Gli occhi della giovinezza vedono attraverso lenti colorate di rosa.[1]
La maggior parte dei drammi della vita possono essere visti sia come farsa che come tragedia, dipende dal capriccio dello spettatore. Gli attori le inscenano sempre come tragedie, ma in fondo è questa l'essenza di una farsa.[2]
A la | carissima e prediletta | Amica | dei miei giorni prosperi e avversi, | A l'amica | che, pur avendomi contrariato, | durante i primi approcci del nostro sodalizio, | mi fu poi compagna ardentissima | A l'amica | che, pur da me spesso trascurata, | mai (ora) per vendicarsi mi fa | guastare lo stomaco. | A l'amica | che, trattata con voluta freddezza | da tutti i membri femminili della mia famiglia | e guardata con disprezzo perfino dal mio cane, | ciò nonostante pare di giorno in giorno | eserciti su di me una maggiore attrazione | e, in ricompensa, mi impregni | sempre di più | col profumo della sua amicizia. | A l'amica | che mai mi disse i miei difetti | che mai mi chiese a prestito danaro | che mai parla di sé, | A la compagna delle mie ore d'ozio | A la consolatrice de' miei dispiaceri | A la confidente delle mie gioie e delle mie | speranze | A la mia vecchia e forte | PIPA | Questo volumetto | è | in segno di gratitudine e d'affetto | dedicato.[3]
È una cosa strana questo letto, imitazione della tomba, dove stendiamo le nostre stanche membra e ci sprofondiamo quietamente nel silenzio e nel riposo. (cap. L'ozio)[3]
È prodigiosa la conoscenza intima e profonda dell'economia domestica che si acquista, quando si è realmente al verde. (cap. La «bolletta», p. 16)
Essere poveri è il meno. È l'esser conosciuti come poveri, che fa male. (cap. La «bolletta», p. 18)
Aprite un libro e cercate di leggere, ma scoprite che Shakespeare è trito e banale, Dickens insipido e pedestre, Thackeray noioso e Carlyle eccessivamente sentimentale. (cap. I nervi, p. 23)
Il mondo appartiene alla Malinconia,[4] allora, una pensosa vergine, che non ama il riverbero del giorno. (cap. I nervi, p. 27)
Un buon uomo è un uomo che è buono con noi, e un cattivo è un uomo che non fa quello che noi vorremmo facesse. (cap. La vanità, p. 32)
Sì, sì, la vanità è indubbiamente la forza motrice che spinge il mondo ed è l'adulazione che lubrifica le ruote. (cap. La vanità, p. 34)
Dopo tutto la vanità è una virtù quanto un vizio. È facile recitare massime contro la sua peccaminosità, ma è una passione che può muovere al bene, non solo al male. L'ambizione è semplice vanità passata di grado. (cap. La vanità, p. 36)
L'amore stesso non è che la più alta forma di vanità. (cap. La vanità, p. 36)
L'ambizione non è che una vanità annobilita. (cap. La vanità)[3]
Mentre l'ambizioso lavora per sé, lavora per tutti. Noi siamo così legati che nessuno può lavorare solo per sé. (cap. Come riuscire nel mondo, p. 43)
Alessandro e Cesare combattevano per i propri fini, ma così facendo strinsero una cintura di civiltà intorno alla Terra. (cap. Come riuscire nel mondo, pp. 43-44)
Se vi accontentate di cento, cominciate a insistere per avere mille; se comincerete col chiedere cento, otterrete soltanto dieci. Il povero Jean Jacques Rousseau si procurò tanti dolori proprio per non aver seguito questo semplice piano. Aveva stabilito che il massimo della felicità terrestre consisteva in un orticello, una donna amabile e una mucca, e non giunse mai nemmeno a sfiorarli. Arrivò fino all'orticello, ma la donna non era amabile e si portò dietro la propria madre: in compenso la mucca non c'era. (cap. Come riuscire nel mondo, pp. 44-45)
È impossibile godere la pigrizia fino in fondo se non si ha parecchio lavoro da compiere. (cap. La pigrizia, p. 47)
