storico delle religioni giapponese Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Daisetsu Teitarō Suzuki o Daisetz Suzuki (1870 – 1966), storico delle religioni giapponese.
[Il satori] È intuizione, che però differisce del tutto da ciò che generalmente viene chiamato intuizione. Perciò io la chiamo intuizione prajna. Prajna può essere definita «saggezza trascendentale». Ma anche questa espressione non rende tutte le sfumature contenute nella parola, perché prajna è un'intuizione che afferra immediatamente la totalità e l'individualità di tutte le cose. È un'intuizione che senza alcuna riflessione riconosce che lo zero è infinito e l'infinito è zero; e questo non s'intende in senso simbolico o matematico, ma è un'esperienza per percezione diretta. Perciò satori, in termini psicologici, è un "oltre" i confini dell'Io. Da un punto di vista logico è scorgere la sintesi dell'affermazione e della negazione, in termini metafisici è afferrare intuitivamente che l'essere è il divenire e il divenire l'essere.[1]
L'idea originale di Hui-neng fu naturalmente di abolire il verbalismo e la letteratura perché la Mente può esser compresa solo dalla mente, in modo diretto e senza intermediari. (p. 15)
Finché il vedere è qualcosa da vedere, non è quello reale; solo quando vedere è non-vedere, cioè, quando vedere non è un atto specifico di vedere in uno stato di coscienza determinatamente circoscritto, è vedere nella propria autonatura. [...] Così, quando il vedere l'autonatura non ha riferimento con uno stato specifico di coscienza, che può essere logicamente o relativamente definito come qualcosa, i maestri Zen lo indicano in termini negativi e lo chiamano vuoto di pensiero, vuoto mentale. (p. 26)
Tutto ha inizio nell'Inconscio, tutto è nell'Inconscio e tutto sprofonda nell'Inconscio. Non vi è buddhità e perciò nessun funzionamento di essa. Se si risveglia un pensiero e viene individuata una qualunque forma di attività, si ha una discriminazione, un attaccamento, una deviazione dal sentiero dell'Inconscio. Il Maestro resta fermamente nell'Inconscio e rifiuta di lasciarsi trasferire sul piano della coscienza. (p. 63)
Comunque sia, lo Zen è sempre vicino alla nostra quotidiana esperienza ed è questo il significato della frase di Nansen (Nan-ch'uan) e di Baso (Ma-tsu): «La vostra mente (il vostro pensiero) di ogni giorno è il Tao». «Quando abbiamo fame mangiamo e quando siamo stanchi dormiamo». In questa immediatezza di azione, senza alcun intervento mediatore, quale il riconoscimento di oggetti, la considerazione del tempo, il giudizio sui valori, ecc., l'Inconscio si afferma negandosi. (p. 111)
Non appena la mente si «ferma» su un oggetto, di qualunque genere, non si è più padroni di sé e si finirà certamente vittima della spada dell'avversario. Se ti contrapponi a lui, ti porterà via la mente. Quindi, non pensare neppure a te stesso. (pp. 90-91)
Finché il pensiero della morte perdura nella propria coscienza, tuttavia, l'uomo di spada sarà spinto, inconsciamente eppure senza scampo, verso ciò che più vorrebbe evitare. (p. 125)
Gli animali e le piante non s'impongono coscientemente di vivere, lo fanno e basta e lottano inconsapevoli affinché questa condizione non cessi. Noi esseri umani siamo coscienti di questa lotta e per questo nutriamo fantasie di ogni genere sulla vita e sulla morte. E non sono forse proprio queste fantasie o, più precisamente, queste illusioni, e non la realtà delle cose nella loro essenza, a creare in noi infinite occasioni di preoccupazione, di angoscia, di trepidante attesa? Quando le illusioni vengono rimosse, non sarà la vita stessa a badare al proprio interesse, come meglio crede? E non è proprio questo il modo in cui l'uomo di spada permette al suo istinto, che mira a preservare la vita, di operare in pieno accordo con la natura? Libera da ogni interferenza umana, che consiste in primo luogo in processi intellettivi a livello della coscienza e in riflessioni ingannevoli, la natura ora sa come meglio procedere. (p. 169)
