rivoluzionario e politico ghanese Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Kwame Nkrumah (1909 – 1972), politico ghanese.
Vi sono stati, in questo continente africano, diversi grandi imperi. Quando noi saremo tutti nuovamente liberi, la nostra personalità africana fornirà ancora una volta tutto il suo contributo alla somma delle conoscenze e della cultura umana.[1]
Noi siamo infatti decisamente allineati con tutte le forze del mondo che operano sinceramente per la pace.[2]
L'Africa ha davanti a sé due strade. La prima è quella dell'unificazione graduale. Ci sentiamo continuamente raccomandare di avvicinarci all'unità in modo graduale, un passo dopo l'altro. Chi esprime questo auspicio considera l'Africa come un essere statico, che si porta addosso una serie di problemi congelati, da eliminare uno dopo l'altro; dopo di che, fatta piazza pulita, ci si riunisce insieme e si dice: 'adesso che tutto è a posto, possiamo unirci'. È una visione che non tiene conto né delle pressioni esterne, né del fatto che ogni rinvio serve solo ad aumentare le nostre difficoltà, a dividerci e a spingerci tutti insieme nelle reti del neocolonialismo. [...] In sostanza, che cosa vogliamo per l'Africa? Una Carta modellata sull'esempio dell'ONU? Un'organizzazione tipo l'ONU, in cui si creino dei gruppi che esercitino pressioni conformi ai loro personali interessi? Vogliamo trasformare l'Africa in una duttile organizzazione di Stati sul modello degli Stati americani, in cui il più debole diventi vittima del vicino politicamente ed economicamente più forte e tutti insieme dipendano dalla buona grazia di una, o più, potenze straniere? (dal discorso all'Oua, 22 maggio, 1963)[3]
I nostri popoli ci hanno sostenuto nella lotta per l'indipendenza perché erano convinti che i governi africani sarebbero stati in grado di eliminare i mali del passato in un modo che non sarebbe mai stato possibile sotto il dominio coloniale. Se oggi, conquistata l'indipendenza, lasciamo permanere le stesse condizioni di prima, tutto l'odio che ha portato all'abbattimento del colonialismo si volgerà contro di noi. [...] Finché il potenziale economico dell'Africa non si troverà nelle nostre mani, le masse non potranno provare una reale preoccupazione e un sincero interesse nel difendere la propria sicurezza, nel mantenere stabili i nostri governi e nell'organizzare gli sforzi necessari a raggiungere le mete da noi prefissate. (dal discorso all'Oua, 22 maggio, 1963)[3]
Molti Stati africani indipendenti sono legati da trattati militari alle ex potenze coloniali. La stabilità e la sicurezza che questo genere di patti tenta di stabilire sono illusorie, perché le potenze occidentali non mancano l'opportunità di sostenere il loro controllo neocolonialistico attraverso il coinvolgimento militare diretto. Abbiamo visto come i neocolonialisti usano le loro basi per radicarsi e anche per sferrare attacchi contro i vicini Stati indipendenti. Queste basi costituiscono centri di tensione e potenziali punti di rischio di conflitti armati. (dal discorso all'Oua, 25 maggio 1963)
Many independent African states are involved by military pacts with the former colonial powers. The stability and security, which such devices seek to establish, are illusory, for the metropolitan powers seize the opportunity to support their neocolonialist controls by direct military involvement. We have seen how the neocolonialists use their bases to entrench themselves and even to attack neighboring independent states. Such bases are centers of tension and potential danger spots of military conflict.[4]
Come possiamo sperare di fare dell'Africa una zona denuclearizzata e indipendente dalla pressione della guerra fredda con un tale coinvolgimento militare nel nostro continente? Solo contrapponendo una forza comune di difesa, ispirata dal desiderio unitario di un'Africa libera dall'influenza straniera e dalla presenza militare e nucleare. Ciò richiederà la costituzione di un Alto Comando di tutti gli Stati africani, soprattutto laddove si debbono revocare i patti militari con gli imperialisti. È l'unico modo in cui possiamo spezzare questi legami diretti fra il colonialismo del passato e il neocolonialismo che sconvolge il nostro presente. (dal discorso all'Oua, 25 maggio 1963)
How can we hope to make Africa a nuclear-free zone and independent of cold war pressure with such military involvement on our continent? Only by counter-balancing a common defense force with a common desire for an Africa untrammeled by foreign dictation or military and nuclear presence. This will require an all-embracing African High Command, especially if the military pacts with the imperialists are to be renounced. It is the only way we can break these direct links between the colonialism of the past and the neocolonialism which disrupts us today.[4]
Da Ghana is free forever
Discorso alla vigilia dell'indipendenza del Ghana, 6 marzo 1957; riportato in BBC.co.uk, 2 marzo 2007
Finalmente, la battaglia è finita! E dunque il Ghana, il vostro beneamato paese, è libero per sempre.
At long last, the battle has ended! And thus Ghana, your beloved country is free forever.
Ho chiarito in modo inequivocabile che d'ora in poi – oggi stesso – dobbiamo cambiare i nostri atteggiamenti, le nostri idee, dobbiamo renderci conto che d'ora in avanti non siamo più un popolo coloniale, ma un popolo libero e indipendente. Ma anche, come ho già sottolineato, che questo comporta un lavoro duro.
I made it quite clear that from now on – today – we must change our attitudes, our minds, we must realise that from now on, we are no more a colonial but a free and independent people. But also, as I pointed out, that also entails hard work.
Conto sui milioni di abitanti del paese, sia sui capi che sul popolo, perché mi aiutino a rifoggiare il destino di questo paese. Siamo pronti a sollevarlo e a farne una nazione che sarà rispettata da ogni paese del mondo.
I am depending upon the millions of the country, and the chiefs and people, to help me to reshape the destiny of this country. We are prepared to pick it up and make it a nation that will be respected by every nation in the world.
Ci siamo risvegliati. Non dormiremo più. Oggi, d'ora in poi, c'è un nuovo africano nel mondo! Questo nuovo africano è pronto a combattere le proprie battaglie e a dimostrare che, a conti fatti, l'uomo nero è in grado di gestire da sé i propri affari.
We have awakened. We will not sleep anymore. Today, from now on, there is a new African in the world! That new African is ready to fight his own battles and show that after all, the black man is capable of managing his own affairs.
Mi sia permesso di rivolgere a tutti voi l'invito, in questo grande giorno, a ricordare noi tutti che niente al mondo può avverarsi senza l'appoggio e il sostegno di Dio.
May I call upon you all - that on this great day, let us all remember that nothing in the world can be done unless it's had the purport and support of God.
La nostra indipendenza non ha alcun senso, se non è congiunta alla totale liberazione dell'Africa.
Our independence is meaningless unless it is linked up with the total liberation of Africa.
L'Organizzazione per l'Unità Africana è stata resa di fatto inutile a causa delle macchinazioni dei neocolonialisti e dei loro fantocci. Viene tuttavia preservata la sua esistenza, relegandola ad un ruolo di organizzazione innocua, nella speranza che ciò possa ritardare la formazione di un'organizzazione panafricana realmente efficace e che conduca a una reale unificazione politica. Viene incoraggiata la formazione di organizzazioni economiche regionali africane, nella consapevolezza che senza coesione politica saranno inefficaci e serviranno a rafforzare, e non indebolire, lo sfruttamento e il dominio neocolonialista.
The Organization of African Unity has been rendered virtually useless as a result of the machinations of neocolonialists and their puppets. Yet it is being preserved as an innocuous organization in the hope that it may delay the formation of a really effective Pan-African organization, which will lead to genuine political unification. Encouragement is being given to the formation of African regional economic organizations in the knowledge that without political cohesion they will be ineffective and serve to strengthen, not weaken, neocolonialist exploitation and domination.