Conobbi un tale che arrivava fino ad alzarsi e a fare un bagno freddo, ma nemmeno questo gli serviva perché, dopo il bagno, doveva saltare di nuovo in letto per scaldarsi. (cap. La pigrizia, p. 51)
L'amore è come il morbillo, dobbiamo passarci tutti. E, sempre come il morbillo, lo prendiamo una volta sola. (cap. L'amore, p. 55)
Noi non ci ammaliamo mai d'amore due volte. Cupìdo non spreca una seconda freccia per lo stesso cuore. (cap. L'amore, p. 56)
L'affetto è un fuoco che può essere alimentato giorno per giorno e tanto più caricato quanto più gli anni dell'inverno si avvicinano. (cap. L'amore, p. 56)
Il tempo è come un governo, non ne fa mai una dritta. (cap. Il tempo, p. 67)
Il tempo, in città, è come un'allodola in un ufficio di contabilità: è fuori posto e da fastidio. [...] Il tempo è una ragazza di campagna ed in città non ci fa bella figura. (cap. Il tempo, p. 68)
La primavera della vita e la primavera dell'anno son fatte per essere cullate nel grembo verde della natura. (cap. Il Tempo, p. 73)
Tittums è il nostro gatto, ed ha le dimensioni di un rotolo di soldini. Inarcava la schiena e bestemmiava come uno studente in medicina. (cap. Cani e gatti, p. 76)
Poiché gli imbecilli in generale se la passano bene, anche il mondo, nel suo complesso, se la passa discretamente. (cap. Cani e gatti)[3]
Quando un uomo ha detto: «Che Dio vi benedica, mio caro, dolce signore. Che il sole, la luna e le stelle vi abbiano fatto tanto distratto (se mi è permessa l'espressione) da non vedere che il vostro leggero e delicato piede schiaccia con tanta forza il mio callo? Siete forse fisicamente incapace di comprendere la direzione verso la quale state camminando? Dico a voi, grazioso e intelligente giovanotto… a voi!» o parole simili, si sente meglio. (cap. Cani e gatti)[3]
Eppure, in generale, io amo molto i cani e i gatti. Come sono graziosi e cari! Quali compagni, sono molto superiori agli esseri umani. Essi non litigano né discutono con voi. Non vi parlano mai di sé, ma vi ascoltano quando parlate di voi, mostrando di interessarsi della conversazione. (cap. Cani e gatti)[3]
La sorte del timido non è felice. Gli uomini non lo possono soffrire, le donne lo disprezzano, e lui si disprezza e non si può soffrire. (cap. La timidezza, p. 87)
La presunzione è la miglior armatura che l'uomo possa portare. Sulla sua superficie liscia ed impenetrabile le meschine stoccate del disprezzo e dell'invidia scivolano via, ormai innocue. (cap. La timidezza, p. 90)
Eravamo in quattro — George, e William Samuel Harris, e io, e Montmorency. Eravamo seduti in camera mia a fumare e discorrere di quanto stessimo male — male da un punto di vista sanitario, intendo, si capisce.
Ci sentivamo tutti depressi, il che incominciava a innervosirci. Harris disse che a momenti lo coglievano degli spaventosi attacchi di vertigini, tali da fargli perdere la cognizione di quel che stava facendo; allora George disse che anche lui aveva degli attacchi di vertigini che gli facevano perdere la cognizione di quel che stava facendo. Dal canto mio, era il fegato a darmi dei dispiaceri. Sapevo di avere il fegato in disordine perché avevo appena letto le avvertenze di certe pillole per il fegato, in cui erano descritti nel dettaglio svariati sintomi in base ai quali uno poteva stabilire quando avesse il fegato fuori posto. Io li avevo tutti.
[Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non parlare del cane), traduzione di Margherita D'Amico, Giunti, 2003]
Francesco De Rosa
Eravamo in quattro: George, William Samuel Harris, io e Montmorency. Eravamo seduti nella mia stanza e, fumando, discorrevamo delle nostre cattive condizioni; cattive dal lato medico, naturalmente.