I cosiddetti maestri dello Zen non sanno presentare le loro idee alla luce del pensiero moderno. I loro anni più produttivi dal punto di vista intellettuale essi li passano nelle Sale della Meditazione, e quando le lasciano per avere felicemente portato a termine la loro formazione interiore, essi ci si presentano come degli adepti profondamente versati nell'arte dei cosiddetti ko-an (temi o problemi proposti ai discepoli), e non mostrano nessun particolare interesse per la psicologia e la filosofia dello Zen. Così lo Zen resta chiuso e come suggellato nei «Detti» dei maestri e nello studio tecnico dei ko-an, e quasi incapace di uscire dalla clausura dei conventi. (p. 18)
Nella sua essenza, lo Zen è l'arte di vedere nella propria natura. (p. 21)
Quando la nube dell'ignoranza si dissipa, si manifesta l'infinito dei cieli e per la prima volta noi scorgiamo la vera natura dello stesso essere. Allora noi conosciamo il significato della vita, comprendiamo che essa non è un cieco tendere, né un mero dispiegamento di forze brute; pur non conoscendone esattamente lo scopo ultimo, sentiamo in essa qualcosa che ci rende infinitamente felici di viverla, che ci fa restare contenti in ogni sviluppo di essa di là da ogni problema e da ogni dubbio pessimistico. (p. 22)
Una facoltà più alta dell'intelletto deve cogliere la natura del proprio essere, ove sembra prorompere il conflitto fra il finito e l'infinito. Infatti lo Zen afferma che l'intelletto è proprio il far sorgere un problema che lui stesso non è in grado di risolvere. (p. 26)
Come la natura ha orrore per il vuoto, così lo Zen aborre tutto ciò che può inserirsi fra noi e i dati immediati dell'esperienza. [...] Se volete scrutare la vita, fatelo mentre fluisce e lasciandola fluire. In nessun caso se ne deve arrestare il flusso o immischiarsi in esso, perché nel punto in cui vi immergerete le mani la sua trasparenza sarà alterata, esso cesserà di riflettere il volto che aveste fin dalle origini e che continuerete a portare sino alla fine dei tempi. (pp. 27-28)
Nella storia dello Zen s'incontrano molti esempi di uomini pronti a sacrificare membra del loro corpo per raggiungere la verità. Confucio dice: «Se un uomo intende il Tao la mattina, ciò è bene per lui, ne dovesse anche morire la sera». Alcuni sentono realmente che la verità ha maggior valore del mero vivere, di una esistenza semplicemente vegetativa o animale. (p. 31)
Il nostro primo scopo è sottrarci ai vincoli che gravano su tutti gli esseri finiti; ma se non spezziamo la catena stessa dell'ignoranza con cui siamo legati mani e piedi, dove potremo cercare la liberazione? E questa catena dell'ignoranza l'ha creata unicamente l'intelletto insieme alla febbre dei sensi che si attacca ad ogni nostro pensiero, ad ogni nostra sensazione. (p. 32)
Tutto ciò che, ora sul piano intellettuale ed ora sul piano fisico, i maestri fanno liberalmente e con animo aperto per coloro che ad essi si rivolgono, è inteso a ripristinare lo stato dell'originaria libertà. E un tale stato mai lo si realizzerà per davvero prima che lo si esperimenti personalmente coi propri sforzi, fuor da ogni rappresentazione ideologica. (p. 32)
La salvazione va cercata nello stesso finito, non essendovi un infinito separato dalle cose finite. (p. 33)
La vita quale la viviamo è una, anche se la facciamo a pezzi applicandovi senza scrupoli il bisturi dell'intelletto. (p. 34)