Il Panafricanismo trae le sue origini nella lotta di liberazione degli afroamericani, espressione delle aspirazioni dei popoli africani e della loro discendenza. Dalla prima Conferenza Panafricana, tenutasi a Londra nel 1900, fino alla quinta e ultima Conferenza Panafricana svoltasi a Manchester (Regno Unito) nel 1945, gli afroamericani sono stati la principale forza motrice del movimento. Il Panafricanismo si è poi spostato in Africa, sua dimora naturale, con l'organizzazione della Prima Conferenza degli Stati africani indipendenti di Accra (Ghana) nel mese di aprile 1958, e la Conferenza di tutti i Popoli Africani del dicembre dello stesso anno.
Pan-Africanism has its beginnings in the liberation struggle of African-Americans, expressing the aspirations of Africans and people of African descent. From the first Pan-African Conference, held in London in 1900, until the fifth and last Pan-African Conference held in Manchester (UK) in 1945, African-Americans provided the main driving power of the movement. Pan-Africanism then moved to Africa, its true home, with the holding of the First Conference of Independent African States in Accra (Ghana) in April 1958, and the All-African People’s Conference in December of the same year.
Il lavoro dei primi pionieri del Panafricanismo, Sylvester Williams, Dr. W.E.B. Dubois, Marcus Garvey e George Padmore, nessuno dei quali nato nel continente nero, ha valore inestimabile nella storia dell'Africa. È significativo che due di loro, il Dr. Dubois e George Padmore, si stabilirono su mio invito in Ghana. Il Dr.Dubois morì, secondo il suo stesso desiderio, in terra africana, mentre lavorava ad Accra all'Enciclopedia Africana. George Padmore è diventato il mio consigliere per gli affari africani, e ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in Ghana, offrendo il suo contributo alla lotta rivoluzionaria per l'unità africana e il socialismo.
The work of the early pioneers of Pan-Africanism such as Sylvester Williams, Dr. W.E.B. DuBois, Marcus Garvey, and George Padmore, none of whom were born in Africa, has become a treasured part of Africa’s history. It is significant that two of them, Dr. DuBois and George Padmore, came to live in Ghana at my invitation. Dr. DuBois died, as he wished, on African soil, while working in Accra on the Encyclopedia Africana. George Padmore became my Adviser on African Affairs, and spent the last years of his life in Ghana, helping in the revolutionary struggle for African unity and socialism.
Malgrado il suo breve mandato, il Presidente Kennedy ha lasciato un'impronta indelebile nella storia contemporanea. Verrà ricordato come un insigne campione della pace e dei diritti dell'uomo.
In spite of his brief term of office, President Kennedy has made an indelible mark on the history of our time. He will be remembered as a distinguished champion for peace and the rights of man. (p. 2)
I successi di John Kennedy negli affari internazionali sono stati rilevanti. Noi in Africa lo ricorderemo, soprattutto, per la sua opposizione inflessibile al fanatismo razziale e religioso, all'intolleranza e all'ingiustizia.
John Kennedy's achievements in international affairs have been remarkable. We in Africa will remember him, above all, for his uncompromising stand against racial and religious bigotry, intolerance and injustice. (p. 2)
Nato nella ricchezza, era tuttavia profondamente sensibile ai problemi e alle speranze dell'uomo comune e degli svantaggiati. Questo aspetto del suo carattere si rispecchiò sia nelle sua politica interna che in quella internazionale.
Born to wealth, he was yet deeply sensitive to the problems and hopes of the common man and of the underprivileged. This aspect of his character was reflected both in his domestic and international policies. (p. 2)
Con un autentico senso della storia, John Kennedy mise in atto, nel modo più incisivo, ciò a cui Abraham Lincoln diede avvio cento anni fa. Come avvenne per Lincoln, fu il proiettile di un assassino ad impedirgli di realizzare i suoi progetti ai grandi livelli che si era prefisso. Da uomo dotato di grande calore umano, il suo rapporto con le persone fu sempre amichevole e sincero.
With a true sense of history, John Kennedy carried on, in a most dramatic manner, what Abraham Lincoln began one hundred years ago; like Lincoln, he was prevented from carrying his endeavours to the great heights he had set for himself, by an assassin's bullet. As a man endowed with great human warmth, his relationship with people was always friendly and sincere (p. 3)
Libertà! Hedsole! Sawaba! Uhuru! Uomini, donne e bambini da un capo all'altro dell'Africa ripetono gli slogan del nazionalismo africano, il più grande fenomeno politico dell'ultimo scorcio del XX secolo. Mai prima nella storia un anelito così ardente alla libertà aveva trovato espressione in grandi movimenti di massa, che stanno abbattendo i baluardi dell'impero. Questo vento di cambiamento che soffia sull'Africa, come ho detto poc'anzi, non è un vento ordinario. È un ciclone impetuoso che il vecchio ordine non è in grado di arrestare.
Citazioni
Il colonialismo e le sue tendenze sono duri a morire, così come la tendenza all'asservimento, i cui strascichi continuano a influenzare la condotta di alcune aree dell'emisfero occidentale. (p. 31)
È un dato di fatto che le origini della cultura europea affondino le proprie radici nelle antiche civiltà della valle del Nilo. I geografi e i cronisti antichi parlano di Stati e imperi africani ben organizzati su entrambe le sponde del continente. (p. 33)
Con l'epicentro collocato a duecento miglia circa a nord dello spartiacque tra i fiumi Senegal e Niger, fu uno dei primi regni dell'Africa occidentale. Sebbene il Ghana uscì gravemente indebolito dall'invasione degli Almoravidi nell'XI secolo, le sue tradizionali forme di governo e impero non perirono. (p. 33)
Invocando la responsabilità cristiana di redimere l'Africa dalle tenebre della barbarie, si dimenticarono gli orrori della tratta europea degli schiavi, come furono ignorate le atrocità della conquista europea. Le mappe disegnate in Europa che riportavano i nomi di Mali e Songhai andarono perdute. I documenti relativi agli imperi africani furono lasciati a prendere polvere e a marcire. I risultati ottenuti da paesi che erano stati produttori di ferro e di oro e che avevano condotto redditizi commerci internazionali furono banditi dalla memoria. (p. 36)
Il commercio degli schiavi ha dominato per trecento anni la storia dell'Africa e, di fatto, la sua influenza si fa sentire ancora oggi, con una popolazione ridotta nel numero con gli effetti di imbarbarimento e ritardo prodotti nel nostro ordine socio-economico. Non serve una mente eccezionalmente perspicace per giudicare le disastrose conseguenze che ha provocato sullo sviluppo africano. In molte occasioni interi villaggi si svuotarono dei loro abitanti, che vennero catturati o si diedero alla fuga. Il numero di abitanti sottratti al continente africano come schiavi è stato alternativamente fissato tra i venti e i cinquanta milioni. (pp. 36-37)
Esattamente com'era accaduto quando le colonie furono occupate per la prima volta, i diritti delle popolazioni indigene vennero completamente ignorati. I confini territoriali furono confermati o ridisegnati in rispondenza alla nuova "ripartizione", secondo principì alquanto arbitrari. Non si tenne conto delle realtà etniche. In molti casi i confini tagliavano a metà le tribù e persino i villaggi. I problemi derivanti dalla cinica lottizzazione dell'Africa pesano tutt'oggi, e potranno risolversi solo con l'unione continentale. (pp. 39-40)
Le ragioni che condussero le nazioni europee a cercare delle colonie sono state illustrate, con diversa enfasi, da molti storici. La maggior parte di loro sembra concordare sul fatto che le potenze coloniali furono mosse principalmente da considerazioni economiche, politiche e militari, presumibilmente in quest'ordine di successione. Sebbene alcuni singoli individui giunsero forse in Africa spinti da intenti puramente altruistici, i concetti generali della "missione civilizzatrice" dell'Europa e del "fardello dell'uomo bianco" sono stati ormai largamente abbandonati, anche dagli imperialisti più convinti. (p. 40)
