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Per resistenza nell'alto maceratese si intende l'attività di opposizione militare condotta nella zona di Macerata, durante la seconda guerra mondiale, contro l'invasione d'Italia della Germania nazista, da parte di liberi individui, partiti e movimenti organizzati in formazioni partigiane, che combatterono a fianco degli Alleati.
A partire dal settembre 1943, le Marche e le regioni confinanti si trovarono a fungere da spartiacque geografico tra l'avanzata degli Alleati e l'occupazione nazifascista e ciò portò, ovviamente, a molteplici difficoltà per gli abitanti che vi risiedevano. Nelle Marche del resto mancavano esperienze storiche di guerriglia, ma il rifiuto alla guerra era ormai generalizzato a ciò si sommava, dopo lo sfascio dell'8 settembre, la necessità di decidere da quale parte schierarsi. Nella prima fase, durata fino al gennaio-febbraio 1944, i cosiddetti ribelli cercarono di stabilire un minimo di organizzazione per poter affrontare la latitanza. Problemi fondamentali da risolvere erano: alloggio, cibo, vestiti e soprattutto armi. La seconda fase, dal marzo al giugno del 1944, fu quella veramente difficile tanto per i gruppi armati che per la popolazione. A gennaio lo sbarco degli Alleati ad Anzio aveva acceso le speranze, ma presto svanirono. In febbraio i bandi di leva, con richiamo alle armi delle classi dal 1922 al 1925, che minacciavano di morte i disertori alimentarono a dismisura il fenomeno della renitenza. Il 25 febbraio 1944, scaduto il bando di richiamo di Salò delle classi 1922-1923, molti giovani si rifugiano nelle vicinanze ed alcuni a Montalto. Si trattava di "ragazzi allevati nel regime fascista, pressoché digiuni di politica e disinformati per quanto riguarda ogni forma di dissenso"[1]. A Tolentino la maggior parte di questi giovani frequentava le associazioni cattoliche, i due principali punti di riferimento erano l'Oratorio Salesiano e l'associazione giovanile "Excelsior". Così la renitenza divenne un singolare fenomeno di antifascismo spontaneo e generalizzato, maturato da ragioni morali e esistenziali prima che ideologiche[2]. Tedeschi e fascisti tra febbraio e marzo procedettero con operazioni di rastrellamento a vasto raggio allo scopo di stringere in una tenaglia tutta la fascia occidentale delle Marche ai confini con l'Umbria. Il movimento di Resistenza riuscì a reggere all'urto e a non farsi annientare, ma un prezzo molto alto di sangue venne comunque scontato negli eccidi come quelli avvenuti a marzo nelle località di Pozza e Umito, Montemonaco, Montalto e San Severino Marche.
Il 20 gennaio 1944 un mas della Regia Marina partì da Termoli per compiere una missione speciale, ovvero rappresentare il Regno del Sud presso il territorio maceratese, cercando di recuperare la fedeltà alla monarchia, contrastando l'avanzata del pensiero comunista e il rafforzamento di quello repubblicano e di dirigere le operazioni di sabotaggio secondo le richieste degli Alleati. Alla missione parteciparono il generale di brigata della riserva, l'uff. Salvatore Melia (conosciuto come "Man" o "Il capitano"), il capitano di complemento di fanteria Arnaldo Angerilli di San Ginesio (conosciuto come "Alessio") e il sottotenente Vincenzo Rosati, che si occupava della ricetrasmittente. Nei primi giorni dell'anno Melia si occupò di costruire sette importanti bande che avrebbero contrastato l'attività unendosi con piccoli gruppi composti da paesani patrioti. Le bande furono:[3]
Molti giovani confluiti nella zona di Montalto pensarono di organizzarsi tra loro in quella che ritenevano una postazione sicura. Il reparto nazifascista che attaccò Montalto non trovò difficoltà e trasformarono la battuta di rastrellamento in un massacro. Il 22 marzo 1944, ventisei giovani vennero fucilati a Montalto, nello stesso giorno altri tre furono uccisi a Vestignano e poco distante da loro venne ammazzato anche Aldo Buscalferri. Fra i giovani di Montalto solo Nello Salvatori ebbe la fortuna di sopravvivere alla strage.
«...Quattro a quattro vengono barbaramente stroncate fiorenti giovinezze. Qualcuno non morto si lamenta pietosamente. I militi, impietriti, lo finiscono a colpi di pistola. È la volta del quarto turno, il mio. Percorro pochi metri, che mi separano dal luogo della fucilazione con l'anima nella più grande agitazione. Non faccio neppure in tempo ad arrivare che una scarica di "automatico" parte. Non so neppure io come cado a terra, colpito da alcune pallottole non mortali al fianco, al braccio, alla gamba destra. Inizia, così, per me una protezione divina. Non mi preoccupo delle ferite quantunque non poco sanguinanti. Tutta l'attenzione è di non lamentarmi e di non muovermi per evitare il colpo di grazia. Il freddo è intenso. Il sangue che esce dalle ferite mi comincia a spaventare. Altri quattro compagni cadono e mi coprono. Anche il sangue di essi scorre copioso, mi macchia il volto, la testa, la schiena, tutto. Brevi istanti passano, poi sento togliermi i cadaveri di sopra. Si saranno forse accorti di me che sono ancora vivo? Mi daranno il colpo di grazia? Riconcentro tutto me stesso a comparire morto. Mi prendono fortunatamente quei compagni che attendono per essere fucilati. Mi trascinano per qualche spazio, poi sento mancarmi il terreno e scivolo velocemente per una scarpata. Altri fucilati mi cadono bruscamente sopra e sento di qualcuno l'ultimo respiro. Il pericolo di ricevere il colpo di grazia è passato. Mi resta da vedere se gli assassini se ne sono andati. Attendo immobile sulla neve circa tre ore. Sento venir gente. Mi accorgo che non sono fascisti. Raccogliendo, allora, tutte le mie forze lentamente mi alzo, emozionato nel vedere un mucchio di compagni inerti. La gente spaventata indietreggia, piange, si lamenta. Penso subito che nel mucchio ci deve essere qualcuno salvo come me. Mi do a chiamarli ad uno ad uno:(...) Tutti morti!»
In aprile i gruppi si riorganizzarono, gli Alleati ripresero l'avanzata ed effettuarono lanci di armi e mezzi. La pressione nazifascista perse terreno sul piano militare, ma praticò feroci rappresaglie sui civili. Per tutto il mese di maggio le S.S. compirono molti rastrellamenti nell'Alto Maceratese prendendo decine di giovani. Tra le rappresaglie è da ricordare quella del 24 giugno a Campolapiaggia, Letegge e Pozzuolo in cui vennero massacrate circa sessanta persone, comprese donne e bambini[4].
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