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sostanza esogena, organica o inorganica, naturale o sintetica, capace di indurre modificazioni funzionali in un organismo vivente Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
I termini “farmaco”, “medicinale” e “prodotto medicinale” sono stati usati nel corso degli anni come sinonimi; di recente si è preferito usare il termine medicinale, impiegato anche nelle direttive comunitarie che disciplinano questo settore.[1] L'Organizzazione Mondiale della Sanità definisce il farmaco come:[2]
«una sostanza o un prodotto usato per modificare o esaminare funzioni fisiologiche o stati patologici, a beneficio del paziente.»
La Direttiva 2001/83/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 novembre 2001, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano definisce infatti il medicinale come:[3]
[...] ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane; ogni sostanza o associazione di sostanze che possa essere utilizzata sull'uomo o somministrata all'uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica.
Bisogna poi ricordare che oltre ai medicinali per uso umano esistono quelli ad uso veterinario definiti dal Regolamento (UE) 2019/6 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018 come:[4]
qualsiasi sostanza o associazione di sostanze che soddisfi almeno una delle seguenti condizioni:
a) è presentata come avente proprietà per il trattamento o la prevenzione delle malattie degli animali;
b) è destinata a essere utilizzata sugli animali, o somministrata agli animali, allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica, immunologica o metabolica;
c) è destinata a essere utilizzata sull’animale allo scopo di stabilire una diagnosi medica;
d) è destinata a essere utilizzata per l’eutanasia degli animali;
La storia del farmaco è lunga quanto quella della civiltà; le sue origini, infatti, possono essere già individuate "in quei tentativi condotti dai cosiddetti uomini primitivi volti a riconoscere le proprietà benefiche contenute in erbe, acque sorgive e sostanze alimentari".[5] La classificazione dei prodotti vegetali alla base dell'erboristeria, nasce circa 5000 anni fa con le più antiche popolazioni in Cina, Egitto e India, molto probabilmente attraverso un processo empirico. In questo periodo accanto all'impiego delle erbe come rimedio medicamentoso, un ruolo importante è ricoperto dalla componente spirituale-religiosa che ne accompagna l'assunzione.
Gli antichi cinesi conoscevano infatti già moltissimi rimedi terapeutici millenni prima di Cristo. Su una tavoletta ritrovata a Nippur e datata 2300 a.C. è stata ritrovata la prima raccolta di sostanze ad uso terapeutico, nonché formulari farmaceutici e indicazioni sulla loro preparazione. Mentre tra le testimonianze scritte e gli antichi libri sacri indiani spiccano l'Ayurveda e il trattato di Atharvaveda. Molti papiri egizi fanno riferimento a droghe vegetali e ai procedimenti per la loro preparazione, tra cui spicca il papiro di Ebers (c. 1550 a.C.) che contiene oltre mille ricette con le rispettive modalità di preparazione e assunzione. Secondo alcuni studiosi fu proprio in Egitto che vennero fissate per la prima volta le basi della farmacovigilanza.[6]
Fu in Grecia che confluirono le conoscenze sui farmaci da tutte le antiche culture orientali, in particolare quelle egiziane. I greci utilizzavano infatti la parola phármacon per indicare sia una sostanza tossica che una sostanza curativa. Nasce qui la figura di Asclepio, conosciuto dal III sec a.C. come Esculapio, considerato il dio della medicina. Nei templi asclepidei i sacerdoti curavano i malati utilizzando varie droghe riportando sulle colonne le preparazioni più utilizzate. Furono i greci a gettare le basi della tossicologia come scienza, per la quantità di conoscenze raccolte sull'aspetto tossico delle sostanze utilizzate.
Nel passato la preparazione di un farmaco era soggetta a precisi rituali che ne consentivano la trasmissione nel tempo. Ad esempio la teriaca di Andromaco, una panacea composta da duecento elementi, è giunta alle soglie della nostra epoca; infatti si trovano ordinanze sindacali che ne regolano la vendita nelle principali città fino al 1916.[7]
Nasce in Grecia anche il 'padre della medicina scientifica', Ippocrate che nei suoi scritti indica numerosi medicamenti di origine vegetale, minerale e animale, nonché nel IV sec. a.C. diede la seguente definizione:
[...] sono farmaci tutte le sostanze capaci di variare lo stato presente dell'organismo, vale a dire capaci di determinare modificazioni funzionali, in senso positivo e in senso negativo, nell'organismo vivente.
