piccione. (da Venerea voluptas, p. 38)
Gli intellettuali e i letterati barocchi, sfiorati dalle minacciose folle dei pezzenti e dei montanari senza pane, dalle scomposte e ululanti processioni della fame, si difenderanno – secondo la loro tradizionale inclinazione – sparando ciniche, velenose bordate sopra la marea dei pitocchi, i «formiconi scioperati». È questo il caso di Baldassarre Bonifacio che nel 1629 vive a Treviso una agitata crisi pauperistica, trasferita di lì a poco nei sonetti impietosi e sulfurei de Il paltoniere. L'angoscia dei pochi di fronte al fluttuare impazzito, per le strade, degli innumerevoli divoratori di rifiuti, gli uomini-bruchi, gli uomini-insetto; l'ansia nei gruppi di potere nei confronti dei grandi, minacciosi numeri, della proliferazione incontrollata dei miserabili, dello spettro d'una società negativa che, renitente all'integrazione, agita la illusoria bandiera d'una società oppositiva, innervano nei sonetti del Bonifacio l'immagine ossessiva della marea montante, dell'acqua che sale irresistibilmente per provocare l'asfissia finale. (da Il pane fuggente, p. 31)
I diavoli – si noterà – brandiscono strumenti da lavoro contadini, i «forconi», strettamente collegati al «letame», cioè all'elemento escrementale dispensatore di fertilità sulla terra, nutrita dai rifiuti fecali; e anche Ciriatto «sannuto» (Inf., XXI, 122) scaturisce certamente da questa demonologia popolare connessa alle figure del mondo agrario come il maiale, elemento fondamentale dei «patroni" contadini come quel Sant'Antonio abate, creazione, cristianizzata, del folklore carnevalesco. (da Il carnevale all'inferno, p. 36)
«Strane, orride e brutte», apparvero a Morgante le «membra» di Margutte; alla bruttezza e alla stranezza delle forme s'aggiungeva la carnagione scura («in volto parea tutto fosco»). Gigante abortito o nano ingigantito (l'ipertrofismo e la miniaturizzazione corporale sono valori abituali della misura grottesca dell'umano), Margutte, essere d'origine ambigua, sembra appartenere anagraficamente a una progenie particolare che ha nel territorio del folklore la sua vera patria: la provincia non umana abitata dai nani e dai giganti, dai folletti e dai «salvatici», dai mostri e dalla multiforme e variopinta genìa delle creature «contraffatte», di varie dimensioni e fattezze, quelle che popolavano la selva medievale delle mostruosità grottesche, quelle che sciamavano nella parata carnevalesca dei mostri informi. (da Calcagnantes, truffatore et malagentes. La famiglia di Margutte, p. 57)
Come il mutare delle lune, il lunatico o il buffone cambia volto, pensieri, comportamenti, travolto dalla spirale nevrotica del cambiamento (la spirale è remoto segno del tempo ciclico). Ma forse il buffone ha intuito misteriosamente «l'identità interna del mondo e del caos», quello che Gilles Deleuze chiama il Caosmo, l'impossibilità del ritorno dell'identico, del simile, dell'eguale. (da La scienza del ventre. Declino e morte di Cuccagna, pp. 120-121)
«On était vraiment las d'être au monde», annotava nel suo diario un curato di campagna francese nel XVII secolo interpretando la disperazione dei parrocchiani più miserabili che morivano di fame nel suo villaggio. All'inizio dello stesso secolo un canonico bolognese, Giovanni Battista Segni, ricordava che in Padoa del 1529 ogni mattina si ritrovavano per la città venticinque e trenta morti di fame sopra i lettami nelle strade. Li poveri non avevano effigie umana.
