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personaggio de "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
L'innominato è un personaggio immaginario presente ne I promessi sposi, romanzo di Alessandro Manzoni. Il personaggio è così chiamato per l'impossibilità di citarne il nome.
Innominato | |
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Francesco Hayez, Ritratto dell'Innominato | |
Universo | I promessi sposi |
Lingua orig. | Italiano |
Autore | Alessandro Manzoni |
1ª app. in | Fermo e Lucia, tomo II, cap. VIII: colloquio con don Rodrigo; I promessi sposi, cap. XIX: sull'ingresso del suo castello |
Ultima app. in | cap. XXIV |
Editore it. | 1827 Vincenzo Ferrario, Milano; 1840 Redaelli e Guglielmini, Milano |
Caratteristiche immaginarie | |
Sesso | Maschio |
«Di costui non possiamo dare né il cognome, né il nome, né un titolo, neanche una congettura sopra niente di tutto ciò [...] per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore [...] colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de' nostri autori, saremo costretti a chiamare l'innominato.»
L'innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. È il potente signore a cui don Rodrigo si rivolge per attuare il piano di rapire Lucia Mondella. Figura malvagia ma preda da un certo tempo di una profonda crisi spirituale, che lo porta a non riconoscersi più nelle sue malefatte, l'innominato coglie nell'incontro con Lucia un segno, una luce che lo porta alla conversione; solo in un animo simile, senza vie di mezzo, una crisi interiore può portare a una trasformazione completa.
Durante la notte in cui Lucia è prigioniera nel castello, la disperazione dell'innominato è talmente forte da fargli desiderare il suicidio, ma ecco che la Divina Provvidenza e le parole di Lucia lo salvano e gli mostrano la via della misericordia e del perdono. La sua conversione giunge dopo la notte angosciosa, infatti quel giorno arriva nel suo paese il cardinale Federico Borromeo, personaggio storico. La scelta di Manzoni del personaggio per attuare la conversione non è certamente casuale: infatti solo un uomo di una grandissima bontà come il cardinale può redimere l'innominato.
Come dichiarato dall'autore stesso al termine del capitolo 24, le fonti storiche del Ripamonti stesso riferiscono che l'uomo si sia convertito dopo un lungo colloquio con il porporato. Nel romanzo, i due personaggi si possono considerare, per certi aspetti, come opposti. Dopo la conversione l'innominato cambia completamente e coglie al volo l'occasione per far del bene in maniera proporzionata al male che aveva fatto. Il personaggio dell'innominato e il suo "castello a cavaliere di una valle angusta e uggiosa" con la relativa ambientazione (capitolo XX) richiamano le tetre, cupe immagini del romanzo gotico del Settecento in cui era solitamente presente la figura della giovane innocente perseguitata da un tiranno malvagio, eroe del male.[1][2]
Presenta volontà indomabile, desiderio e ricerca di solitudine, orgoglio e amore d'indipendenza, malvagità dovuta ad arroganza e fierezza, ma nata dallo sdegno e dall'invidia verso le tante prepotenze a cui assiste. Non si compiace della scelleratezza e tiranneggia per non essere tiranneggiato.[3] Il castello dell'innominato presenta una solitudine eccelsa di paesaggio e d'anima. Il paesaggio è singolare e fa da sfondo alla vicenda eccezionale: si tratta di un paesaggio d'arte e fantasia. La personalità dell'innominato impronta di sé tutta la realtà circostante e il paesaggio è un'introduzione psicologica alla vicenda. L'atmosfera del castello è mitica e all'altezza dei luoghi corrisponde un'elevatezza d'animo. L'alba che precede la conversione mostra una liberazione vicina, "un colore di travaglio e di mortificazione che è il colore stesso della natura e della vita. [...] Presenza silenziosa e operosa di un Dio che non è solo testimone ma artefice".[4]. Attilio Momigliano[5] evidenzia bene l'evoluzione dell'animo del personaggio, la solitudine dell'anima nelle tenebre della notte ed il travaglio del rinnovamento. Nel contrasto fra io antico e nuovo egli prova una "non so qual rabbia di pentimento" e Lucia Mondella è un'immagine presente di condanna e di perdono. Luigi Russo[6] sottolinea che nella non resistenza di Lucia, l'innominato vede come l'immagine temuta della morte che viene sola e disarmata, senza che le si possa opporre nulla. Dinanzi alla fanciulla il più debole è lui. Ad un certo punto egli non discorre più con Lucia ma con il suo fantasma interno di Dio. Egli attua una ricerca sgomenta di un nuovo sentiero di vita, prova orrore delle memorie di una vita scellerata.
