[Su Stanisław Jerzy Lec] Il suo amaro umorismo era al servizio della saggezza, e nel riso che suscitava era invariabilmente presente una scia di intensa meditazione sulla crudeltà della storia che ci portiamo dietro: noi, gli uomini in generale, o i polacchi, o gli ebrei, o gli ebrei-polacchi.[1]
L'amore è un rapporto privo di memoria e di prospettiva in cui ha luogo un totale assorbimento nel presente, è l'esclusione delle cose passate, è la perfetta noncuranza del futuro, è assenza di scrupoli, di pentimenti, di aspettative, di timori.[2]
La Chiesa ha il diritto, come chiunque altro, d'intromettersi nella politica, però deve essere consapevole che allora sarà giudicata con criteri politici.[3]
Lec era perciò un filosofo, benché di sicuro egli non tenesse a essere definito tale, né in alcun modo. Vi era in lui il desiderio che crea la vera sostanza dell'indagine filosofica: denudare tutti gli assunti nascosti delle parole, essere capaci di non risparmiare niente di ciò che nell'innocente banalità è veleno invisibile, vigliaccheria, fuga di fronte al conflitto reale, pigrizia mentale o morale.[1]
[Su Stanisław Jerzy Lec] Per lunghi anni non ci ha dato tregua. Ridestava col suo sforzo quella sfera della coscienza a cui si rivolge sempre l'autentico lavoro del filosofo: invece di appiccicare in insieme apparenti – come talvolta fanno i filosofi di professione – luoghi comuni già pronti, smascherava, l'uno dopo l'altro, ogni luogo comune corrente, non risparmiava nessuna di quelle parole che con l'inerzia della lingua assopiscono il pensiero.[1]
1 2 3 Da In ricordo di Lec, 1966; in Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati (Myśli nieuczesane, 1957), traduzione di Riccardo Landau e Pietro Marchesani, Giunti/Bompiani, 2017, pp. 283-284.
↑ Citato in Marcello Veneziani, Alla luce del mito, Marsilio Editori, 2017, p. 31. ISBN 978-88-317-2639-9
↑ Da Valori cristiani o chiesa totalitaria?, Micromega, 2000.