Dalla Grecia i farmaci passano a Roma dove il loro numero aumenta considerevolmente così come riporta Dioscoride Pedanio di Anazarba, uno dei più grandi protofarmacologi del tempo (I sec. d.C.). Egli mette inoltre in luce un problema tutt'oggi attuale: l'adulterazione dei farmaci da parte di affaristi privi di scrupoli. Nel De Materia Medica, un tratto in greco di 5 volumi, egli raccoglie tutte le nozioni farmacologiche del tempo e i preparati di origine vegetale, animale - compreso l'uomo - e minerale. Esso viene considerato la colonna portante della farmacologia e della farmacognosia e venne utilizzato fino al XVI sec.
Tra i nomi illustri di questo periodo troviamo poi Galeno (II sec. d.C.) le cui pratiche sono state diffusamente adottate nel corso dei secoli tanto da essere ancora utilizzate nel XVII sec. Sotto l'Impero Romano nascono inoltre la figura del 'medico' che spesso senza avere particolari studi approntava le preparazioni medicamentose, le prescriveva e le vendeva, ovvero la figura del 'rizotomo' (tagliatore di radici) e quella del 'erbario' (raccoglitore di erbe).[6]
Nel Medioevo si diffonde il concetto di malattia come castigo o prova imposta da Dio e della cura del malato come atto di carità. La cura delle malattie si basava. oltre che su minerali e riposo, sull'utilizzo di vegetali le cui proprietà vengono attribuite su basi irrazionali come ad esempio il collegamento tra la forma, il colore o la struttura di una pianta ricordino una parte del corpo e siano dunque la soluzione migliore nel caso di malattia in quella parte specifica (dottrina della 'signatura'). Sono di questo periodo la medicina monastica o conventuale, la medicina e l'alchimia araba da cui derivano nozioni che si fonderanno nel tempo.[6]
Nasce in Italia e il primo centro fu il monastero di Montecassino seguito da diversi monasteri benedettini intorno a cui sorgono ospedali e si forma una cultura medica che si diffonde in tutta Europa. I testi più noti sono gli 'hortuli' che contengono informazioni sui 'semplici' (quasi esclusivamente piante officinali) con cui preparare unguenti, decotti e impiastri. Le ricette venivano trascritte in libri segreti e tramandate dagli 'infirmarius' (monaci erboristi) a un allievo di fiducia. I monaci erboristi erano inoltre responsabili dell'armarium pigmentariorum dove venivano riposte le erbe.[6]
L'influsso della medicina islamica si sviluppa e manifesta tra il VII e l'VIII secolo. Agli arabi va il merito di aver avviato l'estrazione dei principi attivi dalle erbe e dalle piante officinali attraverso quella che veniva definita 'alchimia' ovvero i processi chimici allora conosciuti. Secondo alcuni studiosi il fondatore dell'alchimia araba fu Giabir ibn Hayyan a cui vengono attributi diversi libri su come ottenere diversi composti chimici.
Nel Rinascimento la stampa e la scoperta dell'America hanno un importante impatto sulla sviluppo della farmacologia. La stampa permette la diffusione di conoscenze sulla materia attraverso la divulgazione delle opere di Ippocrate, Dioscoride e Galeno, come nei Commentarii in libros Dioscoridis di Pietro Andrea Mattioli (Venezia, 1565), nonché il famoso Ricettario dei Dottori dell'Arte e di Medicina del Collegio Fiorentino noto anche come Ricettario Fiorentino (1498). La scoperta dell'America invece rende possibile l'introduzione e l'utilizzo di nuove piante come la gialappa, il guanaco e la ratania.[6]
ll XV e il XVI secolo sono considerati i secoli del 'delirio alchimistico' il cui più illustre rappresentante è sicuramente Theophrastus von Honenheim, più comunemente noto con il nome di Paracelso di cui si riporta una celebre citazione:
«Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit.[8]»
«Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto.»
