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forma di comunicazione di massa usata dalle imprese per creare consenso intorno alla propria immagine Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La pubblicità è la comunicazione usata dalle imprese, attraverso varie modalità, per creare consenso intorno alla propria immagine, con l'obiettivo di conseguire i propri obiettivi di marketing (es. vendita di prodotti).
Caratteristica principale della comunicazione pubblicitaria è diffondere dunque messaggi preconfezionati a pagamento attraverso i mass-media, con l'obiettivo che il consenso si trasformi in atteggiamenti o comportamenti positivi da parte del pubblico o consumatore che non consistono solo o semplicemente nell'acquisto del prodotto o servizio: la pubblicità informa, persuade, seduce il pubblico ed è ritenuta corretta se fidelizza l'utente finale in base a principi civili e umanizzanti[1].
La pubblicità ha radici antiche, ed è intimamente collegata con la propaganda o lo sviluppo delle prime attività commerciali e dalle relative iscrizioni, insegne o simboli merceologici.[2]
Presso gli scavi archeologici di Pompei si possono leggere ancora oggi delle scritte, sui muri delle case romane distrutte dal Vesuvio nel 79 d.C., che invitano i passanti a votare per un certo candidato alle elezioni, che un gladiatore combatterà le fiere, che in quella strada ci sono due prostitute a buon prezzo,[3] mentre nella via dell'Abbondanza una serie di insegne di una bottega mostra le fasi di lavorazione della stoffa, a riprova della sua qualità.[2]
La situazione si evolve in Europa con l'invenzione della stampa.[2] Nel 1479 il tipografo britannico William Caxton diffonde un opuscolo per reclamizzare le sue pubblicazioni, mentre i primi antenati dei volantini iniziano a circolare nelle città del continente all'inizio del Cinquecento.
Il 17 ottobre 1482 Jean du Pré crea a Reims il primo manifesto.
In Germania ad esempio si disegnano i premi delle lotterie per invogliare a prendervi parte.[2]
Gazzette a cadenza settimanale nel 1609 in Germania e Olanda, 1620 in Francia, 1622 in Inghilterra, 1639 La Gazzetta di Genova primo giornale italiano, 1660 primo quotidiano a Lipsia,1629 primo annuncio pubblicitario sul Mercurius Britannicus, 1631 sulla Gazzetta di Parigi.[4]
Con la rivoluzione industriale, l'aumento della produzione di merci si è imposto poi il modello pubblicitario che noi conosciamo: il prodotto di una scienza che usa tecniche raffinate e si avvale dell'apporto di psicologi, artisti, disegnatori e registi famosi. È un fenomeno che coinvolge masse enormi di persone ed è un'industria che investe ingenti capitali, impiega intelligenze sopraffine e dà lavoro a milioni di persone.
Il banchiere Charles-Louis Havas nel 1835 crea la prima agenzia di stampa (attiva ancora oggi).
In occasione dell'Esposizione Internazionale di Londra del 1851 viene distribuito il primo catalogo illustrato di prodotti.
La comunicazione pubblicitaria nasce e cammina parallelamente alle esigenze economiche, sociali, politiche e culturali di un paese. Alla fine del XIX secolo l'Italia era ancora un paese prevalentemente ad economia agricola, con una situazione di povertà molto diffusa e con enormi differenze socio-economiche tra il Nord e il Sud del paese ed un'alta percentuale di analfabetismo. Le prime comunicazioni pubblicitarie (al tempo chiamate réclame) iniziano a diffondersi con la nascita dei giornali tra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, nel 1863 la prima concessionaria di spazi pubblicitari italiana è fondata da Carlo Erba e Attilio Manzoni. Sulle ultime pagine dei quotidiani, quali la Domenica del Corriere, la Tribuna Illustrata e l'Illustrazione Italiana, appaiono i primi annunci pubblicitari.
Agli inizi la pubblicità veniva fatta principalmente con solo testi e disegni, anche se la maggior parte della popolazione era analfabeta ed erano molto pochi coloro che potevano permettersi i giornali, e la pubblicità era molto semplice ed immediata. Spesso si usavano i verbi all'imperativo: «Bevete...», «Prendete...», «Al vostro farmacista chiedete...».
Grazie alla cromolitografia, la pubblicità murale si sviluppa e, grazie all'opera di cartellonisti quali Leonetto Cappiello, Adolf Hohenstein, Giovanni Maria Mataloni, Leopoldo Metlicovitz e Marcello Dudovich diventa una vera e propria forma d'arte.