La Francia, la forza coloniale che governò sulla più vasta area territoriale in Africa, seguì una politica di assimilazione, tesa a produrre una classe d'élite. Introdusse la classe privilegiata degli africani alla cultura e alla civiltà francesi e la innalzò allo status dei francesi, nella speranza di scongiurare la nascita del nazionalismo africano nei territori sotto il suo controllo. L'élite, tuttavia, rimase sempre relativamente piccola, mentre fuori la grande massa degli africani restava "soggetta", pronta a essere sfruttata e maltrattata a bella posta dai francesi che risiedevano in loco, non importa se altolocati o meno. (p. 42)
Io ho dichiarato pubblicamente quale fosse la posizione del Ghana nei confronti dell'Algeria. Abbiamo sostenuto apertamente i nazionalisti algerini. Il fatto che i coloni europei avessero fatto dell'Algeria la loro seconda casa e si considerassero algerini a tutti gli effetti è un argomento irrilevante. Se fossero stati degli algerini davvero patriotici non si sarebbero opposti ai nazionalisti algerini, non avrebbero ucciso e sparso terrore, né avrebbero violato gli articoli degli accordi di pace tra Francia e Algeria. Agli occhi degli africani, il colono europeo, che viva in Sudafrica, in Kenia, in Angola o in qualunque altra parte dell'Africa, è un intruso, uno straniero che si è appropriato della terra africana. Si può discutere all'infinito sui cosiddetti benefici del dominio europeo senza che questo alteri il diritto fondamentale degli africani a occuparsi dei propri affari. (p. 43)
Non vi è alcuna logica, se non quella del diritto del più forte, che possa giustificare il Governo antidemocratico di una minoranza su di una maggioranza. Il gruppo razziale predominante deve provvedere al Governo del paese, e non mancherà di farlo. La razza maggioritaria è proprietaria delle terre che occupa, a prescindere dalle annessioni operate da una minoranza di coloni. Va da sé che il malcontento, la tensione e la paura finiscono per prevalere quando un gruppo minoritario di coloni tenta di prendere possesso della terra o di imporsi sulla maggioranza, come è accaduto in Sudafrica, Algeria, Kenia o nella Federazione Centrafricana. (pp. 43-44)
Anche il Portogallo, come la Francia, perseguì una politica coloniale di assimilazione nei suoi territori africani, seppure di natura alquanto distinta. Il Mozambico e l'Angola sono considerati parte integrante del Portogallo, amministrati dal ministério do Ultramar di Lisbona. La stampa è sottoposta a censura e tutti i movimenti nazionali sono stati proscritti. Il Mozambico, dove i portoghesi sono rimasti per oltre quattrocentocinquant'anni, ha un Consiglio del governatore generale con un numero uguale di membri ufficiali e non ufficiali, e possiede due seggi nel parlamento di Lisbona. Ma i portoghesi non hanno mai dato segni di voler assecondare un processo che si muova nella direzione dell'autogoverno. Così pure in Angola, dove tutto è controllato da Lisbona. Il Portogallo al suo interno è retto da un'oligarchia dispotica e antiquata, che è salita al potere e vi è rimasta nell'interesse di un ristretto gruppo di famiglie estremamente facoltose. È anche uno dei paesi più poveri dell'Europa. Il Portogallo quindi vive al suo interno una situazione potenzialmente rivoluzionaria. (p. 44)
Le misure tardive adottate dai belgi, che indissero elezioni municipali circoscritte e sottoposte a stretto controllo per impedire che il crescente sentimento nazionale nel Congo sfociasse nella violenza, non produssero risultati. Il Congo ottenne l'indipendenza nel giugno del 1960 e i tragici eventi che seguirono mostrarono come i belgi non avessero mai abbracciato l'idea che, di fatto, l'indipendenza congolese divenisse effettiva. Nella pratica, non vi era alcun politico o funzionario congolese con una qualche esperienza, e non c'erano ufficiali africani nella force publique. Così, l'insistenza con cui i ragguardevoli interessi commerciali del Belgio andavano a interferire con la politica congolese finì per complicare una situazione già estremamente difficile. In Sudafrica sussiste uno stato di cose diverso, ma non meno pericoloso. Lì la linea governativa si può riassumere in una parola, apartheid, che presuppone la segregazione sociale, politica ed economica in ragione dell'appartenenza di razza. (p. 47)
Il problema in Sudafrica è sostanzialmente lo stesso presente in altri territori colonizzati dell'Africa. In questi paesi c'è una minoranza europea, stanziata da un considerevole periodo di tempo, che reclama per ragioni di razza il proprio diritto a regnare per sempre sulla maggioranza degli abitanti. La classe dirigente in Sudafrica è composta da circa tre milioni di persone di discendenza europea. Questa classe dirigente controlla le forze militari, che sono armate e addestrate appositamente per far fronte ai disordini civili. Gli oppositori, i restanti dodici milioni di abitanti del Sudafrica, sono disarmati e privi dell'elaborata organizzazione politica ed economica costruita dalla classe dirigente. È per questo motivo che la classe dirigente si considera al sicuro e ritiene di poter continuare indefinitamente a perseguire la sua politica di apartheid. (pp. 47-48)
Il Sudafrica è un paese sul punto di esplodere, come Haiti prima della sua rivolta, e per gli stessi motivi: tirannia razziale e paura. (p. 49)
Gli inglesi, sebbene amino farsi passare per idealisti sognatori che distrattamente hanno conquistato un impero, sono nella mia esperienza i più irriducibili dei pragmatisti. Sanno che l'Africa deve necessariamente essere governata dagli africani e vogliono uscire dalla faccenda nel miglior modo possibile. (pp. 50-51)
A differenza della Francia, l'Inghilterra non considerò le sue colonie alla stregua di una propaggine della madre patria. (p. 51)
Non conosco alcun caso in cui l'autogoverno sia stato offerto su di un piatto d'argento a un popolo colonizzato e oppresso. La spinta al cambiamento è sempre venuta dalla popolazione. In Africa si scherza spesso sul fatto che quando gli inglesi iniziano ad arrestare, l'indipendenza è dietro l'angolo. (p. 53)
Il mio impegno nella completa abolizione del colonialismo in ogni sua forma m'impedisce di tollerare qualsiasi Governo coloniale, quale che sia il suo modello. Inglesi, francesi, portoghesi, belgi, spagnoli, tedeschi, italiani, ognuno di loro a un certo punto ha dominato su una parte dell'Africa, o continua a farlo. I loro metodi possono essere stati diversi, ma l'intento fu il medesimo: arricchirsi alle spese delle loro rispettive colonie. (pp. 54-55)
Molti hanno sostenuto che le risorse dell'Africa non portarono alcun beneficio alle popolazioni native sino a quando non vennero sfruttate, e che non avrebbero potuto essere sfruttate senza i capitali e l'esperienza europei. Si è detto anche che «l'investitore europeo, a prescindere dai propri interessi personali, agiva nel bene dell'Africa». Argomenti del genere mi fanno pensare alla storia di quell'uomo che, avendo trovato un tesoro sepolto nel giardino del vicino, lo prese e poi disse al vicino che non gli aveva recato alcun danno, dato che sino a quel momento era stato all'oscuro della sua esistenza. E ad ogni modo, non possedeva una vanga. Se si guarda con obbiettività ai fatti, appare con tutta chiarezza che l'occupazione dell'Africa ad opera degli europei fu portata a compimento nell'interesse degli europei. L'attenzione al benessere dei popoli africani non fu mai al centro della questione. (p. 57)
Buona parte della grande ricchezza mineraria africana, che sarebbe dovuta restare in Africa per svilupparvi le industrie di base, è stata sistematicamente portata altrove. È un processo tuttora in atto, anche nei paesi indipendenti. C'è chi afferma che le condizioni e le risorse dell'Africa mal si prestano all'industrializzazione. Così facendo, si cerca di giustificare la politica economica delle potenze coloniali e di legittimare l'infiltrazione del neocolonialismo. (pp. 61-62)