Il pensiero della morte ed il confuso presentimento dell'oltretomba scavano nel suo animo in cui gli pare di sentire una voce che dice "Io sono però" (cap. XX). Avverte una misteriosa presenza e diviene consapevole della propria effimera potenza. Poi inizia l'ascensione dello spirito dell'innominato: il terrore nella notte della conversione, a mano a mano che la sua coscienza si profonda, la sua angoscia si fa opprimente. Il ricordo delle parole di Lucia ("Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia") è un avvertimento di cui l'anima non sa precisamente l'origine. Nella sua mente si accalcano il pensiero del futuro e la memoria insopprimibile dell'io di un tempo, l'orrore delle memorie di una vita scellerata.
Dopo gli ultimi ondeggiamenti dell'anima, l'innominato giunge all'alba di redenzione, alla palingenesi spirituale e al rischiararsi dell'anima corrisponde un rischiararsi del paesaggio in un profondo sentimento religioso della natura. Il cielo, i monti, gli uomini, accompagnati dalla musica d'indeterminata speranza del suono delle campane, partecipano alla redenzione di un'anima.[7] La crisi spirituale dell'innominato, descritta alla fine del XXI capitolo, passa attraverso fasi progressive:
Tra l'aprile e il settembre del 1832 fu pubblicato sull'Indicatore un commento di Cesare Cantù a I promessi sposi; nella parte dedicata all'innominato egli indicò la fonte di ispirazione per il personaggio in Francesco Bernardino Visconti (1579-1647 circa) dei Visconti di Brignano.[8] Questa famiglia aveva ascendenti comuni con la famiglia Visconti di Saliceto, a cui apparteneva la nonna paterna di Giulia Beccaria, madre di Manzoni.[9]
Il nome gli venne fornito dallo stesso Manzoni.
«L'Innominato è certamente Bernardino Visconti. Per l'aequa potestas quidlibet audendi[10] ho trasportato il suo castello nella Valsassina. La duchessa Visconti si lamenta che le ho messo in casa un gran birbante, ma poi un gran santo.»
Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Gera d'Adda, era indicato come bandito insieme ai suoi bravi in una grida del 10 marzo 1603[12] (ripetuta poi il 30 maggio 1609 e il 2 giugno 1614[13]).
Come riportato anche dal Cantù, Manzoni utilizzò per creare il personaggio anche la conversione di un malfattore operata dal cardinale Federico Borromeo, avvenimento riportato sia nella biografia dell'arcivescovo scritta da Rivola sia in una cronaca di Giuseppe Ripamonti; in questi testi, citati brevemente nel capitolo XIX, non era indicato il nome del bandito, ma Manzoni pensò di poterlo identificare con Bernardino Visconti.[14]
«Viveva in un certo castello confinante col dominio di straniero principe un signore altrettanto potente per ricchezza, quanto nobile per nascita, il quale datosi ad ogni maniera di misfatti, opprimeva con la sua potenza quando l'uno quando l'altro degli abitatori, arbitro facendosi degli altrui affari sì pubblici come privati, e minacciando anzi offendendo chiunque ai suoi cenni ardito avesse di contrariare, in tanto che fatto era terrore di tutti quei contorni. Giunto in quelle parti Federigo la sua diocesi visitando, volle con esso abboccarsi per veder pure di distorlo dalla mala vita e di ridurlo a porto di salute: e tanto disse rappresentandogli con pastorale zelo il suo stato miserabile, e il pericolo d'eterna dannazione, che lo dispose all'ammenda: e fece sì che da quel giorno innanzi, con meraviglia di quanti erano de' suoi depravati costumi molto ben informati, deposta ogni presuntuosa alterigia e ferocia, tutto mite, piacevole ed ossequioso verso di tutti dimostrossi, né fu mai più alcuno che di un minimo suo eccesso potesse ragionevolmente dolersi.»