Citazioni
Medici autorevoli come il Cardano vociferavano che nel Nuovo Mondo era stata ritrovata «una fontana d'acqua assai più preziosa del vino, di cui qualunque ne beve di vecchio giovane diviene». Testimoni rispettabili, informatori sulla parola dei quali non è lecito dubitare, spergiuravano che qua e là vecchi quasi centenari avevano visto i loro capelli tornare neri, le rughe svanire, i denti rinascere e vecchie grinzose e decrepite s'erano improvvisamente rassodate nelle mammelle lunghe e pendule rifiorendo in tutto il corpo. (da La «miserabile malattia», p. 27)
Inutilmente i pezzenti dei campi recitavano proverbi falsamente consolatori, litanie uscite dalla rassegnata, sconsolata coabitazione con la fame millenaria [...]: quasi tre secoli dopo gli agricoltori friulani descritti da Caterina Percoto, la «baronessa contadina», nell'Anno della fame, in primavera falciavano per sopravvivere il grano ancora verde. (da Il pane fuggente, p. 34)
Insieme alla medicina pauperum si teorizza anche una cucina per i poveri, l'una e l'altra utile per reperire – consiglia autorevolmente il grazianesco Ovidio Montalbani, versatile e polimorfo intellettuale che coprì a Bologna anche la carica di «Tribuno della Plebe» – «materie più facili e di minor costo altrettanto buone e valevoli, quanto le più preziose». (da Medicina pauperum, p. 135)
La gerarchia dei pani e delle loro qualità sanzionava di fatto un confine sociale; il pane rappresentava uno status symbol che qualificava una condizione umana e una classe, a seconda del suo particolare colore che svariava in tutta la gamma dal nero al bianco, prima dell'introduzione del mais nella panificazione che modificò, anche coloristicamente, quella tirannia dei cereali che per millenni si era protratta fra le popolazioni dell'Occidente e di tutte le terre in cui le granaglie costituivano l'alimento primario. (da Vertigini collettive, p. 149)
L'ossessione seicentesca delle unzioni va di pari passo con le tecniche oniropoietiche, con le sperimentazioni e i tentativi di pilotare le immagini dell'irreale verso forme piacevoli e seducenti, lontano dagli spaventi delle ore notturne. Molto meno darei fede – scrive Paolo Zacchia, uno specialista secentesco di sindromi melanconiche, archiatra pontificio e pioniere della medicina legale – a coloro che con fare alcune unzioni o porre sotto i guanciali alcuna cosa, si persuadono di far vedere que' sogni che vogliono, come racconta un curioso autore [Cardano] del sangue d'un uccello chiamato upupa, del quale se si untano le tempie nell'andare a dormire, pensa che faccia vedere in sogno cose meravigliose. (da Sogni iperbolici, p. 166)
Gli angeli-vermi cagliati dal formaggio primordiale ai quali era solito accennare Menochio durante i lunghi interrogatori inquisitoriali, riproponevano, alla luce di una religione animistica e materialistica, l'immagine della grande putrefazione verminosa. Angeli, demoni o folletti che fossero, questi esseri scaturiti per generazione spontanea dalla liquida materia, erano stati nobili antenati di una progenie degenerata, convertitasi alla religione del male, burattinai occulti e maligni di energumeni e ossessi, oltre che torturatori di bambini, secondo la migliore tradizione stregonesca. (da La "volubile e verminosa colonna", p. 196)
Il flagello dei vermi era perciò paventato da tutti, incarnazione di forze viscide e malefiche, presagio e segno di carestie, pestilenze, febbri maligne, continue e discontinue. Gli uomini degli antichi stati vivevano nella paura degli insetti: le mosche, le pulci, le cimici, i pidocchi, i «vermi che mangiano il frumento in erba», i vermi che davano il «guasto alle campagne intere», le locuste. (da La "volubile e verminosa colonna", p. 201)
fa apparire oziosi e accademici i consigli di quanti, come il Montalbani, additavano nella raccolta selvaggia dei frutti della terra non coltivata i possibili rimedi contro la fame. In realtà i vagabondi, isolati o in bande, erano da sempre abituati a vagare per la campagna, anche perché le città chiudevano loro la porta in faccia [...]. Assume perciò un aspetto sinistro (la via verso la morte sicura) l'esortazione rivolta al Senato bolognese dal togato Montalbani di persuaderli a prendere la strada dei boschi e delle radure selvagge; l'invito ha tutta l'aria di un perfido raggiro, d'una infernale trappola escogitata per condurli a una silenziosa tomba, a una appartata distruzione per sbarazzare la città, i possidenti, i maggiorenti, i senatori, dalla triste canaglia, sempre portata al tumulto, dalle loro grida e dai loro lamenti, dai loro corpi piagati, dal fetore degli stracci consunti e laidi, vermi divoratori di «dieta o lattuca», di «crusca», di «torsi e ghiande». ( da Putridi vermi e sordide lumache, pp. 212-213)
Segregati i «libertini», incatenate le «innumerae pestes Erebi», ridotte al monotono silenzio della giaculatoria devota biascicata in meccanica ripetizione le bocche dei birbanti vomitanti oltraggi e bestemmie, la società dei giusti e dei buoni, per mezzo della voce degli studiosi «humaniorum litterarium», celebrava con l'inaugurazione dell'Ospedale Generale («in solenni renascenti Ptochotrophii instauratione»), l'auspicato ritorno all'ordine, il «festum novum», il trionfo della povertà o, più correttamente, il trionfo sulla povertà: paupertatis triumphus.