Qui in Africa abbiamo tutto ciò che serve per diventare un continente forte, moderno e industrializzato. Gli investigatori delle Nazioni Unite hanno messo in luce di recente come l'Africa, lungi dal disporre di risorse inadeguate, ha più di qualsiasi altra regione del mondo tutto ciò che occorre per intraprendere un processo d'industrializzazione. Le nostre potenziali riserve di minerale di ferro, ad esempio, potrebbero durare su per giù duemila anni. Si calcola che i depositi di carbone raggiungano i quattromilacinquecento milioni di tonnellate. Sembra che le riserve di petrolio del Sahara siano pari a quelle della penisola arabica. Il gas naturale abbonda nelle viscere del Sahara. È noto che i depositi di vanadio della Rodesia del Nord sono i secondi al mondo per grandezza. Non ci sono limiti all'energia idroelettrica che si potrebbe produrre. In Ghana abbiamo giacimenti di bauxite da duecento milioni di tonnellate. Ho citato solo alcune delle nostre risorse naturali; si potrebbero aggiungere molti altri dati, non meno impressionanti. Una volta che l'intero continente sarà stato sottoposto a rilevamenti geologici, si scoprirà senz'altro una gran quantità di nuove ricchezze. La vera ragione della lentezza dello sviluppo industriale in Africa risiede nelle politiche del periodo coloniale. In pratica tutte le nostre risorse naturali, per non parlare del commercio, dei traffici marittimi, dell'attività bancaria, delle opere di costruzione e così via, sono cadute in mano di stranieri interessati ad arricchire investitori di altri paesi e a frenare l'iniziativa economica locale, e vi rimangono ancora oggi. (p. 62)
Ovviamente, in Africa c'è bisogno dell'investimento di capitali provenienti dall'estero. Ma solo in presenza di una reale indipendenza politica, i profitti derivanti dall'investimento di questi capitali possono essere distribuiti in una proporzione che risulti equa sia per l'investitore straniero, sia per il popolo del paese in cui viene fatto l'investimento. (p. 63)
Sotto il dominio coloniale, i monopoli stranieri avevano completamente piegato ai loro interessi la nostra intera economia. In un paese che era il primo produttore di cacao al mondo, non c'era una singola industria del cioccolato. Sebbene producessimo le materie prime per la fabbricazione del sapone, dell'olio edibile e dei derivati della palma, l'industria per la lavorazione di questi prodotti fu scoraggiata. Le compagnie inglesi che possiedono piantagioni di lime, da noi come nelle Indie Occidentali, di fatto, estraggono il succo dal frutto per poi trasportarlo in blocco nel Regno Unito e rispedirlo imbottigliato ai nostri negozi dove è venduto al minuto a prezzi elevati. Sebbene disponiamo delle materie prime necessarie alla loro fabbricazione, ogni singola bottiglia in uso in questo paese è stata importata. Simili fatti sono contraddistinti da un'assurdità degna di Alice nel paese delle meraviglie, che molti faticheranno ad accettare. Ma sono anche impliciti nel concetto generale e nella politica del colonialismo. L'iniziativa locale, laddove avrebbe potuto minacciare gli interessi della potenza coloniale, fu soffocata sul nascere. (pp. 66-67)
Non mi spiego perché nel Regno Unito così tante persone si rifiutino ancora di riconoscere che l'industria locale delle colonie venne deliberatamente scoraggiata. Dopotutto, a scuola studiano sui loro libri di storia che nel XVIII secolo uno stato di cose analogo aveva provocato il malcontento degli americani. Anche a loro era stato fatto divieto di confezionare qualsiasi prodotto potesse entrare in competizione con le industrie della casa madre. Se i coloni americani avevano ottimi motivi per protestare, perché non dovremmo averne noi? Perché non l'Africa? (p. 67)
Ci sono vaste savane nel nord del paese, ideali, con la giusta irrigazione, per la coltivazione del cotone. Eppure per molti anni abbiamo speso milioni di sterline per importare dall'estero abiti di costosa fattura. (p. 71)
Gli effetti sociali del colonialismo sono più insidiosi di quelli politici ed economici. Perché si insinuano profondamente nella mente delle persone e sono quindi più difficili da sradicare. Gli europei ci hanno relegati in una posizione di inferiorità in ogni ambito della nostra vita quotidiana. Molti dei nostri giunsero ad accettare l'idea che fossimo un popolo inferiore. Fu solo quando la legittimità di quella concezione fu messa in discussione che si accese la scintilla della rivolta e l'intera struttura del domino coloniale fu presa d'assalto. Ci fu un periodo in cui era possibile vedere cartelli che recavano scritto «ingresso vietato agli africani» o «riservato agli europei» quasi in ogni punto dell'Africa. Ora stanno scomparendo rapidamente, sebbene siano ancora molto diffusi nella Repubblica del Sudafrica e nella Rodesia del Sud. Posso facilmente immaginare quale sarebbe la reazione di un cittadino inglese se si trovasse di fronte un cartello che intimasse "vietato l'ingresso ai britannici" in una qualunque parte d'Europa, o anche in uno degli Stati africani divenuti di recente indipendenti. Dagli africani, tuttavia, ci si aspettava che sopportassero vita natural durante un simile trattamento nella terra che li aveva visti nascere. (pp. 73-74)
È vero che in un clima tropicale gli alloggi costituiscono un problema meno urgente di quanto non lo siano in un clima rigido o temperato. Ed è vero anche che gli africani vivono in case improvvisate. Questi, in definitiva, erano i termini della question abitativa nella Costa d'Oro sotto l'amministrazione coloniale. Ma gli africani non vivevano in baracche e capanne fatte con il fango perché le preferissero alle case in piena regola. Non avevano scelta. I lavori che svolgevano e le risorse di cui disponevano non erano tali da metterli in grado di costruirle. E l'amministrazione non pensò mai di fare ciò che nei paesi avanzati viene erogato come un servizio automatico, di intraprendere cioè un programma che prevedesse alloggi popolari per le persone. Né c'erano società di costruzione disposte ad aiutare a comprare casa persone che non disponevano di capitale liquido. Così la gente di questo paese visse alla maniera in cui aveva sempre vissuto, stipata in catapecchie e lontana dal sogno di abitare in una casa di tre stanze, provvista di tutti i normali servizi, quanto un fattorino di Londra potrebbe esserlo dal sogno di possedere Buckingham Palace. (p. 75)
Per tutti gli anni in cui l'ufficio coloniale britannico amministrò questo paese non fu presa alcuna seria iniziativa per dotare le aree rurali di un sistema idrico. È difficile dare un'idea della situazione al lettore che ha la certezza di dover solo aprire un rubinetto per ottenere una fornitura immediata di acqua potabile di buona qualità. (p. 76)
L'africano, così si diceva, non apprezzerebbe condizioni migliori. Non è in grado di spingersi oltre certi limiti nell'apprendimento, non saprebbe come rispondere agli incentivi di un livello di vita qualitativamente più alto. Si è dimostrato ormai come tutti questi argomenti, riproposti senza sosta nel passato, non siano che menzogne e calunnie. (p. 79)
Si è sostenuto che gli africani sono poveri perché non producono abbastanza. Ma la loro attitudine al lavoro merita di essere esaminata. Tutti convengono ormai sul fatto che la malnutrizione endemica sia una delle cause principali dell'affaticamento africano. (p. 80)
Che incentivi poteva avere un lavoratore africano sotto il dominio coloniale, quando tutti i suoi sforzi servivano solo ad arricchire i non africani? (pp. 80-81)
Nel Sudafrica, sotto il disumano ordinamento dell'apartheid, il lavoratore africano è perseguitato e ridotto a una condizione di schiavitù. Per quanto deplorevoli siano queste condizioni, quelle degli africani nei territori portoghesi sono probabilmente anche peggiori, sebbene non abbiano ricevuto sinora altrettanta attenzione da parte degli studiosi. (p. 81)
La lotta per l'indipendenza nelle colonie portoghesi si è accesa piuttosto tardi, in parte a causa delle condizioni critiche in cui versava l'istruzione al loro interno. (p. 88)
I funzionari portoghesi si vantavano del fatto che il dominio bianco fosse destinato a durare più a lungo nei loro territori coloniali grazie a una calcolata soppressione dell'educazione. (p. 88)