Negli anni ’20, quando la radio cominciò a diffondersi negli Stati Uniti, era considerato inopportuno mandare in onda annunci pubblicitari: sarebbero stati trasmessi nelle case dei cittadini, che erano considerate uno spazio privato. Poi un programma di successo, Amos ‘n’ Andy, infranse il muro della correttezza e cominciò a trasmettere interruzioni pubblicitarie.
In Italia nel 1924 cominciarono le trasmissioni radiofoniche e nel 1926 cominciò la pubblicità; la tv italiana comincia nel 1954 e nel 1957 nasce Carosello.[5]
Il termine italiano pubblicità deriva dall'aggettivo e sostantivo pubblico, ossia che riguarda il popolo, la popolazione, e l'origine della parola italiana rispecchia lo scopo di informare il pubblico e non presuppone il carattere parassitario o onnivoro del termine, bensì di etico e trasparente. Invece il sostantivo inglese advertising possiede una connotazione di tipo imprenditoriale e persuasiva. Advertising deriva dal verbo to advertise, il quale a propria volta viene dal latino ad-vertere e significa letteralmente andare verso. Il réclame nella lingua francese introduce la dimensione psicologica del termine – del richiamo alla memoria – ma non pone la questione di persuasione. Ad origine, la “chiamata” in ambito tipografico, réclame inizia come un breve richiamo promozionale nel testo di un giornale ma poi diventa un vero annuncio pubblicitario di oggi. I sentimenti negativi che oggi accostiamo alla pubblicità come l’invadenza o la pervasività, si ritrovano nell'etimologia del termine tedesco Werbung, derivante dal verbo werben, che significa sia pubblicizzare che attirare, corteggiare.[6]
Fra tutte le possibili classificazioni della pubblicità, forse la più semplice e basilare è la classificazione in relazione al fine ultimo profit/non profit, e cioè se la réclame è più o meno a scopo di lucro:
Ovviamente esistono molte altre classificazioni, che non sono necessarie si escludono a vicenda. Si può andare da classificazioni molto generiche, come ad esempio quella in relazione al tipo di medium che veicola la réclame (radio, televisione, cinema, giornali, periodici, affissioni, Internet) fino a classificazioni piuttosto specifiche come ad esempio quelle in relazione al tipo di target (ossia il destinatario).
In Italia la cultura del secondo dopoguerra, che vedeva la réclame come un qualcosa di negativo, ha dato vita ad una forma di pubblicità televisiva paradossalmente molto creativa e unica al mondo: Carosello.[7] Il primo pubblicitario italiano ad essere nominato CEO europeo all'interno di una multinazionale pubblicitaria è stato Paolo Ettorre nel 1994 nella Saatchi & Saatchi.[8]
Uno dei quesiti di fondo della pubblicità è il seguente: la pubblicità funziona? (ovvero: la pubblicità serve, oppure il mercato funzionerebbe alla stessa identica maniera anche senza di essa?). Per rispondere a questa domanda è necessario innanzitutto stabilire cosa s'intende per pubblicità efficace, e quindi stabilire qual è lo scopo della pubblicità stessa. A titolo illustrativo è utile (e parsimonioso) circoscrivere il ragionamento alla pubblicità commerciale classica.
Agli occhi di un utente, ad esempio un'azienda, una pubblicità è efficace se fa guadagnare soldi; perciò lo scopo della pubblicità, il motivo per cui s'investe denaro in uno spot televisivo o altro, è vendere di più il proprio prodotto. Sebbene questa concezione sia legittima, non è corretta:[9] infatti, tra la messa in circolazione di una réclame e il momento in cui un consumatore finalmente compra il prodotto pubblicizzato, e in alcuni casi e più veloce rispetto al commercio del prodotto che intercorrono talmente tante variabili che non ha senso collegare questi due punti con una semplice freccia.