Nella primavera del 1561, passati ormai gli «eccessivi freddi» dell'inverno padano, quando anche le nevi sulle giogaie appenniniche si stavano sciogliendo, Leonardo Fioravanti, «bolognese et medico in l'una e l'altra professione», sospesi tutti i suoi «negotij» e lasciata Venezia dove aveva casa «acanto al frutarolo di san Zuliano», giunse finalmente davanti al nuovo, magnifico palazzo del duca. Era entrato a Firenze con grandi progetti e pieno di speranze, certo che Cosimo I lo avrebbe sicuramente ricevuto senza indugio.
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Nella nuova «cosmografia dell'uomo» tracciata da Leonardo Fioravanti, il professionista delle tecniche empiriche e sperimentali della salute e del corpo, il conoscitore dei segreti dell'arte chimica e distillatoria (lo spaginico) e soprattutto delle proprietà delle erbe, diventa il protagonista emergente della nuova medicina. Per questo, accanto al divino Paracelso e all'incomparabile principe della botanica rinascimentale, Pietro Andrea Mattioli, maestro «unico e raro al mondo» che «nella medicina ha passato di gran lunga tutti gli altri» e «in materia dell'erbe – riconosceva Fioravanti nella Fisica – ha dato vita la vera luce del mondo» e «ha mostrato al mondo la vera arte di medicare e di destillare», trovano onorevole posto le umili, misconosciute, anonime figure di «semplici empirici», di villani, di pastori, di donnicciole. (da Il villano danubiano, p. 138)
L'orina colava dappertutto: ai tempi di Lodovico Antonio Muratori «gran sozzura si vede nelle scale de' pubblici palazzi per l'orina, ch'ivi si raccoglie. Se per uso delle fabbriche de' panni ha qualche scusa: ma se altrimenti fosse, sarebbe un'enorme improprietà». Una «improprietà», seppur enorme, urinare sulle scale comunali che richiedeva una «più decente maniera" per la «pulizia del pubblico». Una pratica sociale molto diffusa (gli escrementi non erano stati ancora privatizzati) e tranquillamente accettata in una società mitridatizzata contro i mille fetori dell'«aere corrotto», e immunizzata contro il lezzo della decomposizione delle carni e delle sostanze organiche. Se nei cimiteri si vendevano carni e pesci, vi si ballava anche, si mangiava, ci si amava. Il rapporto tra l'uomo e il corpo passava attraverso un diverso rapporto con la morte. (da Le «officine de' lambiccanti», p. 170)
Chi lavorava nelle «fodine» di Ungheria, di Boemia, di Germania, dei Carpazi, raramente riusciva a raggiungere i quarant'anni. Fra le montagne carpaniche – racconta Georgius Agricola nel De re metallica (1556) – non era raro imbattersi in vedove di minatori (fossores) che si erano risposate anche sette volte. «Horrenda symtomata» colpivano i lavoratori delle miniere di piombo. (da Sporcizia e sudore: l'inferno dei lavori ignobili, p. 222)
In passato non era troppo rara la figura del rivendugliolo (non infrequentemente gobbo) di chincaglieria, di pizzi, di cotone, di pettinine, di nastri, di aghi che s'inerpicava a forza di mulo nei più sperduti paesi dell'Alto Appennino, con le sue cassette a scompartimenti bilanciate sui fianchi della bestia. Portava anche notizie, novità, sussurri, biglietti, dispacci d'affare o d'amore; ripartiva con molti messaggi da condurre a destinazione, qualche soldo in più e un po' di «marocca» in meno. (da Mestieri nomadi e arti per via, p. 291)