La storia del progresso umano dimostra che quando un'intellighenzia prende coscienza di sé ed emerge da un popolo assoggettato, diviene l'avanguardia della lotta contro il dominio straniero. (p. 89)
L'entusiasmo incontenibile che l'istruzione suscita in Africa non finisce mai di impressionare i visitatori. (p. 89)
Il desiderio ardente di studiare diffuso sia tra i bambini che tra gli adulti è stato ben poco incoraggiato dalle potenze coloniali, e uno dei peggiori retaggi del colonialismo è stata l'assenza di un corpo di tecnici e amministratori africani preparati. (pp. 89-90)
Ci hanno educati a essere copie inferiori degli inglesi, caricature da deridere con le nostre false arie da alta borghesia britannica, le nostre sgrammaticature e i nostri modelli distorti pronti a tradirci ad ogni passo. Non eravamo né carne né pesce. Non ci fu concesso di conoscere il nostro passato africano e ci fu fatto sapere che non avevamo un presente. Quale futuro potevamo aspettarci? Ci insegnarono a giudicare barbare e primitive la nostra cultura e le nostre tradizioni. I nostri libri scolastici erano libri inglesi, che ci parlavano della storia inglese, della geografia inglese, degli stili di vita inglesi, delle consuetudini inglesi, delle idee inglesi, del clima inglese. Molti di questi manuali non venivano aggiornati dal 1895. Tutto questo deve cambiare. Ed è un compito quanto mai arduo. (pp. 97-98)
È mia profonda convinzione che tutti i popoli desiderino essere liberi e che l'aspirazione alla libertà sia radicata nell'animo di ognuno di noi. Un popolo con una lunga storia di soggezione a una dominazione straniera, tuttavia, non sempre trova facile tradurre questo desiderio in azione. Sotto una dominazione arbitraria, le persone tendono a diventare passive, i loro sensi si intorpidiscono. La paura diviene la forza dominante della loro vita; paura di infrangere la legge, paura delle misure punitive che potrebbero seguire a un tentativo fallito di spezzare le catene. Coloro che guidano la lotta per la libertà devono debellare l'apatia e la paura. Devono dare espressione pratica all'universale anelito alla libertà. Devono rafforzare la fiducia dei popoli in se stessi e incoraggiarli a prendere parte alla lotta per la libertà. Soprattutto, devono dichiarare i loro intenti in maniera aperta e inequivocabile e indirizzare il popolo al raggiungimento dell'obbiettivo dell'autogoverno. (p. 99)
La battaglia dovrà proseguire fino a quando non ci sarà più neanche un metro di terra africana soggetta a una dominazione straniera. (p. 102)
I ritmi di sviluppo diseguali all'interno dell'Africa, sia sul versante politico che su quello economico, rappresentano un problema molto serio. In alcuni paesi scarseggiano le risorse naturali, in altri abbondano. Alcuni hanno raggiunto l'indipendenza con relativa facilità e in maniera pacifica, altri stanno ancora lottando. L'ovvia soluzione è data all'unità, in modo tale che il progresso possa essere pianificato con spirito di coerenza e di coesione. (p. 103)
È un fatto ormai assodato che le potenze coloniali stentino a cedere il controllo politico su qualsiasi loro territorio. Prima di andarsene, compiono sforzi sovrumani per suscitare scismi e rivalità che sperano di sfruttare una volta lontane. L'India, con la sua frattura in due parti distinte, il suo triste strascico di faziosità e conflitti religiosi, ne è l'esempio più lampante. Ma le divisioni interne in Birmania, Sri Lanka, Camerun, Vietnam, lo smembramento delle due federazioni dell'Africa occidentale francese e dell'Africa equatoriale francese in Stati separati della Comunità francese, sono tutti fatti che testimoniano eloquentemente la diffusione di questa politica del "dividi e regna". Lo stesso dicasi della divisione federale della Nigeria in tre Regioni, laddove l'amministrazione inglese si era impegnata in passato a dare una forma di governo unitaria al vasto agglomerato di popolazioni diverse. A uno sguardo superficiale, è difficile cogliere la strategia delle potenze coloniali. Non si rassegnano a ritirarsi dall'Africa, anche quando riconoscono che tentare di eludere la liquidazione totale e definitiva del sistema coloniale equivale a combattere una battaglia persa in partenza. Si comportano come se avessero ancora il diritto di intromettersi negli affari interni dei nuovi Stati emergenti e pretendono addirittura di stabilire cosa è giusto e cosa sbagliato nelle azioni che intraprendiamo. Osservate da vicino, queste manovre si rivelano una componente della strategia del "dividi e regna" condotta a distanza. (pp. 109-110)
Nella nostra battaglia per la libertà, la democrazia parlamentare rappresentava un obiettivo vitale quanto lo era l'indipendenza. Le due cose erano inseparabili. Non era nostra intenzione liberare il paese dal regime coloniale per sostituirlo con una tirannia africana. Volevamo affrancare il nostro popolo da un dominio arbitrario e offrirgli la libertà di scegliere la forma di governo che credeva più adatta a servire i suoi interessi e ad accrescere il suo benessere. Ci battemmo perché la nostra gente potesse essere libera di professare la religione che preferiva, libera di creare le associazioni che voleva, perché vigesse un clima in cui tutti potessero parlare, scrivere e pensare liberamente, a patto di non recare danno ai propri simili e di non mettere a repentaglio la sicurezza dello Stato. (p. 121)
C'è la tendenza di dimenticare che il processo che ha condotto il Regno Unito alla democrazia non è stato affatto pacifico. Sono passati poco più di tre secoli da quando tagliarono la testa a un re, fecero la loro rivoluzione borghese e proclamarono Cromwell loro dittatore. Ma i vincoli feudali non erano stati tutti spezzati e, a distanza di oltre due secoli, fu necessaria un'altra rivoluzione, con i suoi conseguenti contraccolpi sociali, per consolidare la base di quella democrazia parlamentare che oggi il popolo inglese considera erroneamente come un merito congenito al proprio carattere nazionale. Gli Stati americani combatterono una guerra civile più dura, il cui ricordo condiziona ancora oggi gli atteggiamenti e la mentalità, per vedere riconosciuta la propria unione. La loro Costituzione, fondata sull'affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini, impiegò diversi anni per trovare un pieno consenso, e ancora oggi i suoi princìpi sono disattesi in molte parti del paese. L'America fatica ancora ad applicare i concetti essenziali della democrazia a tutti i suoi membri. Le attuali condizioni del Ghana sono paragonabili a quelle che prevalsero in Inghilterra, Francia o America al tempo delle loro lotte per la conquista di una forma di governo libera, più che a quelle attualmente in vigore in quei paesi. Sarebbe più giusto, allora, domandarsi quale fosse la natura del regime cui sottostavano a quell'epoca, e stabilire le debite proporzioni della diffusione delle idee liberali nel mondo a partire da allora. La condizione economica del nostro popolo non è migliore di quella degli operai inglesi che vissero uno stadio di progresso sociale e politico simile al nostro; forse, sotto alcuni aspetti, un po' peggiore. I loro servizi sociali erano altrettanto primitivi, il livello dell'istruzione all'interno del paese altrettanto basso. Credo che nessuno possa negare che, in una situazione analoga alla nostra, il mantenimento della democrazia per le popolazioni europee e americane sarebbe stato un compito immane. Eppure è il compito che abbiamo affrontato in Ghana quando abbiamo ottenuto l'indipendenza. (pp. 122-123)
In un paese appena emerso dal dominio coloniale, ci sono molti torti da riparare, molti problemi da risolvere. Per far loro fronte, servono tempo, denaro ed esperienza comprovata. La fine dell'amministrazione coloniale in Ghana, oltretutto, ci lasciò con un basso livello d'istruzione tra la massa della popolazione e senza un sistema scolastico uniforme. Una società di questo tipo cade facilmente preda dei politici privi di scrupoli. Si lascia incantare dalla demagogia e manipolare dall'eloquenza che fa appello alle emozioni più che dalla ragione. In simili condizioni, non fu difficile per l'opposizione individuare terreni in cui covava l'insoddisfazione e piantarvi e coltivarvi i semi del risentimento e della rivendicazione. (pp. 131-132)