È pur vero che per una certa categoria di prodotti uno schema così semplice come quello stimolo-risposta («vedi la pubblicità/compri il prodotto») può anche essere appropriato, ma i prodotti in questione sono quasi sempre beni che comportano un minimo investimento economico e soprattutto scarse implicazioni a livello emotivo: sono di solito beni di largo consumo impiegati per le esigenze quotidiane (come l'acqua minerale, la benzina o la carta igienica), e che vengono acquistati quindi con una certa regolarità e che hanno delle alternative altrettanto valide. E in ogni caso le forti associazioni, gli automatismi che si possono instaurare nella mente del consumatore grazie a questo tipo di pubblicità («il livello delle vendite è in funzione della quantità di pubblicità») sono assai fragili e contingenti. Per tutto il resto la questione è assai più complessa.[7]
Innanzitutto fra lo stimolo e la risposta c'è una persona che pensa, che ha un suo modo di reagire ai tentativi della società. Più in generale che ha una propria personalità e che reagisce alla pubblicità in base ai tratti di tale personalità.[7]
Un altro elemento ad avere un rilievo importante è rappresentato dalla fonte dello stimolo, da chi proviene il messaggio, ovvero il mittente. In particolare, nel caso specifico riguardante la comunicazione pubblicitaria, è possibile ipotizzare tre principali categorie di fonti che possono interferire sul messaggio che comunicano:[7]
Il Medium, ossia il mezzo di comunicazione di massa è importante, tuttavia, non solo per l'aura che riesce a dare alla pubblicità ma anche, e soprattutto:[7]
Ogni medium ha una sua specificità, diversa da tutti gli altri, ha una propria grammatica e una propria sintassi, ha un modo particolare di attrarre l'attenzione, di articolare il discorso pubblicitario.
Ha un rilievo importante il Messaggio che si sta comunicando.[7]
È fondamentale poi l'oggetto del messaggio pubblicitario, cioè il Prodotto di cui si sta parlando, sia dal punto di vista del consumatore sia dal punto di vista dell'utente. Quindi:[7]
Non ultime sono importanti le caratteristiche generali Tecniche e Creative del messaggio pubblicitario, la sua architettura, la sua ingegneria e la sua fattura, quelle che globalmente permettono di dire «questa è una buona pubblicità», sebbene spesso non sia possibile individuare di preciso quali siano i singoli ingredienti e il peso che ciascuno di essi ha.[7]
Già a questo livello appare evidente come le variabili in gioco siano talmente tante che pretendere che la pubblicità possa determinare in modo meccanico le vendite non è molto realistico. Senza contare poi il fatto che, in ogni caso, la pubblicità non è sola ma fa parte del cosiddetto Marketing Mix, cioè a incidere sul volume delle vendite non vi è solo la réclame. La pubblicità, per quanto valida possa essere, dovrà sempre fare i conti con:[7]
Un altro aspetto ancora, fondamentale, è che il consumatore non è (di solito) un anacoreta che vive avulso dal resto del mondo, ma è un individuo che recepisce la pubblicità anche alla luce dei valori o degli orientamenti del gruppo o dei gruppi di cui fa parte o ai quali aspira. Questi influenzano la sua esposizione alla comunicazione, l'interpretazione del messaggio, l'accettazione delle sue conclusioni. E spesso la comunicazione gli perverrà di seconda mano, distorta o potenziata da altri individui e più in generale dal contesto sociale in cui vive. In questo senso due elementi emblematici sono rappresentati:[7]
Si intende con pubblicità esterna (outdoor advertising o Out-of-home advertising) tutte le forme pubblicitarie presenti all'esterno delle mura domestiche o di un dispositivo elettronico, quindi presenti sul territorio ed interagenti con esso.
La più grande differenziazione è tra:
La normativa di riferimento in Italia è l'art. 23 del Codice della Strada e del suo Regolamento di attuazione per quanto concerne il rilascio delle autorizzazioni da parte degli Enti competenti, a cui tutta è soggetta,
È il DL 507/93 e succ.mod. per quanto riguarda l'imposta sulla pubblicità.
Infine ulteriori elementi che possono avere una loro incidenza sull'efficacia della pubblicità sono rappresentati:[7]
«Se ti ricordi, con la pubblicità di una volta si poteva verificare se un prodotto aveva venduto meglio dopo che era stato reclamizzato, ma adesso le aziende verificano se le persone hanno cambiato il loro comportamento, e i feed di ogni individuo vengono costantemente ottimizzati per cambiare il comportamento individuale»
A questo punto è quindi evidente come le variabili in gioco siano davvero tante e complesse. Pretendere quindi che una pubblicità di per sé riesca a vendere, o per converso a farci comprare, è un po' troppo semplicistico.