«Memorabo casum unius, qui procerum urbis quum haud sane ultimus esset, rura sibi urbem fecerat, ac magnitudine facinorum, iudicia, iudicesque, et fasces ipsos, imperiumque contemnebat. Posito in extremis provinciae finibus domicilio, solutam quamdam ac sui iuris vitam agebat, receptator exulum, et exul aliquandiu ipse, postea redux, eo usque progressus ut externi Principi uxorem, cum ad maritum sponsa deduceretur, raperet, sibique haberet, et iusto denique matrimonio iungeret; et nuptias illas innuptas celebrari nostra aetas vidit. Domus erat illa velut cruenta officina mandatorum, capite damnati servi, et capitum obtruncatores: non coquo, non aquariolo cessare licitum erat; pueris inbutae sanguine manus, et facili in Caenomanos, Bergomatesque transitus, tanto magis contumax adversus edicta, maiestatemque imperii huius familia tota erat. Herus ipse cum solum aliquando, nescio qua de causa, vertere statuisset, adeo modeste id, adeoque occultus trepidusve fecit, ut per medium urbem tum suis canibus, haud sine tubae etiam sonitu, transveheretur, regiaeque ipsi obequitaret, ac regio gubernatori dicenda convitia portae custodibus in transitu mandaret. De hoc homine fama erat tamquam domitis etiam adversus Ecclesiae leges et mysteria fraenis, in praecipitia penitus ac derupta abiret. Sicut ingenia eiusmodi sunt, numquam id obiisse mysterium aiebant ut peccata confiteretur. Voluit iste accedere ad Cardinalem, cum haud procul terribili domicilio, visitationis ordine, incessuque constitisset. Facile, benigneque admittitur. Duas amplius horas in colloquio retentus est. Quae dicta fuerint haud sane comperimus, quia neque Cardinalem interrogare quisquam nostrum super ea auderet, neque alter ille quicquam est effatus. Tanta certe mutatio repente facta est animi et vitae, morumque illius, ut mirifica et magna et nova res ad colloquii virtutem et efficaciam haud dubie referretur, opusque Cardinalis id familia tota illa gladiatorum agnosceret ac, velut erepta sibi stipe, detestaretur. [...] Vidi paulo post eum virum in cruda adhuc viridique senecta, nihil ex pristina ferocia retinentem praeter vestigia et notas, quarum argumento natura unumquemque nostrum insiti vitii reum facit.»
«Narrerò il caso di uno, che non ultimo fra i magnati della città, preferì a questa la campagna, e colla gravezza de' misfatti bravava giudici e giudizi e leggi e maestrati. Posta sua dimora al lembo della provincia milanese, traeva una vita sciolta e di sua testa, raccettatore di fuorusciti, fuoruscito alcun tempo egli stesso, finché tornato, avvanzossi a tanto, che menandosi a marito la sposa di un principe straniero, la rapì, se la tenne e la fe' sua con nozze illegali. Era sua casa come un'officina di crudeli mandati: per servidori gente tutta di sangue e di corrucci: né il cuoco né il guattero poteano star senza delitti: fin i ragazzi aveano le mani contaminate di strage. E poiché di là gli era facile il tragitto a Bergamaschi e Bresciani, la costui famiglia era contumace contro gli editti e la maestà dell'impero. Avendo una volta quel signore a mutare di paese per certi perché, tanto modesto, occulto e pauroso lo fece, che fendé diritto tutta la città con cani e cavalli a suon di trombette, passando proprio innanzi al palazzo reale, anzi alle porte lasciando un'imbasciata di villanie pel governatore. Correa fama che avesse rotto ogni freno anche della Chiesa e de suoi misteri, e che mai non si fosse confessato. Ora costui volle presentarsi al cardinale Federigo una volta che questi erasi nella visita fermato non guari lontano dal suo terribile covo. Viene cortesemente ammesso: due ore buone rimane a colloquio. Che siasi detto nol seppimo giammai, perché né alcuno di noi osò interrogarne il Cardinale, né colui ne disse verbo. Certo però successe tal mutazione d'animo, di vita, di costumi, che quella grande e portentosa novità si attribuì senza paura d'apporsi falso, all'efficacia dell'abboccamento: e tutta quella famiglia di scherani la riconosceva opera del Cardinale, e gliene voleva il maggior male, quasi le avesse tolto il pane di bocca. [...] Alcun tempo dopo io vidi colui in vecchiezza cruda e rubesta ancora, non conservar della primitiva ferocia altro se non i marchii onde le abitudini improntano sul volto l'indole di ciascuno.»
Per Manzoni la "casa" perciò era il palazzo di Brignano d'Adda, dimora di Bernardino Visconti; l'idea gli fu forse suggerita da un soggiorno a Treviglio in visita a Tommaso Grossi.[18]
Alcuni particolari forniti dal Ripamonti porterebbero però ad escluderlo come possibile protagonista di questo racconto, in particolare per le nozze (Bernardino Visconti non si sposò); Giulio Scotti, sulla base di documenti dell'Archivio di Stato di Milano, riteneva che il personaggio storico indicato dal Ripamonti fosse in realtà il fratello Galeazzo Maria Visconti, anch'egli protagonista di malefatte e bandito.[19]
Nel Fermo e Lucia (prima redazione), l'innominato era chiamato "Il Conte del Sagrato", in riferimento ad uno dei suoi tanti omicidi, avvenuti appunto sul sagrato di una chiesa. In seguito pare che Manzoni ne cambiò il nome poiché questo in un certo senso ne immiseriva la condizione titanica e ribelle, rimandando allo squallore di un omicidio.
Tra i luoghi manzoniani al confine tra Vercurago e Lecco, rispettivamente nelle frazioni di Chiuso e Somasca, è presente il castello dell'innominato, una fortificazione costruita su un dirupo in una posizione che domina la strada che collega Bergamo a Lecco e il sottostante lago di Garlate. Del forte rimangono una torre, una cappella e parti delle mura.
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