Il Ghana, nel bene e nel male, era al centro dell'attenzione di tutti. Nella nostra capitale era presente la stampa di tutto il mondo e, se le sfuggiva qualcosa, l'opposizione lo portava alla sua attenzione accompagnando le notizie con le proprie spiegazioni. Nessun fatto, nessun evento era troppo piccolo da non poter essere usato per screditare sia il Ghana che il Governo agli occhi del mondo e per ridurre l'alto prestigio che la nostra lotta e la conquista della libertà ci avevano procurato. Di sicuro, non si è vista spesso un'opposizione così impegnata a sacrificare gli interessi del suo paese per servire i propri scopi, così incurante di distruggere la fondamentale unità della nazione. (p. 132)
Nel corso della lotta per l'indipendenza, avevamo posto l'accento sulla necessità dell'unità nazionale in previsione della conquista della libertà e delle enormi responsabilità di cui ci saremmo dovuti fare carico in quanto Stato. Responsabilità che esigevano il massimo dell'impegno da parte di ogni cittadino. Come poteva il nostro popolo fare la sua parte con zelo e dedizione se gli veniva inculcata senza sosta l'idea che il suo Governo fosse disonesto, incapace e corrotto, che i suoi leader fossero privi di scrupoli e assetati di potere e che il sostegno della nazione fosse invocato non per la gloria del Ghana ma per la gloria personale di Kwame Nkrumah? Questa non era libertà d'espressione. Era un abuso di libertà irresponsabile, e se nessuno gli avesse posto freno, avrebbe potuto mettere a repentaglio il nostro Stato, la nostra indipendenza e la fiducia delle persone in se stesse e nelle proprie capacità. (pp. 136-137)
Accogliamo di buon grado le critiche ma non siamo disposti a tollerare attività sovversive e terroristiche ai danni dello Stato, né atti illegali intesi a promuovere il tornaconto egoistico di una minoranza dissidente, sostenuta da interessi stranieri. (p. 140)
C'è un certo alone mistico che circonda la monarchia inglese, la cui influenza, per quanto intangibile, è molto concreta. Oserei dire che in Inghilterra si stenti a trovare anche un solo vero antimonarchico. Sembra che non vedano alcunché di incoerente in una democrazia estremamente avanzata che conserva una monarchia ereditaria. Se fossi un inglese residente nel Regno Unito, forse la penserei alla stessa maniera. Però sono un africano, membro di un paese che solo di recente ha spezzato le catene che lo vincolavano all'Inghilterra. Ciononostante, abbiamo mantenuto il vincolo che ci legava alla monarchia, sebbene il nostro orientamento verso il continente africano lo abbia reso un anacronismo. (p. 143)
Non è per mancare di rispetto alla regina Elisabetta II che io e il mio popolo, nel giurarle fedeltà, solleviamo le stesse obiezioni di coscienza che solleveremmo se dovessimo prestare giuramento di lealtà al presidente degli Stati Uniti o a quello dell'Unione Sovietica. (p. 144)
In una democrazia, il vero capo della nazione è l'uomo che è stato democraticamente eletto a capo del partito che dispone di una maggioranza in parlamento, maggioranza che a sua volta è stata eletta democraticamente dalla cittadinanza. Perché dunque non dovrebbe conciliare i poteri governativi con i cerimoniali che competono alla presidenza dello Stato? Nel nostro contesto e nelle nostre condizioni attuali, il popolo associa il primato al potere. Faticherebbe a comprendere la posizione di un presidente onorario che si limiti a firmare atti del parlamento sui quali non ha alcuna influenza. In realtà, fatica a capirlo anche lo studente di scienze politiche, perché è un artificio senza senso, privo di contenuto. (p. 145)
Non nasconderò il fatto che divento impaziente quando il discorso cade sulla costruzione del Ghana. Dobbiamo portare avanti la nostra opera con risolutezza. Ogni ministro deve considerarsi alla stregua di un direttore esecutivo e portare a termine il proprio specifico lavoro con buoni risultati e nei tempi previsti. Deve sapere che un fallimento ingiustificato potrebbe obbligarlo a farsi da parte per dare la possibilità a qualcun altro di dimostrare le proprie capacità. (p. 146)
Una delle cose peggiori che possa capitare ai paesi meno avanzati e in via di sviluppo è ricevere aiuti stranieri condizionati da vincoli politici ed economici. Simili aiuti sono presentati molto spesso in termini finanziari di difficile interpretazione. (p. 173)
Bisogna dichiarare guerra all'analfabetismo; e bisogna stabilire un programma di sviluppo della comunità autogestito ed esteso a tutto il paese, volto a promuovere la costruzione di scuole, strade, acquedotti, cliniche, uffici postali, case e strutture pubbliche. (p. 176)
Io ritengo che non ci sia un paradigma universale per l'industrializzazione che possa fungere da modello assoluto per le nuove nazioni che stanno uscendo dal colonialismo. Se ci guardiamo intorno, non troviamo esempi identici tra loro. I paesi europei hanno portato a termine la loro industrializzazione in tempi molto lunghi e in un'epoca che, dal punto di vista economico, scientifico e sociale, era molto diversa dalla nostra. Gli Stati Uniti hanno diboscato terre vergini e sfruttano il lavoro degli schiavi per accumulare le loro ricchezze iniziali. Hanno a loro disposizione una varietà geografica che ha reso possibile una rapida espansione industriale e una produzione manifatturiera su larga scala. L'Unione Sovietica, partendo pressoché dal nulla, ma occupando un vasto territorio ricco di risorse, ha spazzato via la burocrazia di un tempo e ha fatto ricorso a una dittatura autoritaria per raggiungere il proprio scopo. (pp. 197-198)
La produzione tesa al profitto privato nega a una larga porzione della popolazione l'accesso ai beni e ai servizi erogati. Pertanto, se vogliamo tenere fede alla promessa fatta al nostro popolo e realizzare il programma esposto poc'anzi, la nostra unica possibilità è il socialismo. Perché il socialismo prevede la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, della terra e delle sue risorse, e l'utilizzo di questi mezzi per sopperire ai bisogni della gente. (p. 199)
L'obbiettivo socialista mira al bene universale della nazione e, nell'interesse di quell'obbiettivo, ognuno di noi dovrà rinunciare a qualche suo desiderio personale nell'immediato, in vista di un maggiore benessere nel prossimo futuro. L'accelerazione dello sviluppo generata dai surplus, o l'estensione dei servizi sociali a tutta la comunità, recano vantaggio a un maggior numero di persone rispetto all'incremento dei salari destinati a determinate categorie di lavoratori. (pp. 204-205)
C'è chi sostiene che l'Africa non possa unificarsi perché le mancano i tre ingredienti necessari all'unità: una razza, una cultura e una lingua comuni. È vero che per secoli siamo stati divisi. Le barriere territoriali che ci dividono furono innalzate molto tempo fa, spesso in maniera totalmente arbitraria, dalle potenze coloniali. Alcuni di noi sono musulmani, altri cristiani, molti credono nelle tradizionali divinità tribali. Alcuni di noi parlano francese, altri inglese, altri ancora portoghese, per non parlare dei milioni di persone che si esprimono esclusivamente in uno dei cento e più dialetti africani. Abbiamo sviluppato differenze culturali che influenzano il nostro modo di vedere le cose e e condizionano il nostro progresso politico. Tutto ciò è inevitabile, considerato il nostro retroterra storico. Eppure, malgrado tutto, sono convinto che le forze che puntano all'unità superino di gran lunga quelle che ci dividono. Ogni volta che incontro amici africani provenienti da una qualunque parte del continente, mi stupisce riconoscere quante cose abbiamo in comune. Non si tratta solo del nostro passato coloniale, o del fatto che abbiamo obiettivi analoghi, è qualcosa di molto più profondo. Lo descriverei come un senso di unità generato dal nostro essere africani. (p. 217)