Ci sentivamo tutti esauriti e questo ci preoccupava parecchio. Harris disse che ogni tanto era colto da vertigini così terribili che quasi non si rendeva conto di ciò che faceva in quei momenti; allora George disse che anche lui aveva dei capogiri e quasi non sapeva quello che faceva. Quanto a me, avevo il fegato in cattivo stato. Sapevo di avere il fegato in cattive condizioni, perché perché avevo appena finito di leggere la «réclame» di un nuovo prodotto in pillole per il fegato, in cui erano elencati i vari sintomi per cui un uomo poteva sapere quando il suo fegato era in cattive condizioni. Io li avevo tutti.
[Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non parlar del cane), traduzione di Francesco De Rosa, Ed. Saie, 1972]
Silvio Spaventa Filippi
Eravamo in quattro: Giorgio, Guglielmo Samuele Harris, io e Montmorency. Seduti nella mia stanza, si fumava e si parlava di come stessimo male... male, intendo, rispetto alla salute.
Ci sentivamo tutti sfiaccati e ne eravamo impensieriti. Harris diceva che a volte si sentiva assalito da tali strani accessi di vertigine, che sapeva a pena che si facesse; e poi Giorgio disse che anche lui era assalito da accessi di vertigine e appena sapeva anche lui che si facesse. Io poi avevo il fegato ammalato. Sapevo di avere il fegato ammalato, perché avevo appunto letto un annuncio di pillole brevettate nel quale si specificavano minutamente i vari sintomi dai quali il lettore poteva arguire d'avere il fegato malato. Io li avevo tutti.
Parti di lunedì con l'idea fissa di divertirti. Saluti con disinvoltura i ragazzi sul pontile, ti accendi la pipa più grossa che hai e cammini sul ponte con aria tracotante neanche fossi il capitano Cook, Sir Francis Drake e Cristoforo Colombo tutti in uno. Martedì vorresti non essere mai partito. Mercoledì, giovedì e venerdì vorresti essere morto. Sabato sei in grado di sorseggiare qualche cucchiaiata di brodo ristretto, e di sederti sul ponte, e di rispondere con un sorriso languido ed esangue alle persone di buon cuore che ti domandano come va. Domenica ricominci a camminare e a ingurgitare cibi solidi. E lunedì mattina, mentre con la valigia e l'ombrello, in piedi davanti al parapetto, aspetti di scendere a terra, incomincia a piacerti davvero. (I; 1997, p. 6)
Quante persone, lungo questo viaggio [lungo il fiume della vita], stivano la barca fino a rischiare di farla affondare di cose sciocche che pensano essenziali al piacere e al comfort, ma che in realtà sono soltanto inutile zavorra? Come riempiono la povera piccola imbarcazione fino all'albero di bei vestiti e grandi case, di domestici inutili e di una miriade di amici alla moda ai quali non importa un fico secco di loro, e dei quali a loro importa ancora meno, di costosi divertimenti che non divertono nessuno, di formalità e mode, di finzioni e ostentazioni, e di – oh, la più pesante, la più folle delle zavorre! – della paura di che cosa penserà il vicino, di lussi che possono soltanto nauseare, di piaceri che annoiano, di vuote mostre di sé che, come la corona ferrea del criminale di un tempo, fanno sanguinare e tramortiscono il capo dolorante che la porta! È zavorra uomini... tutta zavorra! Gettatela fuoribordo. Rende la barca così pesante che remare vi sfinisce. La rende così lenta e pericolosa da manovrare che l'ansia e la preoccupazione non vi concedono mai un attimo libero; e non avete mai un momento di riposo per sognare pigramente, mai un momento per osservare le nuvole che sfiorano le onde spinte dal vento, o i scintillanti raggi di sole che giocano con le increspature, o i grandi alberi sull'argine che si curvano per fissare la loro immagine riflessa, o il bosco tutto verde e oro, o i gigli bianchi e gialli, o i giunchi che ondeggiano oscuri o i falaschi, o le orchidee o gli azzurri non-ti-scordar-di-me. Liberatevi della zavorra, uomini! Lasciate che l'imbarcazione della