Ma sebbene questo resti l'obiettivo primario non bisogna trascurare però il fatto che nella nostra civiltà la Pubblicità ha assunto anche altre funzioni:
Ciò è possibile in una società come quella occidentale, dove è stata da tempo superata la fase di soddisfazione dei bisogni primari e il consumo appare progressivamente trasformarsi in comunicazione: la pubblicità sfrutta questo meccanismo essendone sì un effetto, ma divenendone anche al contempo una causa. Gli individui, infatti, ricercano nei beni che acquistano, oltre all'utilità funzionale:
È certo un dato di fatto, sotto gli occhi di tutti, che la pubblicità sia onnipresente: si calcola che una persona in una giornata media veda, a seconda delle stime, un qualcosa che oscilla tra i trecento e i tremila annunci.[15][16][17] Alcuni individui e movimenti sono contrari all'influenza di questo fenomeno, e militano contro di esso.
La critica si esercita a tre distinti livelli:
La pubblicità ha poco tempo per interagire, essa utilizza dunque dei mezzi criticabili per migliorare la propria efficacia. La mancanza di pubblicità può comportare il fallimento dell'attività e quindi la perdita della stabilità finanziaria da parte del titolare.[18]
Avendo poco tempo a disposizione per far passare un'idea, la pubblicità utilizza frequentemente preconcetti, stereotipi e cliché tradizionali riconducibili alla pubblicità sessista: bambini in una casa confortevole, la donna in cucina e l'uomo al lavoro. Talvolta accade che essa utilizzi dei contro-ruoli allo scopo di richiamare l'attenzione del consumatore, oppure che cerchi di essere provocatoria, perfino scioccante (come è il caso della Shockvertising ovvero della Yobbo advertising e dei Fear arousing appeals). Ma anche in questi casi essa non cesserebbe di riproporre i propri supporti: la pubblicità cerca di sedurre attraverso un'immagine "politicamente corretta".
Cercando di essere efficace, essa utilizza ogni volta che è possibile un richiamo, un appello a sentimenti o istinti forti, saltando la riflessione ragionata. La pubblicità vede dunque un fiorire di offerte piene di pin-up, o di maschi super palestrati. Nel 1947 Georges Bernanos andava oltre in questa visione, affermando che i motori di scelta della pubblicità sono semplicemente i sette peccati capitali, per la ragione che è molto più facile appoggiarsi sui vizi dell'uomo che sui suoi bisogni. Ancora la pubblicità a cui fa riferimento l'autore citato non esisteva ai suoi tempi nella forma attuale. All'epoca consisteva soprattutto in piccoli annunci e réclame.[19]
Non è facile farsi notare in mezzo a migliaia di annunci pubblicitari e altri stimoli. La pubblicità dunque cerca di provocare per incidere meglio sulla mente dei propri destinatari.
Il committente desidera spesso esprimere un'immagine di novità e audacia (tecnica o artistica). Una pubblicità spinta utilizzando simboli religiosi o simili, oppure che non esiti a fare uso della violenza, può essere una pubblicità vincente in termini di influenza sul pubblico. D'altra parte secondo alcune ricerche le scariche di adrenalina renderebbero più efficace la memorizzazione.
Si comprende dunque perché, tra stereotipi, sesso e violenza, la pubblicità sia criticata, e anche, talvolta, condannata civilmente.
La pubblicità, per definizione, insiste sulle qualità di un prodotto, senza sottolinearne i difetti.[20] Il pubblico sa generalmente che la pubblicità è una forma di menzogna (anche solo per il fatto di quanto omette di informazione):
Emblematico il caso del latte in polvere per neonati, che aveva indotto attraverso la propaganda a far rinunciare all'allattamento al seno le madri per diversi anni, per porre fine a questa pericolosa manipolazione diversi Stati, compresa l'Italia, hanno vietato la pubblicità del latte per bebè.
Circa un secolo fa Edward Bernays nipote di Freud, spin doctor e pubblicitario, ammetteva nel suo libro "Propaganda": «coloro che hanno in mano questo meccanismo [...] costituiscono [...] il vero potere esecutivo del paese. Noi siamo dominati, la nostra mente plasmata, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, da gente di cui non abbiamo mai sentito parlare. [...] Sono loro che manovrano i fili...».[21]
Bernays non si riferiva soltanto alla propaganda politica, bensì anche alla pubblicità commerciale, i cui strumenti sono gli stessi: la sua campagna per la American Tobacco Company negli anni venti, per incitare le donne a fumare, consistette per esempio nell'associare visivamente in maniera costante la sigaretta e i diritti o la libertà della donna. Questa campagna fece aumentare le vendite a tal punto che la società Philip Morris riprese più tardi questa idea per gli uomini, e lanciò il famoso cow-boy Marlboro.
