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La procrastinazione (dal latino pro "avanti, a favore di" e crastinus "che appartiene al domani") è l'atto di rimandare lo svolgimento di un compito o di un'attività che si preferirebbe fosse svolta nell'immediato. Sebbene esista un consistente numero di ricerche, ad oggi non esiste un accordo condiviso su cosa si debba intendere per procrastinazione. In particolare, il dibattito contrappone chi considera la procrastinazione come patologica e chi la considera come potenzialmente funzionale. Se alcune teorie che si sono occupate di questo tema, infatti, ne evidenziano gli aspetti irrazionali e dannosi, altre pongono in luce i fattori contestuali che possono portare a procrastinare. Tra questi, la difficoltà del compito che si deve portare a termine o il doverlo svolgere in un gruppo in cui il proprio contributo non può essere rilevato.[1]
Tra le cause più comuni della procrastinazione vi è il disagio provocato dall'attività. Più è alto, più l'individuo tenderà ad evitarne lo svolgimento. Non si tratta però di vero e proprio evitamento, poiché nel soggetto rimane comunque la volontà di eseguire il compito, che viene di fatto solamente rimandato ad una data imprecisata.[2]
In uno studio del 2000 condotto dall'Eastern Illinois University, a un gruppo di studenti fu chiesto di elencare quotidianamente, per un periodo di cinque giorni, le attività accademiche ed extra-accademiche che intendevano svolgere, riportandone anche l'eventuale completamento. I risultati dimostrarono che i compiti procrastinati per primi erano proprio quelli più impegnativi e ansiogeni, indipendentemente dalla natura dell'attività.[3]
I fattori che più accrescono il disagio sono di solito un’assenza di motivazione per il compito da svolgere e la sua ripetitività nel tempo, che lo rendono faticoso e alienante per la persona.[2] Altre ricerche hanno però trovato ulteriori cause. Secondo la Construal Level Theory, formulata da Liberman e Trope nel 1998, ciò che gioca un ruolo fondamentale è il livello di astrazione con cui il soggetto rappresenta mentalmente l’attività. Più un compito è distante – a livello temporale, spaziale o esperienziale - dall’individuo, più verrà immaginato con un alto livello di astrazione; più un compito è vicino, più sarà rappresentato con concretezza. In uno studio effettuato nel 2008 dagli stessi Liberman e Trope emerse come il rapporto tra distanza e livello di astrazione fosse in realtà bidirezionale. Ai partecipanti fu richiesto di svolgere un compito da casa e inviarlo per mail entro un periodo di tre settimane. Nonostante le attività avessero le stesse premesse per tutti, ciò per cui differivano era l’alto o il basso livello di astrazione con cui erano state formulate le consegne. I risultati mostrarono come i compiti con un basso livello di astrazione venissero consegnati prima rispetto a quelli con un alto livello di astrazione.[4] Un'attività concepita come astratta, quindi, appare al procrastinatore come di più difficile realizzazione poiché l'immagine mentale che ne consegue è più vaga e i passaggi necessari a concluderla non ben definiti.
Un altro fattore che può favorire la procrastinazione è la ricerca del piacere. Questa caratteristica genera soprattutto una procrastinazione di tipo arousal, ossia volta all'abbandono di un'attività poco stimolante per dedicarsi ad una seconda attività più piacevole ed appagante. I soggetti che attuano una procrastinazione di questo tipo, infatti, provano con più facilità stati di noia e sono quindi spesso alla ricerca di emozioni intense per poterne uscire. Lo scopo, in questi casi, è quello di aumentare continuamente il proprio livello di attivazione. Anche l'atto stesso di rinviare il compito è, per i procrastinatori di tipo arousal, fonte di piacere. Il fatto di rimandare fino all’ultimo l'attività rappresenta, a tutti gli effetti, un aumento del livello di attivazione, dato che l'individuo si trova a dover dare il massimo per concluderla.[2]
In uno studio effettuato nel 2008 dalla Carleton University, tuttavia, è emerso che la ricerca del piacere, seppur sia un vero e proprio tratto di personalità, può rappresentare a volte una falsa credenza. Su un campione di circa trecento studenti, una piccola percentuale credeva di poter dare il massimo solo riducendosi all’ultimo pur non rientrando in una personalità di tipo arousal. In questo caso l’individuo si trova in uno stato di dissonanza cognitiva, poiché all’intenzione di svolgere l’attività non corrisponde un comportamento concreto. Così il soggetto si trova in uno stato di disagio psicologico che viene risolto motivando la dissonanza con affermazioni del tipo “lavoro meglio sotto pressione”. Tale affermazione risulta però falsa poiché il procrastinatore non è in realtà guidato dalla ricerca del piacere, ma la usa come scusa per non sentirsi in difetto.[5]
Gli studi condotti da Steel nel 2007 avevano smentito l'esistenza di una correlazione tra procrastinazione e perfezionismo. I perfezionisti sembravano anzi essere meno tendenti alla procrastinazione perché più meticolosi e organizzati. Tale analisi erano però state condotte considerando il perfezionismo nella sua concezione unidimensionale, che di fatto rappresenta solo la parte più costruttiva e quindi in maniera più verosimile slegata dall'atto del procrastinare.