vostra vita sia leggera, carica soltanto di quello di cui avete bisogno: una casa accogliente e qualche semplice piacere, un paio di amici degni di questo nome, qualcuno da amare e che vi ami, un gatto, un cane, e una o due pipe, cibo e indumenti a sufficienza e da bere in abbondanza, perché la sete è una compagna pericolosa. La barca sarà più facile da governare, e non sarà tanto soggetta a capovolgimenti, e se si capovolgerà non sarà così grave; la merce semplice e di buona qualità sopporta un bagno. Avrete tempo per pensare oltre che per lavorare. Tempo per scaldarvi al sole della vita... tempo per ascoltare le melodie eoliche che il vento divino trae dalle corde del cuore umano tutt'intorno a noi... tempo per... Scusate tanto. Divagavo. (III; 1997, pp. 21-22)
[...] perché ogni medaglia ha il suo rovescio, come disse quell'uomo a cui presentarono le spese del funerale della suocera. (III; 1997, p. 23) [wellerismo]
Quando impiccheranno George, il primato d'incapacità toccherà a Harris. (IV; 1997, p. 34)
L'antica Windsor è una località famosa. Edoardo il Confessore vi aveva un palazzo, e il grande conte Godwin fu giudicato reo dalla giustizia dell'epoca d'aver provocato la morte del fratello del re. Il conte Godwin spezzò il pane e tenendone un boccone in una mano disse: "Se sono colpevole possa questo boccone soffocarmi!". Dopo di che mise il pane in bocca, lo inghiottì, e morì strangolato. (XII; 1997, p. 113)
Io ho sempre l'impressione di fare molto più lavoro del dovuto. Non che sia contrario al lavoro, intendiamoci, il lavoro mi piace, mi affascina. Posso starmene seduto a guardarlo per ore. (XV; 1997, p. 148)
Le donne hanno lo strano istinto di aggrapparsi al pugnale che le trafigge. (da Tre uomini in barca)
[...] le donne prediligono stranamente il pugnale che le trafigge. (1922, p. 85)
Noi siamo gl'infelici schiavi del nostro stomaco. (da Tre uomini in barca, 1922)
«Quel che ci occorre» disse Harris «è un diversivo.»
In quel momento l'uscio si aprì e la moglie di Harris cacciò dentro la testa per dire che Ethelbertha l'incaricava di rammentarmi che non dovevamo fare troppo tardi, a causa di Clarence. Io sono propenso a credere che Ethelbertha, per quanto riguarda i bambini, esageri. Clarence non aveva niente di grave. (p. 15)
Citazioni
Gli scapoli sono convinti che le donne sposate pendano dalle labbra del marito e siano disposte a bere qualunque frottola, purché sia raccontata da lui. (p. 16)
Mi spiegò che il suo motto era: «Prendere uomini in gamba e trattarli bene». «Lavorano meglio, se lei li tratta bene» soggiunse «e poi ritornano.» (p. 22)
Quando si va in tandem, c'è sempre qualche discussione. A sentire quello che sta davanti, il compagno che sta dietro non fa un bel niente; dal canto suo, quello che sta dietro ritiene di essere il solo a imprimere movimento al veicolo e, secondo lui, l'altro non fa altro che ansimare. Il mistero non sarà mai chiarito. (p. 41)
Non è necessario raccontare ciò che accade a un uomo quando s'aggira per la casa nel cuor della notte, in veste da camera e pantofole; molti lo sanno per esperienza. Ogni oggetto – specialmente ogni oggetto con un angolo acuto – si diverte con codardo piacere a colpirlo. Quando portate un paio di scarpe robuste, ogni oggetto si fa da parte; quando vi avventurate fra i mobili in pantofole di lana e senza calze, essi si avvicinano e vi pigliano a calci.[5] (cap. IV)
Ethelbertha va in collera quando io mi rado troppo alla svelta. Ha paura che gli estranei, vedendomi, pensino a un maldestro tentativo di suicidio, e che nel vicinato si sparga la voce che noi non siamo felici insieme. Di solito, aggiunge, come argomento sussidiario, che quando si ha una faccia come la mia, si cerca almeno di non peggiorarla. (p. 72)