La via della rintegrazione è sparsa di lagrime e di sangue. Ma non vi è altro modo di raggiungere le altezze conquistate dai grandi maestri; non si perviene alla verità dello Zen che impegnando tutte le energie della personalità. Il passaggio è pieno di cardi e di rovi e la parete da scalare è quanto mai infida. Non è un giuoco ma la cosa più seria di tutta una vita, un compito che uno spirito vano non deve mai osare di affrontare. Bisogna disporre di una incudine interna sulla quale il proprio carattere andrà sempre di nuovo martellato. Alla domanda: «Che cosa è lo Zen?» un maestro dette questa risposta: «Far bollire olio sulle fiamme». Dobbiamo passare attraverso questa esperienza del fuoco prima che lo Zen ci sorrida e ci dica: «Ecco la vostra casa». (p. 37)
Sul piano psicologico si può anche dire che lo Zen libera energie in noi accumulate, di cui nelle circostanze normali non siamo consci. (p. 39)
Egli [il Buddha] sapeva che ciò che aveva realizzato nello stato di illuminazione della sua mente non avrebbe potuto essere trasmesso ad altri e che, ove fosse stato trasmesso ad altri, questi non lo avrebbero compreso. [...] Egli può aver avute sue idee proprie circa i problemi filosofici che a quel tempo occupavano la mente degli Indù, ma, come ne era il caso per altri capi religiosi, il suo interesse principale non verteva sulla speculazione in quanto tale, bensì sui risultati pratici di essa. Egli era troppo impegnato a strappar via il dardo avvelenato confittosi nella carne per darsi ad una ricerca sull'origine, sulla materia e sulla costituzione di esso – a tanto, diceva, una vita è troppo breve. (pp. 51-52)
Non si può realmente separare l'azione dall'agente, la forza dalla massa, la vita dalle sue manifestazioni. [...] Se trasferiamo queste separazioni dal pensiero alla realtà faremo sorgere una quantità di difficoltà d'ordine non solo intellettuale ma anche morale e spirituale, per via delle quali in seguito avremo da soffrire angosce d'ogni genere. È ciò che il Buddha riconobbe, chiamando ignoranza (avidyā) l'atteggiamento corrispondente. Di ciò, la dottrina mahāyānica della çūnyatā (del «vuoto») fu la naturale conclusione. (p. 59)
Il nirvāṇa non è lo svanire in uno stato di assoluta non-esistenza – cosa impossibile finché dobbiamo fare i conti con i fatti reali della vita – preso nel suo significato ultimo, il nirvāṇa è invece una affermazione, una affermazione di là da qualsiasi specie di antitesi. Questa comprensione metafisica del problema fondamentale del buddhismo forma la caratteristica della filosofia mahāyānica. (p. 60)
Se l'ignoranza penetrò nella nostra vita «col muoversi di un solo pensiero», è il destarsi di un altro pensiero che deve arrestare l'ignoranza e produrre l'illuminazione. E qui non si tratta di un pensiero tale da essere oggetto della coscienza logica o del ragionamento empirico, perché nell'illuminazione il pensatore, il pensare e l'oggetto del pensiero si fondono in un unico atto, che è la visione della vera essenza dell'Io. Non essendo possibile nessuna ulteriore spiegazione del Dharma, non resta che appellarsi alla «via negativa». (pp. 68-69)
Col discorrere, lo scopo non lo si raggiunge, eppure noi tendiamo incessantemente a questo irraggiungibile. Ciò vuol forse dire che si è condannati a vivere e a morire con questo continuo tormento? Se così è, questa è la situazione più misera in cui ci si possa trovare sulla terra. I buddhisti si sono applicati seriamente a risolvere il problema trovando alla fine che possediamo in noi stessi quel che occorre. È una facoltà di intuizione posseduta dallo spirito, atta ad afferrare la verità che ci mostrerà tutti i segreti della vita costituenti il contenuto dell'illuminazione buddhica. Non si tratta, qui, di un processo intellettuale normale bensì di un potere che in un istante e in modo diretto coglie qualcosa di assolutamente fondamentale. Come ho detto, il nome dato dai buddhisti a tale facoltà è prajñā, e ciò che il buddhismo Zen in relazione alla dottrina dell'illuminazione si propone, è destare prajñā mediante la pratica della meditazione. (p. 73)