[Sulla Crisi del Congo] Gli unici a trarre vantaggio dalla situazione furono i neocolonialisti e i loro alleati del Sudafrica e della Rodesia, che strumentalizzarono i disordini del Congo per denunciare l'incapacità degli africani di gestire i propri affari. (p. 225)
Forse non è privo di significato il fatto che Monrovia, da cui ha preso nome il gruppo che dà priorità alle manovre associative economiche, sia la capitale dell'unico paese del continente africano che non ha dovuto combattere una battaglia per affermare la sua sovranità politica. Ciò nonostante, la Liberia ha dovuto lottare duramente per difendere la propria integrità e ricchezza nazionale contro l'invasione territoriale ed economica messa in atto da potenze straniere nel corso di tutta la sua storia, tutt'altro che lineare, e più di una volta deve aver sperato in un aiuto che i suoi vicini colonizzati non erano in condizione di darle. (p. 237)
In un mondo diviso tra fronti contrapposti e fazioni in guerra, se l'Africa è disunita non potrà che soccombere. Patrice Lumumba, che aveva visto e vissuto sulla propria pelle i mali generati dalla disunione in Congo, sostenne con grande convinzione questo punto di vista quando venne ad Accra, nell'agosto 1960. Forse non tutti sanno che in quell'occasione si disse pronto a lavorare nella più stretta collaborazione possibile con gli altri Stati africani indipendenti per la costituzione di un'Unione degli Stati Africani. Non mancheranno le differenze tra gli Stati africani indipendenti. Abbiamo contese di confine e una moltitudine di altri problemi interterritoriali che possono trovare soluzione solo nel contesto di un'unità africana. (p. 238)
L'Africa ha il più grande potenziale energetico di acqua al mondo. (p. 243)
Soltanto la Cina, con la sua enorme popolazione e la sua estensione territoriale, sommate a un regime economico non competitivo e a un sistema di produzione e distribuzione regolato dal centro, segna un indice di produttività che potrebbe consentirle di reggere il confronto con le uniche due potenze che contino davvero qualcosa nel mondo di oggi. (p. 260)
L'America è il maggiore sostenitore della libera impresa, svincolata dalle restrizioni di una pianificazione centrale. La sua società è segnata da profonde diseguaglianze sociali, dai mezzadri di colore che vivono al limite o al di sotto della soglia di sopravvivenza, fino ai magnati del petrolio che ammassano fortune astronomiche, passando per tutti i possibili gradi di ricchezza e povertà che li separano. (p. 262)
A dispetto di tutte le contrarietà, della palese ostilità e delle macchinazioni che minavano il suo successo, e malgrado la spaventosa devastazione e le perdite materiali e umane provocate della Seconda guerra mondiale, l'Unione Sovietica è riuscita in poco più di trenta anni a costruire una macchina industriale così potente e avanzata da consentire il lancio dello Sputnik e, a distanza di breve tempo, il primo volo dell'uomo nello spazio. Non si può ignorare il fatto che imprese di questa portata siano state rese possibili da un sistema di pianificazione continentale, sostenuto da programmi d'ispirazione socialista chiaramente definiti, ed è un dato che porto a esempio di ciò che un programma economico integrato potrebbe rappresentare per l'Africa. (p. 263)
[Sulla Crisi del Congo] Il Congo offre forse l'esempio più eclatante di come le divisioni tribali e l'arrivismo politico possano essere strumentalizzati per frammentare territori uniti ed esacerbare i contrasti. (p. 295)
Sebbene la fiducia nelle Nazioni Unite abbia subito duri colpi nel periodo successivo alla loro fondazione, e ancor più negli ultimi tempi, in rapporto alla crisi del Congo, resta l'unica organizzazione internazionale in cui i numerosi problemi del mondo hanno una possibilità di giungere a una soluzione ragionevole. (p. 301)
Il colonialismo in Africa ha i giorni contati, a prescindere dai rinforzi militari che il Portogallo ha inviato in fretta e furia in Angola e dalle trame imperialistiche e della Guerra fredda in Congo, a prescindere dalla recente repressione del movimento nazionalista in Rodesia, dalla logorante imposizione dell'apartheid in Sudafrica e dalle instancabili manovre del neocolonialismo in Africa. Prima o poi, e ritengo che avverrà molto prima di quanto il mondo non creda, tutti questi frenetici tentativi di salvare l'imperialismo in Africa finiranno nel novero dei detriti della storia. (pp. 308-309)
La forza dell'Unione Sovietica è stata messa alla prova con la guerra. Anche sotto l'impatto della barbarie fascista, è riuscita a non crollare. (p. 322)
Pochi avrebbero creduto che popoli così distanti tra loro, che presentavano diversi livelli di sviluppo sociale, politico ed economico, avrebbero potuto convivere sotto l'egida della grande potenza che l'Unione Sovietica è diventata in un arco di tempo relativamente breve. (p. 319)
Mentre qui in Africa, dove l'obbiettivo dell'unità è inderogabile, stiamo facendo del nostro meglio per concentrare i nostri sforzi in questa direzione, i neocolonialisti ricorrono a qualunque mezzo pur di vanificarli, incoraggiando la formazione di comunità basate sull'identità linguistica dei loro ex colonizzatori. Non possiamo permetterci di essere così disorganizzati e divisi. Il fatto che io parli inglese non mi rende cittadino inglese. Allo stesso modo, il fatto che alcuni di noi parlino francese o portoghese non li rende cittadini francesi o portoghesi. Noi siamo africani, punto e basta; e come africani, i nostri più alti interessi possono essere favoriti solo dalla nostra unione in una comunità africana, di cui né il Commonwealth, né una comunità franco-africana possono fare le veci. Per noi, l'Africa e le sue isole costituiscono un tutt'uno. Respingiamo l'idea di qualsiasi suddivisione. Da Tangeri o Il Cairo nel nord, a Città del Capo nel sud, da Capo Guardafui a est, alle isole di Capo Verde nell'ovest, l'Africa è una e indivisibile. (p. 328)
Noi, che in Africa stiamo lottando per l'unità, siamo profondamente consapevoli della bontà dei nostri propositi. Ci occorre la forza complessiva delle nostre popolazioni e delle nostre risorse per metterci al riparo dal pericolo incombente di un ritorno del colonialismo sotto false spoglie. Ci occorre questa forza per combattere i poteri radicati che dividono il nostro continente e continuano a tenere soggiogati milioni di nostri fratelli. Ci occorre questa forza per decretare la liberazione totale dell'Africa e per portare avanti la costruzione di un sistema socioeconomico che consenta alla grande massa della nostra popolazione, in costante aumento, di raggiunger dei livelli di vita paragonabili a quelli dei paesi più avanzati. (p. 329)
Ho ripetutamente provato a parlare con Nkruma'h della situazione ghanese, ma ogni volta è stato impossibile: parlava sempre di tutta l'Africa, si occupava di tutta l'Africa. (Gamal Abd el-Nasser)
Il presidente Kwame Nkrumah era considerato un eroe in un territorio che si estendeva dal Senegal al Mozambico. Era l'incarnazione del panafricanismo, il sogno di un'Africa libera, pacifica e solidale, e fu per questa ragione che radunò ad Accra leader e pensatori dall'intero continente. (David Van Reybrouck)
Il suo è un progetto definito rivoluzionario. Ma quale rivoluzionarismo può esserci in un progetto fuori dalla realtà? (Julius Nyerere)
La posizione della Guinea non mira a mantenere a qualunque costo N'Krumah alla testa dello stato del Ghana. All'uomo facciamo totale fiducia per l'opera panafricanista e progressista che ha svolto, ma ciò che soprattutto ci interessa è la sorte del popolo del Ghana e degli altri popoli africani di fronte alle difficoltà create dall'imperialismo e dal colonialismo. Appoggiamo senza riserve il popolo del Ghana e fino a quando l'illegalità e la forza militare si imporranno al paese, riconosceremo un solo capo di quello stato: N'Krumah. (Ahmed Sékou Touré)
Lo scopo che si è prefisso fin da ragazzo è la liberazione del Ghana. Per raggiungerlo, però, bisogna prima diventare qualcuno. Essere qualcuno: ecco il primo obiettivo. A quel tempo il Ghana è una colonia. Un nero non ha possibilità di fare carriera.