Di tutti i giochi del mondo quello più universalmente popolare è il gioco della scuola. Si raccolgono sei bambini, facendoli sedere su un gradino, poi ci si mette a camminare avanti e indietro con un libro e un bastone. [...] È un gioco che non stanca mai, che non annoia mai. Soltanto una cosa guasta un po' quel gioco: la tendenza degli altri sei bambini a reclamare a gran voce il loro turno di tenere in mano il libro e il bastone. Secondo me, il motivo per cui il giornalismo è una professione che attrae tanta gente, a dispetto di tutti i suoi svantaggi, è questo: ogni giornalista è convinto dentro di sé di essere quel tal ragazzo che cammina avanti e indietro col bastone e il libro. Il governo, le classi sociali, le masse, la società, l'arte e la letteratura sono gli altri bambini seduti sullo scalino. Il giornalista li istruisce e li migliora. (pp. 89-90)
Se un uomo mi fermasse per la strada e mi domandasse l'orologio, rifiuterei di darglielo. Se minacciasse di portarmelo via con la forza, benché io non sia un tipo combattivo, farei del mio meglio per impedirglielo. Ma, se invece manifestasse l'intenzione di portarmi via l'orologio per mezzo di un'azione legale, io me lo toglierei e glielo porgerei, senza esitare, nella convinzione di essermela cavata a buon mercato. (direttore, p. 92)
Un formicaio è molto simile a un altro. Strade e strade, larghe o strette, dove brulicano i piccoli esseri in una strana confusione; alcuni sembrano indaffaratissimi; altri fan crocchio con l'aria di cospiratori; questi arrancano, trascinando pesi enormi per loro, e quelli si crogiolano al sole. Innumerevoli granai che traboccano di provviste, innumerevoli cellette dove le minuscole creature dormono, mangiano e amano; l'angolo dove giacciono le loro piccole ossa bianche. Un formicaio è più vasto, quello attiguo è più piccolo. Un nido giace sulla sabbia, un altro sotto le pietre. Questo è stato costruito ieri, mentre quello venne fabbricato tanto tempo fa, si dice persino prima della venuta delle rondini... chissà? (p. 94)
Ogni vallata ove l'uomo ha la sua dimora possiede la propria canzone. Vi dirò la trama; potete volgerla in versi e metterla in musica per conto vostro. C'era una volta una fanciulla, sopraggiunse un baldo giovane, l'amò e cavalcò via. È una monotona canzone scritta in molte lingue. (p. 94)
Tutti gli stranieri convengono che, per quanto riguarda la grammatica, [l'inglese] è la lingua più facile da imparare. Un tedesco, confrontandola con la propria lingua dove ogni parola e ogni frase sono soggette ad almeno quattro regole distinte e separate, vi dirà che l'inglese non ha grammatica. Buona parte degli inglesi ha l'aria di essere arrivata alla stessa conclusione; però, a torto. In realtà, una grammatica inglese esiste, e uno di questi giorni le nostre scuole dovranno per forza accorgersene. Così verrà insegnata ai nostri bambini, e può darsi persino che un giorno la grammatica finisca col penetrare negli ambienti letterari e giornalistici. Per ora sembra che noi ci troviamo d'accordo con gli stranieri nel considerarla una entità trascurabile. (p. 104)
La pronuncia inglese è il maggior ostacolo per il nostro progresso. La grafia delle parole inglesi sembra essere stata fabbricata apposta per confondere chi deve pronunciarle. È un'intelligente precauzione diretta a frenare la iattanza dello straniero il quale, altrimenti, imparerebbe l'inglese in un anno. (p. 104)
Nei caffè e nei ristoranti di Berlino, il maggiore movimento si produce tra la mezzanotte e le tre del mattino. E tuttavia, la maggior parte delle persone che li frequentano si alzano alle sette. O il berlinese ha risolto il grande problema della vita moderna – quello di vivere senza dormire – oppure, come Carlyle, brucia le tappe verso l'eternità. (p. 113)
Potsdam, la Versailles di Berlino, è un'incantevole cittadina, situata tra laghi e boschi. Là, negli ombrosi sentieri dell'ampio e tranquillo parco di Sans-Souci, è facile immaginare il grande Federico, allampanato e tabaccone, che vagabonda piacevolmente con lo stridulo Voltaire. (p. 113)