Al principio, che non è veramente un principio e che non ha alcun significato spirituale fuor dalla nostra esistenza finita, la volontà vuole conoscere se stessa; allora si desta la coscienza riflessa e col destarsi di essa la volontà si divide. La volontà unica, intera e completa in se stessa, ora è divenuta attore e, ad un tempo, osservatore. Il conflitto è inevitabile perché l'attore vuole esser libero dalle limitazioni a cui è stato costretto ad assoggettarsi nel suo desiderio di una coscienza riflessa. Per un lato, gli è stato dato il potere di vedere, ma nel contempo vi è qualcosa che egli, in quanto osservatore, non può scorgere. Alla conoscenza si unisce fatalmente l'ignoranza, l'una accompagna l'altra come l'ombra accompagna l'oggetto; non vi è separazione possibile fra i due compagni. Ma il volere come attore tende a tornare nella sede originaria dove il dualismo ancora non esisteva e dove, di conseguenza, regnava la pace. [...] Al verificarsi della divisione la coscienza è, in un primo momento, così rapita dalla novità dello stato e dalla sua apparente capacità di risolvere i problemi della vita da dimenticare la sua missione, che è l'illuminare la volontà. Invece di gettare luce all'interno – cioè sulla volontà da cui trae il principio della sua esistenza – la coscienza si concentra sul mondo esteriore degli oggetti e delle idee. Quando cerca di guardare in se stessa, trova il mondo di una unità assoluta, nel quale l'oggetto che essa desidera conoscere è lo stesso soggetto. [...] Si tratta di un volere in cui vi è più della mera volontà, in cui vi è anche l'atto di pensare e di vedere. Grazie a questo atto, la volontà scorge se stessa diventando libera e signora di sé. Questo è un sapere in senso eminente, ed è in ciò che consiste la redenzione buddhista. (pp. 125-126)
L'ego è l'angolo tenebroso in cui i raggi dell'intelletto non riescono a penetrare, è l'ultimo nascondiglio dell'ignoranza, che così si ripara tranquillamente dalla luce. Quando questo covo viene scoperchiato, l'ignoranza svanisce come brina al sole. In effetti, l'ignoranza e l'idea dell'ego sono la stessa cosa. (p. 133)
Quale pur fosse la gioia sovrasensibile che si sperimenta praticando il dhyāna, il Buddha fu lungi dall'identificarla con lo scopo ultimo della vita buddhista; in ogni loro forma, simili estasi debbono essere abbandonate perché, confondendo la mente, arrestano il corso ascendente del risveglio di paññā[2] – mentre solo grazie a questo risveglio si può giungere all'emancipazione, si può effettuare il ritorno alla propria dimora originaria. (p. 142)
Lo Zen evita l'errore dell'unilateralità insita sia nel realismo che nell'idealismo. (p. 186)
Se alzo così la mano, c'è lo Zen. Ma se affermo di aver alzato la mano, non c'è più lo Zen. (p. 282)
Le opere di Daisetz Teitaro Suzuki sullo Zen sono da annoverare tra i più alti contributi del secolo allo studio del Buddhismo attuale, così come lo stesso Zen rappresenta il frutto migliore germogliato dall'albero le cui radici sono raccolte nel Canone Pali. Non possiamo essere abbastanza grati all'autore sia perché egli ha reso lo Zen più accessibile alla cultura occidentale sia per il modo con cui egli ha raggiunto lo scopo. (Carl Gustav Jung)