«Ogni volta che un programma viene interrotto per lasciare il posto ad uno spot televisivo vengo assalito da una gran rabbia. È mai possibile che i padroni delle televisioni private siano così affamati di soldi da offendere spudoratamente la dignità umana? E gente che arriva al punto di interrompere le cerimonie di investitura dei re e dei presidenti pur di mostrare i loro spot.»
Come ogni attività, la pubblicità è sottoposta ad una regolamentazione e ad una deontologia molto varia a seconda dei Paesi.
Nessuna regolamentazione protegge ancora il consumatore dal martellamento di un singolo messaggio ripetuto parecchie dozzine di volte in una settimana. Eppure la ripetizione a questo ritmo di messaggi monotoni e uguali aprirebbe il diritto a una querela per "assillamento", reato riconosciuto e sanzionato.
Alcuni organi pubblici o privati si incaricano di fare rispettare le regole (ogni paese ha le proprie[22]). Esistono anche organi di etichettamento (ad esempio, per la connotazione di pubblicità adatta a tutti), organi di controllo (nei paesi "liberi" questo controllo si esercita a posteriori, per non assumere la forma di censura), e anche i tribunali possono essere investiti di questo compito. Questo controllo si esercita sul contenuto (ad esempio non troppa pornografia come nel caso della pubblicità erotica o non troppa violenza come nel caso della shockvertising) o sulla forma (distinzione chiara tra ciò che è espresso come puro messaggio pubblicità promozionale e il contenuto con sottintesi informativi, ludici o altro, come nel caso della pubblicità ingannevole). Possono ugualmente esistere regolamentazioni riguardanti certi mezzi di trasmissione di pubblicità (come ad esempio i poster pubblicitari stradali vietati ad esempio in Trentino-Alto Adige e in Spagna).[23]
Succede anche che le regole non siano applicate affatto, e che le autorità preposte al controllo non diano prova di un grande zelo per porvi rimedio. In Francia esistono associazioni come Paysages de France che cercano di limitare l'estensione della pubblicità oltre i limiti permessi dalla legge, attuando questa difesa dagli abusi sia un gruppo di pressione presso le autorità, sia passando direttamente alle vie legali.
Comportamenti quali l'ascolto attivo (Active Listening) dove gli annunci pubblicitari vengono personalizzati tramite l'ascolto di parole chiavi durante l'ascolto in sottofondo sono stati dichiarati in uso da parte di alcuni fornitori di servizi, quali Cox Media Group.[24][25]
Alcuni movimenti (raggruppati in Francia sotto il termine di Antipub[26]) considerano la pubblicità nefasta di per sé, al di là delle critiche ai contenuti:
Paradossalmente, talvolta, allo scopo di far passare il loro messaggio anti-pubblicitario, questi movimenti utilizzano metodi pubblicitari classici: uso di stereotipi e slogan, affissioni, mobilitazione su internet (pubblicità "virale"), propositi e azioni provocatorie miranti a ottenere visibilità sui media (a volte offerta gratuitamente da giornalisti per diversi motivi) eccetera. Appare dunque che il loro bersaglio non è la pubblicità in senso ampio (la propaganda), di cui essi si servono senza complessi, ma solamente la pubblicità in senso stretto (commerciale e privata). Ciò può implicare in alcuni casi una tolleranza per la propaganda non commerciale o comunque controllata da un'entità a loro conveniente.
Questi movimenti sono seguiti con un certo interesse dalle stesse agenzie pubblicitarie, sempre pronte a recuperare tutto quanto permetta di veicolare un'immagine di "frode" e di libertà. Si sono quindi visti apparire manifesti pubblicitari ripieni di falsi graffiti antipub, con lo scopo di sollecitare l'attenzione.