Nkrumah è patetico, raccolto, con uno stile da predicatore che gli è rimasto addosso dai tempi dei suoi sermoni nelle chiese dei neri d'America.
Nkruma'h è un personaggio straordinario, un uomo fuori del comune, ma purtroppo è innamorato della propria grandezza e questo l'ha accecato portandolo alla rovina. Si considerava il Messia di tutta l'Africa, vedeva se stesso come presidente non solo del Ghana, ma di tutta l'Africa.
Nkruma'h ha condotto una politica interna impossibile, nel senso che ha voluto costruire il socialismo in un paese le cui effettiva classe dominante è la borghesia. Il Ghana si è sempre distinto dalle altre colonie africane per il fatto di essere un paese ricco in cui la borghesia, i commercianti e i coltivatori di cacao rappresentavano da tempo una classe forte, abbiente e influente.
Parlava in tono fermo, chiaro e uniforme. Nkrumah è un oratore eccellente, da gestire parco ma incisivo. Perfino gli inglesi dicono che ascoltarlo è un piacere. È un uomo di media statura, ben fatto e gradevole. Ha un viso intelligente, la fronte alta e lo sguardo profondo e triste. Uno sguardo che rimane triste anche quando Nkrumah sorride.
Pensai che il modo migliore di raccontare l'Africa fosse quello di parlare di colui che in quel periodo fu la figura più significativa del continente, un uomo politico, un visionario, un tribuno e uno stregone: Nkrumah.
Quando il premier va nei villaggi, dorme nelle capanne. A volte si trattiene per strada a chiacchierare fino a tarda notte. In quei casi non rientra in città e si ferma a dormire in una casa qualunque. Questo gli procura le simpatie generali. Così passa il suo tempo.
Era un agitatore, giudicato colpevole di sedizione: ma la sua attività aveva ispirato altri, che erano in libertà. Queste persone riuscirono a coalizzarsi, e quando Nkrumah aveva scontato soltanto pochi mesi di carcere, lo elessero primo ministro. Così l'impero britannico capì che era meglio farlo uscire: la sua condanna era a quindici anni, ma in realtà scontò soltanto otto-nove mesi. E quando uscì, era il capo del governo della Costa d'Oro.
Nkrumah era partito da un inizio modesto: i suoi genitori non avevano istruzione, non erano capotribù, erano gente umile.
Nkrumah sapeva da sempre che il colonialismo era nato per il dominio e lo sfruttamento; che era stato inventato per tenere sotto un determinato gruppo e sfruttarlo, così da assicurare un vantaggio economico al gruppo dominante.
Spesso mi torna alla mente una frase di Nkrumah: «Preferisco l'autogoverno nel rischio alla servitù nella tranquillità». Credo che sia un grande pensiero. Quindi, Nkrumah e i suoi erano pronti ad affrontare i rischi e i problemi; ma secondo me il Ghana avrebbe saputo trarre profitto dagli errori commessi da altre nazioni che erano nate tanti anni prima, e sarebbe diventato un grande paese.
Come insegna la tragedia di Nkrumah, i requisiti indispensabili per il progresso sono innanzitutto la stabilità economica e la libertà di impresa.
In un certo senso il Ghana rappresenta la tragedia delle "buone intenzione". Nel suo zelo per l'ottenimento dell'indipendenza è possibile che Nkrumah si sia convinto di poter fare dei miracoli. Una volta al potere venne consumato dalla megalomania. Quelli che in Occidente premevano per la decolonizzazione lo facevano per idealismo. In retrospettiva si può dire che i più cauti di allora fossero anche i più realisti.
La paranoia anti-occidentale di Nkrumah e la sua militanza panafricana crebbero a dismisura proprio nel periodo in cui il suo paese avrebbe potuto largamente beneficiare da una stretta collaborazione.
Purtroppo oggi il Ghana è una nazione economicamente disastrata e politicamente instabile. E la responsabilità ricade in buona parte proprio sulle spalle di Kwame Nkrumah. Egli è stato prototipo del capo rivoluzionario che, confrontato con la necessità di costruire una nazione indipendente, fallisce nel suo compito.
Sin dalla sua giovinezza, Nkrumah si era rivelato un abile oratore. Con la voce profonda e l'aspetto brillante, egli aveva la capacità di "intrappolare" le folle. [...] In privato egli usava una loquela modesta e misurata. In mezzo alla folla, cambiava completamente. Bastavano poche parole da lui pronunciate per eccitare al parossismo l'emotività dell'auditorio.
Ci sono voluti molti anni di vita e di lavoro, gli ultimi dieci trascorsi in Italia, per realizzare che il progetto panafricano sognato da mio padre Kwame è ancora oggi la migliore risposta alle sfide che ha di fronte l'Africa.
Fu la Cia a volere il colpo di Stato militare con cui mio padre venne deposto, nel febbraio del 1966. Quello stesso giorno lasciammo il Paese e raggiungemmo Il Cairo, la città di mia madre Fathia. Poi ci spostammo ancora. Da allora mio padre non l'ho più rivisto: visse in Guinea, in esilio, fino alla morte, avvenuta nel 1972. Noi invece tornammo in Ghana, nel 1975.
Il messaggio di nostro padre Kwame è eterno.
Il progetto di mio padre era profondamente culturale. Ora tocca a me portarlo avanti.
Le sue idee sono ancora valide, e io voglio fare la mia parte.
Mi ha insegnato a vedere oltre me stessa, a non discriminare nessuno. Per questo ho voluto incontrare alcuni dei suoi attentatori. Puoi farlo soltanto se sei convinto di avere una missione. E mi ha insegnato l'importanza di fare pace con il proprio mondo interiore.
Nkrumah commise forse degli errori politici (il Deportation Act, che permetteva di espellere dal Paese i cittadini stranieri che sostenessero e finanziassero le opposizioni, e il Preventive Detention Act, che permetteva di incarcerare per un periodo non superiore a cinque anni, sulla base di semplici sospetti, chi fosse accusato di azioni contro la sicurezza nazionale), ma non bisogna dimenticare gli attentati organizzati contro di lui con l'aiuto della Cia, come dimostrano documenti declassificati solo da pochi anni. Nkrumah fu un accentratore, è vero, ma non abusò mai del suo potere, né intascò un solo centesimo del patrimonio nazionale, fatto più unico che raro, nel panorama continentale. Nkrumah vedeva nella federazione dell'Africa l'unico modo per il continente di emanciparsi realmente e di ritagliarsi uno spazio nell'epoca dei blocchi contrapposti: era favorevole a una politica di "neutralismo attivo" rispetto alla guerra fredda, anche se era un sostenitore del socialismo africano. Ovvio che gli americani non lo considerassero un amico.
Noi dobbiamo essere orgogliosi di chi siamo, del nostro cibo, delle nostre tradizioni. E dovremo essere capaci creare la nostra propria economia, senza più attendere soltanto gli aiuti dell' occidente. Proprio come voleva mio padre.