Quelle non sono cassette per lettere, sono nidi di uccelli. Bisogna capire questo paese. Il tedesco ama gli uccelli, ma li vuole ordinati. Un uccello lasciato a se stesso fabbrica il proprio nido dove capita. Non è un oggetto estetico secondo il concetto tedesco. Non è verniciato, non ha un ornamento di stucco, nemmeno una bandierina. Una volta terminato il nido, l'uccello finisce per vivere fuori. Lascia cadere tante cosette sull'erba: fuscelli, pezzetti di vermi e altro. È indelicato. Fa all'amore con sua moglie e ciba i suoi piccoli in pubblico. Qualunque padre di famiglia tedesco ha diritto di scandalizzarsi. Egli dice all'uccellino: "Per molte cose mi piaci. Mi piace guardarti e mi piace udire il tuo canto. Però non mi piacciono le tue abitudini. Prendi questa cassettina e mettici dentro le tue lordure, in modo che io non possa vederle. Esci quando vuoi cantare, ma sbriga le tue cose intime là dentro. Rimani nella tua cassetta e non insudiciarmi il giardino". (p. 118)
L'albero preferito dai tedeschi è il pioppo. La gente di altri paesi disordinati può cantare la bellezza della quercia nodosa, del castagno dai rami dolcemente protesi, o dell'olmo ondeggiante. Per il tedesco queste piante caparbie e scarruffate sono un pruno nell'occhio. Il pioppo cresce dove lo si pianta e come lo si pianta. Non ha idee personali. Non sente il bisogno di allargare i suoi rami né di ondeggiare. Si limita a crescere dritto e slanciato, come si conviene a un albero tedesco; perciò, gradatamente, i tedeschi vanno sradicando tutti gli altri alberi e li sostituiscono con pioppi. (pp. 199-120)
Tutto ben considerato, Dresda è forse la città più attraente della Germania; ma è uno di quei luoghi in cui si dovrebbe vivere per qualche tempo, non passarvi per una visita frettolosa. I suoi musei, le sue gallerie, i suoi giardini e i suoi bei dintorni, ricchi di ricordi storici, formano la gioia del viaggiatore che vi sosta per una stagione, ma disorientano chi vi rimane una settimana. Dresda non ha il gaio movimento di Parigi o di Vienna di cui si è presto sazi, il suo fascino è più solidamente tedesco e più duraturo. Quella è la mecca degli appassionati di musica. A Dresda, per cinque scellini, si può prendere una poltrona al Teatro dell'Opera, contraendo, ahimè, una forte avversione per gli spettacoli dei teatri d'opera inglesi, francesi o americani. (p. 122)
Praga è una delle città più interessanti d'Europa. Le sue pietre sono, per così dire, sature di storia e di ricordi romantici; ogni suo sobborgo è stato un campo di battaglia. È la città in cui fu concepita la Riforma e in cui maturò la Guerra dei trent'anni. Però, vien fatto di pensare che una buona metà dei guai che Praga ha passato, sarebbe stato possibile evitarla, se le case della città avessero finestre meno ampie e meno tentatrici. La prima di tante catastrofi ebbe inizio dopo che i sette consiglieri cattolici furono gettati fuori dalle finestre del municipio e andarono a finire sulle picche degli hussiti che stavano di sotto. Il segnale della seconda catastrofe fu dato con il lancio dei consiglieri imperiali dalle finestre del vecchio Burg, situato nella parte alta della città; fu quella la seconda Fenstersturz, o defenestrazione di Praga. Dopo d'allora altre fatali questioni si sono definite in Praga, ma, dato che la loro liquidazione è avvenuta senza violenze, vien fatto di concludere che le discussioni si svolsero nella cantine. Per un autentico praghese, infatti, l'avere a portata di mano una finestra da introdurre come argomento nella disputa avrebbe costituito una tentazione troppo forte. (p. 133)
La lingua ceca, a quanto si dice, è antichissima e ha un alto valore dal punto di vista filologico. Il suo alfabeto contiene quarantadue lettere e suggerisce allo straniero un parallelo con l'alfabeto cinese. Non è una lingua che si possa imparare in un batter d'occhio. (p. 135)