La critica secondo la quale la pubblicità provoca poco a poco modifiche irrazionali della visione del mondo vede opporsi la critica inversa: modificare la visione spettatrice è ugualmente l'ambizione normale di ogni artista. Ma, come è molto spesso ripetuto agli studenti nelle scuole di pubblicità, e che spesso dimenticano, la pubblicità non è un'arte, e il pubblicitario non è un artista.[38][39]
I bambini a causa della loro intrinseca mancanza di malizia e di spirito critico, della loro emotività fragile e turbolenta, del loro intelletto in formazione, rappresentano una fascia di popolazione debole e particolarmente vulnerabile alla pubblicità.[40]
Target privilegiato dalle imprese il marketing infantile fidelizzando futuri consumatori o comunque soggetti economici mediatori dei consumi famigliari attuali, a partire dall’opera specialistica di James U. McNeal professore di marketing alla Texas University, dagli anni 60 ha avuto un incremento costante e pervasivo,[41] dal quale sono sorte importanti ripercussioni problematiche sui bambini che hanno portato alla formulazione di alcune specifiche normative restrittive del settore.[42]
Lo stesso McNeal intervistato da Joel Bakan riconosce che i problemi sorgono quando la volontà degli addetti al marketing rivolto ai bambini è di descrivere come “divertente” qualunque cosa possa stimolare o convincere il bambino a desiderare o guardare qualcosa indipendentemente da cosa sia salutare od appropriato per loro: «Cose che fanno male, pessimi valori e cattive idee vengono vendute ai ragazzini come divertenti» «Troppi bambini ingrassano, si ammalano, non studiano abbastanza,non dormono a sufficienza e in generale, mettono se stessi in pericolo attraverso un consumismo eccessivo».[43]
Il genio creativo di marketing virale Alex Buguscky, nominato tra l’altro Interactive Agency of the Year 2010, sorprese tutti i clienti con un feroce manifesto contro il marketing rivolto ai bambini definendolo “una pratica distruttiva” priva di “valori positivi”, in quanto: <<incapaci di proteggersi e difendersi da un messaggio che non ha probabilmente a cuore i loro interessi>>.
Il guru del marketing Martin Lindstrom, nel suo libro '’Brandchild’’ dice: <<Insomma è triste ammettere che, nonostante questa sia la generazione più ricca che abbia mai calpestato il pianeta, è senz’altro la più insicura e depressa. E la fede dei bambini è tutta investita nel potere del marchio>>.[44][45]
La comprensione dell’intento persuasivo di un messaggio pubblicitario è un processo che richiede un’alta consapevolezza che viene raggiunta passando per diversi gradi successivi con l’avanzare dell’età, ad esempio l’abilità di riconoscere l’intento di vendere non è pienamente raggiunto neanche dai bambini di 11 anni.[46]
In Italia normative di tutela dei bambini dalla pubblicità sono attive dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza AGIA, che si avvale per il controllo di un settore così diffuso e pervasivo soprattutto dai moderni dispositivi mobili, delle segnalazioni dei singoli cittadini. Il Codice di Autodisciplina della pubblicità italiana recita all’articolo 11, Bambini e adolescenti:
"Una cura particolare deve essere posta nei messaggi che si rivolgono ai bambini, intesi come minori fino a 12 anni, e agli adolescenti o che possono essere da loro ricevuti. Questi messaggi non devono contenere nulla che possa danneggiarli psichicamente, moralmente o fisicamente e non devono inoltre abusare della loro naturale credulità o mancanza di esperienza, o del loro senso di lealtà. In particolare questa comunicazione commerciale non deve indurre a:
La comunicazione commerciale non deve contenere un’esortazione diretta ai bambini affinché acquistino o sollecitino altre persone ad acquistare il prodotto pubblicizzato. L’impiego di bambini e adolescenti nella comunicazione deve evitare ogni abuso dei naturali sentimenti degli adulti per i più giovani. Sono vietate rappresentazioni di comportamenti o di atteggiamenti improntati alla sessualizzazione dei bambini, o dei soggetti che appaiano tali."
Il valore aggiunto della scuola per il marketing infantile è enorme poiché nell’immaginario infantile e non solo, essa incarna i principi di onestà, cultura e formazione. I messaggi con cui i bambini vengono a contatto all’interno dell’edificio scolastico sono considerati particolarmente autorevoli, sicuri e degni di fiducia.