In uno studio pubblicato nel 2017 furono analizzate le relazioni tra i tratti della procrastinazione e del perfezionismo con le variabili di valutazione dell’autocontrollo. I risultati mostrarono come il perfezionismo, nella sua accezione positiva di puntare al massimo per una soddisfazione personale, fosse effettivamente sintomo di grande autocontrollo, mentre se inteso come preoccupazione di ricevere giudizi negativi dall’esterno era collegato, insieme alla procrastinazione, ad un basso autocontrollo. Ciò accade perché, nonostante entrambi i tipi di perfezionisti abbiano standard elevati, nei primi questi standard riescono ad essere soddisfatti grazie ad un buon controllo emotivo, mentre nei secondi la mancanza di auto-efficacia impedisce ai perfezionisti di soddisfare gli standard.[6] Il procrastinatore fa quindi esperienza di un perfezionismo sociale, in cui la paura di fallire e deludere le aspettative altrui genera una pressione così forte da causare l'abbandono dell'attività.[2]
Da uno studio di Piers Steel condotto nel 2011 è emerso che "chi ha un tasso di impulsività doppio rispetto alla media tenderà a procrastinare il doppio". Il soggetto impulsivo è caratterizzato da uno scarso autocontrollo, il che gli rende difficile resistere alla fatica e lo fa cedere alle distrazioni. All’individuo impulsivo spesso manca il metodo e l’organizzazione per superare eventuali ostacoli che, nel momento in cui si presentano, lo costringono all’arresto. L’ansia provocata dalla scadenza rappresenta poi l’ostacolo più grande, davanti al quale il procrastinatore attua un meccanismo di evitamento, scaturito dall'ansia attribuita al compito.
A livello neurologico, vi è un conflitto tra la corteccia prefrontale e il sistema limbico. Mentre il primo analizza le intenzioni a lungo termine connesse con l’attività da svolgere, il secondo si concentra sulla necessità di un piacere immediato. Nella mente di un procrastinatore, quindi, la consapevolezza dell’importanza del compito da svolgere si scontra con una richiesta di appagamento che lo porta a accantonare la prima per soddisfare il secondo, finché la scadenza non si avvicina a tal punto da entrare nella sfera di competenza del sistema limbico ed esigere un’azione immediata.[2]
Questo meccanismo ha motivazioni genetiche. Nel 2015 Daniel E. Gustavson condusse uno studio su coppie di gemelli. I risultati evidenziarono come il tratto dell’impulsività abbia basi genetiche e, in generale, come la genetica contribuisca per circa il 28% a generare una tendenza alla procrastinazione.[7]
Lo studio effettuato nel 2001 da Timothy A. Judge e Joyce E. Bono della University of Iowa individua una correlazione tra autoefficacia, autostima e performance lavorativa.[8]
Autoefficacia e autostima influiscono sulla capacità di far corrispondere all’intenzione di svolgere un’attività il comportamento necessario affinché ciò accada. In particolare, l’autoefficacia permette di agire in maniera funzionale sulla regolazione dell’atteggiamento di fronte agli imprevisti, attraverso l’organizzazione del lavoro e la resistenza alle tentazioni. Alti livelli di autoefficacia, infatti, facilitano l’individuo nel mantenere saldo il legame fra intenzione e comportamento attuato, mentre bassi livelli portano all’evitamento del compito, quindi alla procrastinazione.