A partire dalla fine del XVII secolo poi si inizia a capire che le sostanze farmacologicamente attive presenti nelle piante si formano secondo un ciclo biologico, annuale o pluriennale, e che si concentrano in specifiche parti della pianta come i semi e le foglie. Tra il 1552 e il 1578 viene compilato il Pent'sao di Li Shih-chen, il primo trattato medico-farmaceutico che comprende il 'catalogo delle erbe medicinali' con la descrizione di oltre 1000 piante medicinali e circa 10.000 formulazioni erboristiche. L'opera in 52 volumi comprende anche 2000 medicamenti che verranno adottati nella farmacologia occidentale.[6]
Nel XVII e XVIII secolo si caratterizza e si sviluppa la figura del 'ciarlatano' - chiamato anche 'medico imbonitore', 'montinbanco', 'cantimbanco' o 'medico di fiera' - che viene definito dall'Accademia della Crusca come colui che:[9]
per le piazze avvalendosi della sua parlantina e i suoi giochi di mano spaccia unguenti o altre medicine [...] cerca, con abbondanza di parole artificiose e vanterie, di spacciare il falso per vero, traendo profitto dall'altrui credulità.
Tra i prodotti più venduti troviamo la teriaca e l'antidoto per il morso di serpente. Non vi era alcun controllo su questi prodotti e nemmeno sugli effetti che questi avevano sui cosiddetti 'pazienti'. Alla fine del XVIII secolo si pone all'attenzione il 'balsamo homogeneo' del frate Pietro Antonio Banfi che ne richiede l'approvazione e la messa in vendita al viceré di Milano.[6] La richiesta non sarà però accettata perché:[10]
«la descrizione delle virtù del balsamo senza la ricetta del medesimo non consente di esprimersi sulla validità curativa dei suoi ingredienti.»
Secondo Voltaire:[10]
il ciarlatanismo nacque il giorno in cui il primo briccone s'imbatté nel primo imbecille.
Nella seconda metà del XVIII secolo la chimica comincia ad interessarsi in modo specifico e scientifico ai principi attivi dando inizio a quella che prenderà successivamente il nome di chimica farmaceutica. Contemporaneamente nasce la farmacologia sperimentale con il principio metodologico fondamentale della sperimentazione sistematica, in vivo e in vitro.[6]
Agli inizi del XIX secolo si capisce definitivamente che l'attività medicamentosa delle piante è legata a uno o più principi attivi, nonché si verifica un significativo sviluppo della fisiologia sperimentale e della chimica. I primi studi di fisiologia sperimentale amplieranno le conoscenze sulla comprensione del corpo umano sia in condizioni normali sia in condizioni patologiche, mentre la chimica, ormai diventata una scienza vera e propria, mette in atto studi per isolare i principi attivi delle preparazioni ottenute da piante ed erbe arrivando ad isolare allo stato puro molte di esse, come alcaloidi e glucosidi.[6]
Nel corso del XIX secolo iniziano a farsi strada gli insegnamenti medici a carattere pratico-applicativo. e l'interesse medico si concentra sulla preparazione artigianale di rimedi terapeutici da parte di quelli che oggi vengono definiti farmacisti, erboristi e chimici. Si comincia a riconoscere la relazione tra dose ed effetto e quella tra struttura e attività farmacologica. Oswald Schmiedeberg (1838-1921) è considerato il fondatore della farmacologia come disciplina sperimentale indipendente. Egli cerca di raggruppare i composti capaci di espletare azioni analoghe ponendo così le basi per una classificazione scientifica dei farmaci.[6]
Verso il 1815 nasce la farmacognosia che si occupa della morfologia interna ed esterna delle piante medicinali e del loro contenuto di principi attivi, così come presenti in natura e come preparati e conservati dall'uomo. Proprio nel XIX vengono effettuati i primi tentativi per ottenere, attraverso la sintesi chimica, sostanze dotate di attività farmacologiche e si avvia il processo d'industrializzazione per l'identificazione e la produzione di farmaci. Vengono scoperti in questo periodo gli anestetici generali come l'etere, il cloroformio e il protossido d'azoto.[6]
Tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX vengono poi sviluppati gli antipiretici di sintesi che sostituirono la chinina. Questi sono principalmente derivati dalla corteccia di salice da cui nel 1828 viene estratta la salicina. Nel 1874 viene infatti sintetizzato l'acido salicilico usato l'anno successivo per trattare la febbre reumatoide.[6] Nel 1897 il chimico tedesco Felix Hoffman, durante ricerche volte a migliorare la tollerabilità dell'acido salicilico, mescola quest'ultimo con l'acido acetico ottenendo l'acido acetilsalicilico (ASA), comunemente detto aspirina, messo in commercio dalla Bayer nel 1899.[11]