Dicono che i buoni tedeschi vanno a morire a Carlsbad, come i buoni americani a Parigi. Io ne dubito, poiché è un gran luogo piccolo e inadatto a ospitare una gran folla di persone. (p. 144)
Norimberga, per chi ci arriva aspettandosi di vedere una città di aspetto medioevale, è una delusione. Non mancano, è vero, angoli bizzarri e scorci pittoreschi, ma sono dovunque inframmezzati con qualcosa di moderno, e anche ciò che è antico non lo è tanto quanto ci si aspettava. Dopo tutto, una città è come una donna: ha soltanto l'età che dimostra, e Norimberga è una dama ben conservata alla quale è difficile dare un'età, mascherata com'è dalla vernice fresca e dagli stucchi, nello sfolgorio delle luci a gas ed elettriche. Eppure, osservando con attenzione, si finisce col vedere anche le sue mura rugose e le sue torri grigie. (p. 145)
Un altro oggetto col quale si riesce ottimamente a procurarsi delle emozioni in Germania è la comune carrozzella per bambini. A quel che si può fare o non si può fare con un Kinderwagen, come lo chiamano laggiù, sono dedicate pagine e pagine nei codici tedeschi; dopo aver letto quelle pagine, si deve concludere che l'uomo capace di spingere una carrozzella per bambini in una città tedesca, senza infrangere la legge, sarebbe tagliato per la carriera diplomatica. Non si può andare a passo di lumaca con una carrozzella per bambini. Né si può andare troppo in fretta. Non si deve intralciare il cammino dei passanti con la carrozzella, e se qualcuno si trova sulla sua strada, è la carrozzella che deve togliersi di mezzo. Se ci si vuol fermare bisogna andare nel luogo appositamente designato, dove le carrozzelle si possono fermare, e quando si arriva là, ci si deve fermare. Non si può attraversare la strada con una carrozzella; se voi e il bambino abitate dall'altra parte della strada, peggio per voi. Non dovete lasciare la vostra carrozzella da nessuna parte, e soltanto in certi luoghi ve la potete portare dietro. Direi che, in Germania, chi porta in giro una carrozzella per bambini, si può procurare in mezz'ora tante grane, da averne abbastanza per un mese. Qualunque giovane inglese desideroso di attaccar lite con la polizia, otterrebbe magnificamente lo scopo andando in Germania e portando con sé una carrozzella per bambini. (pp. 162-163)
L'abitudine rende ciechi per ciò che non si desidera vedere. (p. 211)
I tedeschi sono riusciti a convincersi che non vi è nulla di brutale nella Mensur... nulla che offenda la sensibilità, nulla di degradante. Sostengono che essa stimola nella gioventù tedesca il sangue freddo e il coraggio. [...] La Mensur non ha altro risultato che renderlo simile [lo studente tedesco] a un bruto. Può darsi che comporti anche un sfoggio di abilità – così dicono – ma non salta all'occhio. Il combattimento, di per sé, ricorda gli scontri dei cavalieri antichi, con le loro draghinasse; e lo spettacolo, in complesso, rappresenta un felice tentativo di combinare il ridicolo con lo sgradevole. (pp. 211-212)
In favore del duello propriamente detto, si possono portare molti argomenti. Ma la Mensur non ha alcuna giustificazione. È puerile, il fatto che sia crudele e brutale non ne diminuisce menomamente la puerilità. Le ferite non hanno una valore intrinseco di per se stesse; è la causa che le nobilita, non la loro gravità. [...] L'iscriversi a una società con l'unico scopo di farsi tagliuzzare, riduce l'uomo al livello intellettuale di un derviscio danzante. Gli esploratori ci narrano dei selvaggi dell'Africa centrale che esprimono il loro gaudio, durante le feste, facendo salti e capriole e sfregiandosi. Però, non vedo la necessità che gli europei li imitino. La Mensur è, in conclusione, la reductio ad absurdum del duello; se i tedeschi non riescono a capirne da soli il ridicolo, non si può altro che rammaricarsi per la loro mancanza di spirito. (pp. 216-217)