Uno studio di Ferrari del 1995 ha però dimostrato anche un’influenza in senso inverso. Se un compito che in precedenza era stato procrastinato viene ripreso e svolto, questo innalzerà il livello di autostima del soggetto. In quest'ottica, l’atteggiamento del procrastinatore può essere interpretato come un tentativo di preservare la propria autostima, proteggendola da un eventuale fallimento attraverso l’evitamento dell’azione.[2]
La procrastinazione è identificabile come un effetto della mancanza di autocontrollo. L’individuo che attua questo tipo di evitamento fallisce nella regolazione delle emozioni negative generate dal compito, che prendono il sopravvento e gli impediscono di continuare. Questo meccanismo spontaneo, seppur dannoso a lungo termine, compensa il mancato autocontrollo, poiché l’abbandono dell’attività ha di fatto la funzione di attenuare lo stato di noia o di frustrazione che invece avrebbero ripercussioni negative nel breve periodo. Ciò che manca ai procrastinatori è quindi la capacità di gestire le proprie emozioni durante lo svolgimento del compito.[9]
Recenti studi hanno dimostrato come l’autocontrollo possa essere aumentato attraverso la pratica della mindfulness. In uno studio del 2007 condotto da Richard Chambers, un gruppo di venti persone fu sottoposto a dieci giorni di ritiro mindfulness e valutato, sia all’inizio che alla fine, in base a diversi parametri, tra cui la capacità di indirizzare e sostenere l’attenzione, il livello di rimuginio e la presenza di sintomi depressivi. I risultati dimostrarono come, dopo il ritiro, ognuno dei parametri fosse migliorato, anche se confrontato con un secondo gruppo di non meditatori.[10]
La meditazione provoca quindi un miglioramento delle funzioni esecutive e permette al procrastinatore di superare gli impulsi emozionali e gestire alcuni comportamenti automatici, quali l’evitamento e la distrazione, in favore di comportamenti più ragionati e funzionali all’attività da svolgere. Nello studio svolto nel 2007 da Chan e Woollacott, cinquanta praticanti di meditazione e dieci non praticanti furono sottoposti al test di Stroop. Il test era formato da tre esercizi: il primo consisteva nel leggere il più velocemente possibile nomi di colori scritti in inchiostro nero; il secondo consisteva nel nominare i colori coi quali erano scritte stringhe formate da ‘X’; il terzo, infine, era formato dai nomi di colori del primo esercizio stampati con i colori del secondo e ai partecipanti fu chiesto quindi di rispondere con il nome dei colori con i quali erano scritti. I risultati mostrarono che i praticanti avevano ottenuto in generale punteggi più alti rispetto ai non praticanti e che questi ultimi erano, inoltre, più inclini a cadere nell’automatismo dell'effetto Stroop.[11]
Agire direttamente sul comportamento dell’individuo risulta la strategia più utilizzata per gestire la procrastinazione. In questo caso la terapia punta a rendere il procrastinatore consapevole delle emozioni che generano l’evitamento, per poi sostituire quest'ultimo con un secondo comportamento più funzionale al completamento del compito. Una prima soluzione è quella di imparare a controllare gli stimoli che causano l’evitamento, ossia la task aversiveness ed eventuali distrazioni. Questo è possibile attraverso un lavoro di miglioramento dell’autocontrollo e di consapevolezza del proprio stato d’animo. In secondo luogo, è possibile creare nuovi stimoli che rendano automatico l’inizio o il completamento dell’attività, in modo da ridurre il conflitto tra corteccia prefrontale e sistema limbico. Ciò è utile affinché l’individuo cominci a svolgere una routine giornaliera che elimini la fatica decisionale, conservando risorse cognitive per esercitare l’autocontrollo. Esporre poi gradualmente il procrastinatore all’attività evitata serve a desensibilizzarlo alle emozioni ad essa correlate. Il soggetto comincia a svolgere un modello semplificato del compito, riducendo il tempo da dedicargli o il carico di lavoro, fino a riuscire a cimentarsi nell’attività completa. Infine, la procrastinazione è spesso innescata da obiettivi poco chiari e irrealistici. È quindi fondamentale imparare a suddividere un obiettivo a lungo termine in altri più pratici e a breve termine, così da favorire la produttività ed una gratificazione immediata.
A livello cognitivo, invece, la terapia attua una ristrutturazione cognitiva, agendo sulle credenze disfuzionali del procrastinatore quali perfezionismo, visione catastrofica del fallimento e bassa autostima. Queste sono abitudini di pensiero che vengono attuate inconsciamente e che alimentano la tendenza a emozioni negative e comportamenti dannosi quali l’evitamento. Far prendere consapevolezza all’individuo di tali pensieri e spingerlo ad agire nonostante queste credenze aiuta a superare il blocco emotivo legato all’attività e ad accrescere l'autostima e l'autoefficacia.[2]
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