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scrittore polacco Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Gustaw Herling-Grudziński (1919 – 2000), scrittore e saggista polacco.
Ho letto ieri tra i necrologi del «Corriere»: «A Venezia, nella sua casa di Calle San Barnaba, è deceduta all'età di 87 anni la Contessa Giuditta Terzan. Si è addormentata per sempre, in pace con Dio. Ne dà notizia a Roma, la sorella Giovanna Olindo. Si prega di non disturbare con condoglianze la sommessa dipartita della defunta».[1]
Sul finire dell'estate del 1940, mi trovavo a Vitebsk. Nei pomeriggi la luce del sole s'indugiava sulle pietre del cortile della prigione, e poi scompariva dietro la facciata rossa dell'edificio vicino. Suoni familiari dal cortile ci raggiungevano dentro la cella: il passo pesante dei prigionieri che si avviavano al reparto dei bagni, misto a parole russe di comando e al tintinnio delle chiavi. Nel corridoio, il guardiano canticchiava sotto voce; ogni tanto metteva da parte il suo giornale, e, con la debita calma, si accostava al finestrino ovale della porta della cella. Come a un segnale dato, duecento paia d'occhi smettevano di contemplare con indifferenza il soffitto, e concentravano gli sguardi sul piccolo vetro della spia. Un occhio enorme penetrava nella cella, si posava in giro su ciascuno di noi, e scompariva; lo sportello di stagno che ricopriva il vetro dall'altra parte tornava al suo posto... Tre calci contro la porta significavano: "Preparatevi per il pranzo".
"[...] Mio Dio, certamente uno degli incubi maggiori di tutto il sistema sovietico è questa mania di voler liquidare le loro vittime con tutte le formalità legali... Non basta conficcare una pallottola nella testa di un uomo, deve egli stesso chiederla cortesemente al processo. Non si contentano di costringere un uomo a una feroce finzione, ma devono avere testimonianze per provarla. La Nkvd non mi nascose che sarei stato rimandato alla foresta se rifiutavo... dovevo scegliere fra la mia stessa morte e quella di quei quattro..."
Si versò ancora vino e con mano tremante portò il bicchiere alle labbra. Attraverso le palpebre abbassate vedevo il suo viso sudato e terrorizzato.
"Scelsi. Non ne potevo più della foresta e di quella terribile lotta quotidiana con la morte. Volevo vivere. Testimoniai. Quattro giorni dopo essi furono fucilati fuori del recinto."
Stavamo tutti e due in silenzio. Egli mise il bicchiere vuoto sul tavolo e si rannicchiò sul letto, come aspettando un colpo. Dall'altra parte del muro una stridula voce di soprano cantava una strofa di una canzone italiana e si fermò d'un tratto, interrotta da un'imprecazione. Faceva un po' più fresco, ma io riuscivo quasi a sentire gli pneumatici surriscaldati delle macchine che si staccavano dall'asfalto attaccaticcio con un leggero cigolio.
"Se raccontassi questa storia a qualcuna delle persone in mezzo a cui adesso vivo non mi crederebbe, oppure, se mi credesse, si rifiuterebbe di stringermi la mano. Ma tu devi sapere a che punto ci hanno trascinati, quanto ci hanno avvilito. Di' solo che capisci..."
Sentii il sangue affluirmi alla testa. Immagini e ricordi si affollarono davanti ai miei occhi. A quel tempo, tre anni dopo aver lasciato la Russia, quando cercavo di scacciarle dalla mia mente per poter conservare la fede nella dignità umana, quelle immagini erano confuse e indistinte, mentre ora che ho finalmente riconquistato un po' di pace, le considero con distacco ed esse sono chiare ma completamente lontane. Avrei potuto pronunziare la parola che egli mi chiedeva, il giorno dopo la mia liberazione dal campo. Forse avrei potuto. Ma nel 1945 avevo già tre anni di libertà dietro di me, tre anni di vagabondaggi militari e battaglie, tre anni di sentimenti normali, amore, amicizia, simpatia... I nostri giorni di vita non sono come i nostri giorni di morte, e le nostre leggi di vita, non sono le nostre leggi di morte. Ero tornato in mezzo alla gente, con criteri e concetti umani, e dovevo adesso fuggirne via, abbandonarli, tradirli volontariamente? La scelta era la stessa: allora era stata fra la sua vita e quella dei quattro tedeschi, adesso era fra la sua pace e la mia pace. No, non potevo dirlo.
"Allora?" chiese piano.
Mi alzai dal letto e senza guardarlo negli occhi andai verso la finestra. Voltando le spalle alla stanza, lo sentii uscire e chiudere adagio la porta. Tirai su la tenda. Su piazza Colonna una fresca brezza leggera nell'aria pomeridiana aveva raddrizzato i passanti, come avrebbe fatto su un campo di grano piegato a terra dalla siccità. Americani e inglesi ubriachi camminavano lungo i marciapiedi, spingendo via gli italiani, raccogliendo ragazze, cercando ombra sotto le tende a strisce dei negozi. Sotto le colonne del fabbricato d'angolo il mercato nero era in piena attività. I "lazzaroni" romani, piccoli laceri figli della guerra, scomparivano e ricomparivano tra le gambe di negri enormi in uniforme americana. La guerra era finita un mese prima. Roma era libera, Bruxelles era libera, Oslo era libera, Parigi era libera. Parigi, Parigi, Parigi...
Lo seguii con lo sguardo mentre usciva dall'albergo: saltellava attraversando la strada come un uccello con un'ala spezzata, e scomparve nella folla senza guardarsi indietro.
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