Un altro aspetto etico dibattuto è l’utilizzo di attori bambini nelle pubblicità.[47]
Secondo la "Teoria Forte della Pubblicità" sia oppositori sia sostenitori sarebbero convinti della grande potenza persuasiva della pubblicità stessa. La pubblicità infatti:[48]
Ebbene, sulla base di molti studi sui rapporti tra pubblicità e vendite si può affermare che è lecito avere dei seri dubbi sui principali assunti di questa teoria, perché:[48]
Alla luce di queste considerazioni è allora forse più plausibile una teoria che ridimensiona, e non poco, il potere della réclame: si parla infatti di "Teoria Debole" o "Teoria degli Effetti Limitati della Pubblicità" secondo la quale, invece, la pubblicità aumenta le conoscenze del consumatore, anche se questo tende prevalentemente ad esporsi alla pubblicità dei prodotti che già acquista, poiché la pubblicità:[48]
O come sintetizzato da Jacques Séguéla: «la pubblicità non sceglie per nessuno, permette solo di scegliere meglio».[49]
A ciò si può aggiungere la seguente constatazione:[50][51] nel tempo, al crescere degli investimenti pubblicitari, rimangono costanti sia i soldi spesi in prodotti, sia i tipi di prodotti acquistati dai consumatori: quello che invece varia è la marca di quei prodotti.
Il decreto legislativo n. 74 del 1992 all'articolo 2, lett. a) definisce la pubblicità come: «qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi oppure la prestazione di opere e servizi».
Il diritto comunitario offre un'altra definizione: la Direttiva 89/522/CEE stabilisce che «ogni forma di messaggio televisivo trasmesso dietro compenso o pagamento analogo da un'impresa pubblica o privata nell'ambito di un'attività commerciale [...] allo scopo di promuovere la fornitura, dietro compenso, di beni o di servizi, compresi i beni immobili, i diritti e le obbligazioni».
Il Decreto Legislativo n. 177 del 31 luglio 2005 fissa i limiti di affollamento degli spot pubblicitari nelle emittenti radiotelevisive.[52]
L'elemento chiave delle definizioni legislative della pubblicità esaminate, dunque, è costituito dalla finalità promozionale di questa tipologia di comunicazione ed è disgiunto dal mezzo attraverso il quale essa viene diffusa, essendo rilevante soltanto il collegamento funzionale con l'esercizio di un'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale.[53] Ci troviamo in presenza di pubblicità, dunque, quando - sotto il profilo oggettivo - la comunicazione è finalizzata a stimolare la domanda di beni o servizi[54] e - sotto il profilo soggettivo - quando la comunicazione è diffusa nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale.
Il problema centrale nell'analisi giuridica del fenomeno pubblicitario è stabilire se la pubblicità, in quanto comunicazione avente natura promozionale, possa beneficiare delle garanzie previste dall'articolo 21 della Costituzione per la libertà di espressione o meno.
La presenza di numerosi interventi legislativi che pongono limiti alla comunicazione pubblicitaria molto più stringenti di quelli previsti per la comunicazione di tipo informativo o letterario, conferma il fatto che il legislatore ritiene che il fenomeno pubblicitario non possa godere di una protezione costituzionale ampia come quella accordata a questi altri tipi di comunicazione.
Al fine di evitare quegli abusi che screditerebbero la pubblicità, legittimando le critiche mosse contro di essa, gli operatori del settore hanno ritenuto opportuno dotarsi preventivamente di un apparato di autodisciplina costituito da regole che pongono dei limiti all'attività pubblicitaria e da organi incaricati di far rispettare queste regole.
Nel 1911 nacquero negli Stati Uniti dei comitati per impedire gli abusi in pubblicità. Da questi comitati si sono sviluppati i Better Business Bureaus, 106 fra U.S.A. e Canada, gli attuali organi di autodisciplina commerciale nordamericana.[55]
In Gran Bretagna le organizzazioni pubblicitarie formarono un primo comitato nel 1928. Nel 1947 emanarono il primo Code of advertising practice e nel 1962 fondarono la Advertising Standards Authority.[55]
Intanto, nel 1937 la Camera di Commercio Internazionale aveva elaborato un "Codice delle pratiche leali in materia di pubblicità".[56]
In Italia l'UPA varò un primo "Codice morale della pubblicità" nel 1951; il secondo fu emanato dalla Federazione italiana della pubblicità nel 1952. Finalmente nel 1966 tutte le associazioni del settore elaborarono insieme il "Codice di autodisciplina pubblicitaria",[57] la cui applicazione è curata dall'Istituto dell'Autodisciplina Pubblicitaria.[56]