Nel 1860 viene isolata la cocaina che nel 1884 viene introdotta in oftalmologia come anestetico locale. Nel 1892 iniziarono però le ricerche per sostituirla con prodotti di sintesi con un miglior rapporto rischio-beneficio che porterà alla sintesi della procaina nel 1905. Sempre nel 1860 giungono in Europa i primi studi sullo strofanto di cui viene segnalata l'azione sull'attività cardiaca nel 1890 e andrà a sostituire la digitale. Nel 1878 viene inoltre introdotto il concetto di recettore quasi contemporaneamente da John Langley e Paul Erhlich, il padre della chemioterapia.[6]
Tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, soprattutto in Germania, iniziano a nascere istituti scientifici autonomi distaccati dalle cliniche che portano avanti ricerche, senza contatto diretto con il paziente, al fine d'individuare sull'animale gli effetti di nuove sostanze, nonché prendono corpo i primi studi sulla farmacocinetica. Nei primi decenni del XX secolo:[6]
Inizia la commercializzazione di preparazioni farmaceutiche come pillole e compresse dai colori allettanti accompagnate da foglietti illustrativi, capaci solo di un effetto placebo. I foglietti illustrativi sono solo testi che elogiano il medicinale basati sull'impressione e l'entusiasmo del medico curante, da qui il termine bugiardino ancora oggi utilizzato. Nella prima metà del XX secolo vengono inoltre introdotte terapie con arsenobenzoli e sulfamidici a cui si affiancheranno nella seconda metà del secolo farmaci come gli antibiotici, gli antitumorali, gli antipertensivi, i farmaci per l'ulcera e gli psicofarmaci. Nel 1920 Frederick Banting e Charles Best isolano quella che verrà poi chiamata insulina somministrata per la prima volta nel 1922 a un ragazzo diabetico di 14 anni in fase terminale.[6]
Fra le scoperte più significative del '900 troviamo quella delle vitamine:[6]
I primi anticoagulanti per l'uomo vengono immessi in commercio negli anni '50. Tra di essi il Warfarin, un derivato del dicumarolo, era precedentemente utilizzato nella lotta contro i roditori.[6] Alla diffusione e all'uso degli anticoagulanti contribuisce il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower che sopravvive ad una trombosi coronarica proprio grazie alla somministrazione del Warfarin.[12]
Sono della seconda metà del XX secolo anche i FANS, i farmaci antidiabetici, gli anticoagulanti curaminici e gli antibatterici. Tra gli anni '50 e '60 inizia il drug screening, ovvero l'analisi sistematica e standardizzata di tutti gli effetti dei composti chimici sui tessuti biologici. Sempre nella seconda metà del XX secolo si sviluppano discipline come la farmacologia clinica, la farmacoepidemiologia, la farmacovigilanza e la farmacoeconomia.[6]
Negli ultimi anni del XX secolo vennero messi in commercio i farmaci il cui scopo non è quello di curare la malattia, bensì ridurre il rischio di comparsa della stessa, come ad esempio le statine e gli antiaggreganti piastrinici. Il primo appartenente alla seconda categoria viene scoperto a Roma, il ditazolo, a cui fanno seguito la ticlopidina e il clopidogrel. La storia recente del farmaco in Italia è legata alla nascita delle prime industrie farmaceutiche, dovute all'iniziativa di farmacisti, come Francesco Angelini, Archimede Menarini, Carlo Erba, Franco Dompè, Giacomo Chiesi e Giovanni Battista Schiapparelli, che realizzarono i primi stabilimenti dopo aver avuto successo con le loro specialità preparate in laboratorio.[6]
A livello internazionale è stato stabilito un sistema unificato di classificazione dei farmaci denominato Sistema di classificazione anatomico, terapeutico e chimico (in inglese, Anatomical Therapeutic Chemical (ATC) classification system) che classifica i medicinali in base all'organo o all'apparato su cui agiscono e le loro proprietà terapeutiche, farmacologiche e chimiche.[13]
In linea generale un farmaco è una sostanza chimica in grado di legarsi a una macromolecola funzionale della cellula al fine di produrre un effetto farmacologico.[14]
I farmaci vengono identificati in tre modi:[15]