I tedeschi sono un buon popolo. In complesso, forse, sono il popolo migliore del mondo; un popolo affettuoso, altruista e bonaccione. Io sono sicuro che la grande maggioranza dei tedeschi se ne va in paradiso. Anzi, confrontando i tedeschi con la popolazione degli altri paesi cristiani, si è costretti a concludere che il paradiso dev'essere principalmente di marca tedesca. Però, non riesco a capire come i tedeschi ci arrivino. Che l'anima di un singolo tedesco abbia abbastanza iniziativa per volarsene da sola e andare a bussare alla porta di san Pietro, non lo posso credere. Penso, piuttosto, che le anime vengano condotte lassù a plotoni, e affidate all'anima di un defunto agente di polizia. (pp. 230-232)
«Che cos'è, precisamente, il Bummel?», domandò George. «Come lo si potrebbe tradurre?» «Io lo definirei un viaggio, lungo o breve, senza una meta precisa», spiegai. «L'unica regola fissa, nel Bummel, consiste nel ritornare entro un dato tempo al punto di partenza. Talvolta, si va per strade affollate, talvolta attraverso campi e sentieri, talvolta si dispone di poche ore oppure di qualche giorno. Ma, breve o lungo che sia il viaggio, e dovunque ci conduca, il nostro pensiero è sempre fisso sulla sabbia che scorre nella clessidra. Chiniamo la testa in cenno di saluto e sorridiamo a molte persone che incontriamo; con qualcuna sostiamo a far quattro chiacchiere, oppure ci accompagniamo per un tratto. Vediamo molte cose interessanti e spesso ci sentiamo un po' stanchi. Però, nel complesso, ci siamo divertiti, e la fine del Bummel desta in noi un po' di rammarico.» (p. 240)
Appunti di romanzo
Molti anni fa — ero ancora molto piccino — abitavamo in una gran casa d'una strada lunga, dritta e buia dell'estremità orientale di Londra. Di giorno era rumorosa e affollata: ma di sera placida e solitaria. I fanali a gas, pochi e radi, avevano piuttosto il carattere di fari che di lampioni, e la guardia col passo grave e pesante della sua lunga ronda, pareva che s'avvicinasse sempre più o si dileguasse, tranne nei brevi momenti in cui si fermava a far stridere una finestra o una porta, o a illuminare con la lanterna qualche vicolo buio che conduceva verso il fiume.
Sul tempo perso a perdere tempo
Avete mai fatto caso a quando una donna sta per uscire? Quando un uomo esce, dice: «Sto uscendo, non tarderò».
↑ Da Sul tempo perso a perdere tempo. I ripensamenti oziosi di un ozioso (The Second Thoughts of an Idle Fellow, 1898), traduzione di Alessandra Goti, Piano B edizioni, Prato, 2016, p. 91. ISBN 978-8899271534
↑ Jerome K. Jerome, Tre uomini a zonzo, versione di Silvio Spaventa Filippi, R. Caddeo & C, Milano, 1922.
Jerome K. Jerome, Appunti di romanzo (Novel Notes), traduzione di Silvio Spaventa Filippi, A. F. Formíggini, 1928.
Jerome K. Jerome, I pensieri oziosi di un ozioso. Libro per un'oziosa vacanza (Idle Thoughts of an Idle Fellow), traduzione di Ida Omboni, BUR, 1953.
Jerome K. Jerome, Sul tempo perso a perdere tempo. I ripensamenti oziosi di un ozioso, traduzione di Alessandra Goti, Piano B edizioni, Prato, 2016. ISBN 9788899271534
Jerome K. Jerome, Tre uomini a zonzo (Three Men on the Bummel), traduzione di Alberto Tedeschi, BUR, 1991. ISBN 88-17-15142-4
Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non parlare del cane) (Three Men in a Boat), traduzione di Maria Grazia Bianchi Oddera e Silvio Spaventa Filippi, Newton. ISBN 8882898318
Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non parlar del cane) (Three Men in a Boat), traduzione di Francesco De Rosa, Editrice SAIE, 1972.
Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non parlare del cane) (Three Men in a Boat), traduzione di Margherita D'Amico, Giunti, 2003.
Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non parlar del cane) (Three Men in a Boat), traduzione di Katia Bagnoli, Feltrinelli, Milano, 1997. ISBN 8807821419