In Francia, nella capitale Parigi, esiste un museo dedicato alla pubblicità e situato nell'ala sinistra del Louvre, con accesso da Rue de Rivoli. Il Musée de la Publicité è stato istituito nel 1990 ed ingloba il fondo del precedente Musée de l’Affiche, quest'ultimo istituito nel 1978.[58]
In Inghilterra, a Londra, si trova Museum of Brands, Packaging & Advertising, fondato da Robert Opie nel 2005. La collezione del museo offre un viaggio nella storia del consumo, presentando le confezioni in stile déco degli anni ’30, l'imballaggio artistico dell’epoca del boom economico, i vari souvenir realizzati in occasione dei matrimoni reali, ecc.[59]
In Italia, il Museo della Pubblicità è costituito dal Castello di Rivoli in Piemonte. Fondato nel 2002, il museo invita ad esplorare il fenomeno pubblicità con particolare attenzione ai linguaggi artistico-espressivi e le varie strategie comunicative dell'impresa. La sua collezione raccoglie oltre 2000 manifesti e bozzetti originali, dagli anni ’30 agli anni ’80, donate della famiglia di Dino Villani, di Severo Pozzati (in arte Sepo), di Nico Endel. Sono esposti i lavori di grandi artisti quali Dudovich, Cassandre, Testa, Boccasile e manifesti dell'Enit (l’Ente Nazionale Italiano per il Turismo). Il materiale audiovisivo comprende i celebri Caroselli divenuti testimonianza del costume italiano, spot televisivi e la raccolta completa dei film pubblicitari premiati ai Festival di Cannes e Venezia dal 1954.[60]
L'organizzazione professionale (impresa) che fornisce servizi per lo studio, la progettazione e la realizzazione della pubblicità (o più in generale di una campagna pubblicitaria) è solitamente l'Agenzia pubblicitaria. Tale agenzia è costituita da vari reparti, ciascuno con funzioni ben specifiche. A sua volta ognuno di questi reparti è caratterizzato da determinate figure professionali.
Un'altra tipologia di organizzazione del settore (spesso confusa con l'agenzia) è il Centro Media.
Si rimanda alla voce dedicata per una descrizione esaustiva della struttura e del funzionamento dei tue tipi di impresa.
Nell'ambito della pubblicità esistono varie manifestazioni che assegnano premi relativi a varie categorie. I due più importanti sono:[61]
Va innanzitutto chiarito che, paradossalmente, per quanto la pubblicità sia una forma di comunicazione ideata dagli esseri umani e largamente impiegata da molto tempo, rimane un meccanismo complesso dovuto a vari fattori dei quali si sa poco. E le conoscenze sono minime sia per quanto riguarda i fattori stessi sia per quanto riguarda la sinergia tra essi. Questo stato delle cose è dovuto a vari motivi:[7]
Il risultato è che non raramente le conoscenze relative alla pubblicità finiscono col ridursi a prese di posizione acritiche che poco hanno a che fare con riscontri obiettivi rigorosi.
Esiste comunque una cospicua letteratura che, con una cadenza più o meno regolare, fa il punto sul sapere relativo alla pubblicità:
Le riviste che nel mondo si occupano di pubblicità a vari livelli sono numerose. Tra le più importanti, a titolo esemplificativo, è possibile citare:[61][62]
Anche in Italia sono edite varie riviste. Tra quelle principali è possibile citare:
Esistono dizionari enciclopedici dedicati totalmente o in significativa parte alla pubblicità o alla grafica pubblicitaria. Tra le opere relativamente più recenti, in lingua italiana, è possibile citare:
Le monografie dedicate alla pubblicità sono innumerevoli, e affrontano l'argomento da molti punti di vista. Ma se da un lato è possibile citare almeno alcuni dei principali volumi pubblicati nell'ultimo quarto di secolo in lingua italiana, dall'altro è bene tener presente che tale elenco ha un mero scopo didattico, e costituisce più che altro un termine di paragone rispetto ad altre pubblicazioni. In particolare la seguente esigua lista deve aiutare a discernere la vera e propria saggistica scientifica da un'altra tipologia di libri, sempre dedicata al mondo della réclame, ma che ha molte più affinità con la narrativa (cfr. sezione successiva). Per un elenco esaustivo ed ufficiale di tutte le opere pubblicate sulla pubblicità si invitano i lettori a consultare l'indice SBN OPAC.[65]
Esiste finalmente una letteratura del tutto peculiare caratterizzata da libri, scritti da pubblicitari, a metà strada tra l'autobiografia e il manuale pedagogico (se non in certi casi addirittura il romanzo). Il capostipite di questa tradizione, che poi ha avuto numerosi epigoni, fu Claude C. Hopkins nel 1927. È possibile citare i volumi più celebri:
Sull'altro versante, ossia quello della critica alla pubblicità, vi sono altrettanto numerosi libri:
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