Il vecchio costume medievale del basso clero che era stato parte attiva in certi riti extraliturgici come quello dell'episcopellus, del festum stultorum, del risus paschalis (quando il sacro era sentito tanto familiare a tutti da potersi prendere straordinarie libertà senza per questo cadere nella riprovazione o addirittura nella punizione, e il carnevale veniva celebrato anche dentro i conventi da frati che si mascheravano, ballavano, cantavano, allestivano commedie e nei monasteri da monache che si travestivano da uomini), costituiva una delle resistenze più tenaci al riammodernamento del costume sociale e all'accettazione della nuova dimensione religiosa che portava il prete alla solitudine. (da Vita di borgo nella Romagna premoderna, p. 348)
Berengario da Carpi fu il più autorevole teorico-pratico nel delicato settore della neurochirurgia. La sua De fractura calvae sive cranei (1518) segnò un punto sicuro nel campo di questi perigliosi interventi, praticati dalla manualità chirurgica fin dal III o II millennio a. C. (da Vita di borgo nella Romagna premoderna, p. 354)
Nel Quattrocento e per larga parte del secolo seguente l'investigazione della natura era di competenza dell'esoterismo alchimistico, affidata al sogno febbrile della trasmutazione di metalli, alberi, animali o addirittura "homuncoli", di umanoidi usciti dalla provetta: "vogliamo che si creda che fuor del ventre feminile generar e formar si possa uno homo et ogni altro animale con carne, ed ossa e nervi, ed anco animarlo di spirito con ogni altra convenienzia che se gli ricerca. E similmente far nascere gli arbori e l'erbe – continuava Biringucccio nel cap. I del I libro della Pirotechnia – con l'arte senza il seme lor naturale. E così i frutti separati da gli arbori, dandolo le forme loro, e così li colori, gli odori e sapori come li veri naturali..." (Da Dal paese al paesaggio, p. 31)
Questo longitudinale paese che oggi s'identifica nello stereotipo nazional-geografico di stivale (solo verso la metà del Seicento s'incominciò a vederlo sotto la "forma di uno stivale") veniva nei secoli precedenti immaginato "a guisa di una croce posta in lungo dalle Alpi e dallo Appennino infino a Regio et alli lidi di Calavria". Oppure era visto "a simiglianza d'una fronda di quercia, più lunga che larga", come l'avevano nell'antichità classica definita Plinio e Solino, immagine ripresa da Fazio degli Uberti e poi da Flavio Biondo, "Molto simile ad una pampana di quercia". (Da La città: bellezza e nobiltà, p. 68)
"La potenza gli rende altieri" – scriveva in una lettera da "Bonna" (Bonn) nel 1675 Giovan Battista Pacichelli compendiando e ponendo "di lontano sotto l'occhio i costumi tedeschi" – "e l'altierezza disprezzanti degli altri, massimamente degli Italiani, che in alcuni luoghi chiamano Hundt Valscher, cioè cane italiano". (Da La città: bellezza e nobiltà, p. 78)
Camporesi è lettore malizioso di testi secenteschi, e anche, direi, scrittore di testi di quel secolo. E fra quei testi, predilige i predicatori, i naturalisti, descrittori barocchi di una natura barocca, i medici, i cronisti; questi ultimi perché mescolano la vocazione dei cronisti della «nera» – nel senso attuale – e degli agiografi devoti di miracoli e mostruosità. (Giorgio Manganelli)
Il carattere propriamente storico – anche e magari perfino soprattutto sotto il profilo della storia civile, sociale, etica: «dell'identità nazionale», come oggi si amerebbe dire – della lettura camporesiana di Artusi viene soprattutto evidenziato e per così dire sintetizzato nella famosa affermazione di Camporesi, che «La scienza in cucina ha fatto per l'unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare I Promessi Sposi. I gustemi artusiani, infatti, sono riusciti a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani.» (Franco Cardini)
Piero Camporesi, Camminare il mondo. Vita e avventure di Leonardo Fioravanti medico del Cinquecento, Garzanti, Milano, 1997. ISBN 88-11-69274-1
Piero Camporesi, I balsami di Venere, Garzanti, Milano, 1989. ISBN 88-11-65155-7