Il componente principale di un medicinale è il suo principio attivo, cioè la sostanza che è la principale responsabile del suo effetto terapeutico. Al principio attivo viene aggiunta una serie di eccipienti, ottenendo una determinata formulazione che ne permette la somministrazione ai pazienti nel modo più sicuro e idoneo alcuni principi attivi sono presenti sul mercato in decine di formulazioni diverse, adatte a pazienti di ogni età e in ogni condizione. Numerosi medicinali o forme farmaceutiche contengono anche eccipienti particolari in grado di modificare alcune caratteristiche del principio attivo, come il tempo d'azione (effetto retard o prolungato), il sito d'azione o la solubilità apparente e quindi l'efficacia, la conservatività, ecc.[16]
Il processo che porta alla commercializzazione di un farmaco si suddivide in diverse fasi:[17]
Il processo di sviluppo di un nuovo farmaco si suddivide in tre fasi principali:[2]
Un ruolo fondamentale in questo processo è ricoperto dai 'marcatori biologici' ovvero gli indicatoridi processi fisiologici, patologici o di risposte biologiche all'intervento terapeutico.[18] La ricerca di nuovo medicinale è generalmente svolta dalle aziende farmaceutiche e biotecnologiche oltre che da dottori e ricercatori universitari.[17]
Per poter essere autorizzato, un farmaco deve essere testato prima in laboratorio su diversi animali per valutarne la tossicità[19] e poi su pazienti reali mediante il processo che prende il nome di studio clinico.[20] Ciascun studio clinico deve essere svolto nel rispetto delle normative stabilite a livello internazionale dal dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO),[21][22] su cui si basa il Regolamento (UE) n. 536/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano e che abroga la direttiva 2001/20/CE.[23]
Al fine di ottenere l'autorizzazione alla commercializzazione di un farmaco, il produttore deve sottoporre all'ente di controllo nazionale tutta un serie di dati che verranno valutati da una commissione di esperti al fine di determinare se il farmaco è sicuro ed efficace.[17][24]
I dati da sottoporre a valutazione includono:[17]
Il principio fondamentale su cui poggia la valutazione di un farmaco è il rapporto rischio-beneficio: la valutazione potrà essere positiva solo nel caso in cui i benefici superino i rischi.[17] La valutazione da parte dell'EMA può richiedere fino a 210 giorni,[17] mentre l'FDA americana può richiedere fino a 10 mesi.[25]
In America l'autorizzazione alla commercializzazione di un farmaco viene rilasciata direttamente dall'FDA.[19] La legislazione europea prevede invece diverse procedure autorizzative:[26]
Salvo casi specifici, l'autorizzazione europea ha validità quinquennale rinnovabile per ulteriori cinque anni o indeterminatamente.[31] In Europa le notifiche delle autorizzazioni all'immissione in commercio sono pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea, e indicano in particolare la data di autorizzazione e il numero d'iscrizione nel registro comunitario, nonché la denominazione comune internazionale (DCI) della sostanza attiva del medicinale, la forma farmaceutica e il codice anatomico, terapeutico e chimico (ATC).[26]
Affinché possa essere commercializzato, un farmaco deve possedere tre caratteristiche: qualità, sicurezza ed efficacia.[31]
Poiché l'assunzione di farmaci senza la necessaria competenza può portare svariati effetti collaterali fino al decesso, è istituito uno speciale regime di vendita che varia da nazione a nazione. I farmaci possono essere suddivisi in due categorie: OTC (over the counter, i cosiddetti farmaci da banco) e farmaci dispensabili solo dietro presentazione di ricetta medica.[32][33]
In Italia i farmaci vengono commercializzati in diverse categorie:[33]
Per quanto riguarda i farmaci che possono causare dipendenza e gli stupefacenti, a livello internazionale si fa riferimento alla Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961 nella versione modificata dal Protocollo di emendamenti del 25 marzo 1972.[34]
Ogni farmaco terapeutico tipicamente presenta uno o più principi attivi, una destinazione d'uso, una modalità d'uso, una posologia, controindicazioni ed effetti collaterali, tipicamente descritti all'interno del cosiddetto foglietto illustrativo che deve essere redatto secondo specifiche norme: in Europa si fa riferimento alla Direttiva 2001/83/CE[35] e in America alle regole stabilite dall'FDA[36].
