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scrittrice italiana (1936) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Dacia Maraini (1936 – vivente), scrittrice italiana.
Italialibri.net, 21 giugno 2000
Corriere della Sera, 27 marzo 2007, p. 40
Cinisi Online.it, 21 dicembre 2014
Rainews.it, 6 agosto 2015.
Vanity Fair.it, 3 marzo 2016.
Huffingtonpost.it, 12 maggio 2020
Bagheria l'ho vista per la prima volta nel '47. Venivo da Palermo dove ero arrivata con la nave da Napoli e prima ancora da Tokyo con un'altra nave, un transatlantico.
Due anni di campo di concentramento e di guerra. Una traversata sull'oceano minato. Sopra il ponte ogni giorno si facevano le esercitazioni per buttarsi ordinatamente in mare, con il salvagente intorno alla vita, nel caso che la nave incontrasse una mina.
È un treno lento che arranca sulle rotaie. Si dirige verso nord. Amara se ne sta seduta composta, in preda ad una sorta di eccitazione sonnolenta. Il primo lungo viaggio della sua vita. Un treno che si ferma ad ogni stazione, ha i sedili decorati da centrini fatti a mano e puzza di capra bollita e di sapone al permanganato. Sono gli odori della guerra fredda che ha diviso i paesi dell'Ovest da quelli dell'Est, segregandoli con muri, fili spinati e soldati armati di fucile.
Mia madre aveva quindici anni quando ha partorito il primo figlio, Eligio. Poi ha partorito Orlando che è del 1912. Quando sono nata io compiva ventiquattro anni. Aveva già fatto parecchi figli, alcuni vivi, altri morti.
Dicono che sono nata male, mezza asfissiata dal cordone ombelicale che mi si era arrotolato attorno al corpo come un serpente. Mia madre credeva che ero morta e mio padre stava per buttarmi nell'immondizia.
Allora dicono che dalla mia bocca grande e nera è uscito un terribile grido rabbioso. E così hanno capito che ero viva, hanno tagliato quel serpente, mi hanno lavata e cacciata dentro un letto con gli altri miei sei fratellini.
Cara Flavia, mi hai chiesto di raccontarti delle storie di cani. Lì per lì ti ho risposto che non ne so e che poi, se anche ne sapessi, sarebbero tutte uguali. Ma tua hai insistito, ed io, pensandoci, ho ritrovato alcuni ricordi di cani che in qualche modo hanno attraversato il mio cammino, anche per lo spazio brevissimo di un giorno. Nel frattempo, come ho saputo, tu sei partita per l'America con tuo padre. Così non mi resta che scriverti questi racconti di cani e mandarteli per posta.
Il taxi mi deposita davanti al cancello di via Santa Cecilia. Ma perché tanto stupore? sono di nuovo a casa, mi dico, sono tornata; ma è come se non lo riconoscessi questo cancello, questo cortile, questo palazzo dalle tante finestre aperte. Ho una spina infitta nel palato, come il presagio di una sciagura. Cosa mi aspetta in questa dolce mattina che porta con sé gli odori conosciuti del ritorno? cos'è che preme sui miei pensieri come se volesse distorcerli e cancellarli?
Quando le chiedono come nasce un romanzo, la donna dai capelli corti risponde che tutto comincia con un personaggio che bussa alla sua porta. Lei apre. Il personaggio entra, si siede. Lei prepara un caffè; qualche volta ci saranno pure dei biscotti appena fatti o del pane e burro con un poco di sale spruzzato sopra, per chi preferisce il salato al dolce. Il personaggio berrà il caffè che gli vien offerto. Sgranocchierà un biscotto o due. Alcuni fra di loro timidamente dicono di preferire un tè a quell'ora del pomeriggio e vorrebbero assaggiare quella marmellata di albicocche per cui è conosciuta fra gli amici. L'autrice preparerà un tè che potrà essere alla menta, o al gelsomino, con il limone o col latte secondo i gusti.
Un padre e una figlia eccoli lì: lui biondo, bello, sorridente, lei goffa, lentigginosa, spaventata. Lui elegante e trasandato, con le calze ciondolanti, la parrucca infilata di traverso, lei chiusa dentro un corsetto amarantato che mette in risalto la carnagione cerea. La bambina segue nello specchio il padre che, chino, si aggiusta le calze bianche sui polpacci. La bocca è in movimento ma il suono delle parole non la raggiunge, si perde prima di arrivare alle sue orecchie quasi che la distanza visibile che li separa fosse solo un inciampo dell'occhio. Sembrano vicini ma sono lontani mille miglia.
Sta in piedi appoggiata contro un muro, tenendo una gamba ritta e l'altra piegata, come una gru. Ha i capelli ricci, nerissimi che le incorniciano la faccia tonda e infantile. Porta scarpe dalle zeppe di sughero e lacci che salgono lungo i polpacci magrissimi. Ha la pelle scura, di un profondo colore notturno. Si direbbe una bambina di dieci anni, anche se si guarda intorno con fare adulto e spavaldo. Come se avesse paura, ma nello stesso tempo sfidasse la propria paura con modi sicuri, fumando una sigaretta dietro l'altra. Per terra, intorno a lei, tante cicche e qualche pacchetto vuoto, sgualcito e pestato.
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