Il brevetto per la produzione o l'applicazione clinica di un farmaco decade dopo circa 15-20 rendendolo producibile anche da case farmaceutiche diverse da quella che ha depositato il brevetto previa autorizzazione dell'autorità competente.[15] Il farmaco equivalente è un farmaco che ha principio attivo, forma farmaceutica, via di somministrazione, modalità di rilascio, dosaggio, numero di unità posologiche e dosi unitarie uguali a un farmaco di riferimento (“di marca”) a cui è scaduta la copertura brevettuale.[37]
Tale prodotto per via della concorrenza, dei costi di ricerca non sostenuti dai nuovi produttori e di pubblicità che possono non essere necessari se il prodotto gode di un ampio mercato, consentono una riduzione del prezzo al cliente finale che si assesta fino a una media del 30%. Vige il vincolo di legge che il generico di un medicinale di marca oltre ad avere lo stesso principio attivo deve essere bioequivalente: ovvero possedere le stesse capacità curative, deve liberare le stesse quantità di farmaco nel tempo e deve raggiungere le stesse concentrazioni ematiche rispetto al farmaco di marca con uno scarto che non può essere superiore al ± 20%. Meno nette sono le specifiche sulla percentuale e la tipologia di eccipienti usati.[15]
La produzione di un farmaco può richiedere anni di ricerche molto costose, che non necessariamente portano ad un risultato commerciale. Possono tradursi in sostanze inefficaci contro una malattia, o in un farmaco che ha eccessivi effetti collaterali, e del quale le autorità sanitarie non autorizzano l'immissione in commercio. La ricerca e innovazione è associabile a un notevole esborso finanziario e a dei rischi, per i quali chi investe richiede un'adeguata remunerazione. Il cosiddetto leader di mercato sostiene tali costi, che invece sono evitati da quanti imitano prodotti già presenti in commercio (follower). Il premio Nobel Joseph Stiglitz ha evidenziato come:[38]
«la maggior parte delle case farmaceutiche spende molto di più in pubblicità che per la ricerca, più per la ricerca sui lifestyle drugs che non sulle cure delle malattie vere e proprie, e quasi nulla per la ricerca sulle malattie prevalenti nei Paesi più poveri, come la malaria o la schistosomiasi.»
Nel settore farmaceutico i brevetti rappresentano la forma di protezione della proprietà intellettuale più importante, ma ne esistono anche altre. Nel settore R&D e sul mercato queste includono:[39]
In alcuni Paesi la protezione brevettuale è disponibile per i prodotti farmaceutici, i processi di produzione, i protocolli terapeutici, i dosaggi, l'utilizzo del farmaco per specifiche malattie, imballaggio e trasporto, in alcuni casi addirittura per i suoi metaboliti. In altri invece risulta più restrittiva.[39] Nelle normative occidentali, la concessione del brevetto, in particolare per i salvavita, non è subordinata alla determinazione del prezzo secondo un criterio orientato ai costi. L'introduzione di un monopolio legale può quindi garantire alle case farmaceutiche non solo un equo ripagamento dei costi di ricerca e sviluppo con un adeguato margine di guadagno, ma profitti largamente al di sopra di quelli possibili in un mercato concorrenziale.[40]
La pressione concorrenziale porta la maggior parte delle aziende farmaceutiche a richiedere il brevetto molto presto, nonostante i lunghi tempi d'approvazione. Per questo motivo in alcuni Paesi dell'OECD si possono ottenere proroghe al termine standard di 20 anni. La forza della protezione brevettuale di ciascun prodotto a livello nazionale è anche affetto dall'interazione tra le leggi locali in materia di protezione della proprietà intellettuale e il diritto commerciale. Ciò risulta particolarmente importante nel caso dei medicinali visti i costi relativamente bassi di trasporto in relazione al costo del prodotto stesso e il fatto che la capacità produttiva di alta qualità è geograficamente concentrata.[39]
La gestione corretta delle terapie e il rispetto della regola delle 5G sono spesso supportati nelle farmacie ospedaliere dal cosiddetto sistema della dose unitaria. Qui i farmaci vengono riconfezionati in dosi unitarie, indipendenti dal paziente. Nel processo di riconfezionamento, completamente automatizzato, su ogni dose unitaria vengono stampate le informazioni relative al farmaco nella confezione originale, come la data di scadenza o il numero di lotto di produzione. Il packaging in monodose impedisce la contaminazione da parte di altri farmaci e che le informazioni della confezione originale non vadano perse.[41]
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