Vittorio Sermonti (1929 – 2016), scrittore, traduttore, regista televisivo e di teatro, e dantista italiano.
Citazioni in ordine temporale.
- Non ti vergogni, tu che sei romano, a stare per la Juventus? mi diceva sempre una zia di Milano che non stava per nessuno. No, non mi vergogno. [...] Prediligo gli umili e i modesti, coltivo le mie sofferenze e mi struggo per quelle degli altri, amo gli sconfitti. Ma il caso ha voluto che, poco più che neonato, io sia stato tradotto per la prima volta a una partita di calcio, in capo a un interminabile periplo sulla Circolare Rossa, sui tavolacci del vecchissimo Testaccio. Il pubblico urlava all'arbitro e al nemico elaborati improperi che oggi mi sembrerebbero madrigali, ma allora, neonato, mi parvero improperi. Il nemico era una squadra mesta ed elegante, con l'ala destra calva, il centrosostegno arrembato e claudicante, una mezzala fragile e pallida come un re sotto il patibolo, grassoccio il portiere. Vestiva braconi bianchi, calzettoni neri con due rigoline bianche, maglia bianca a strisce nere. Si chiamava in latino. Giocava maluccio. Il pubblico infieriva. Imperversavano "i nostri" rosso-vino e giallo-mandarino. La squadra a strisce perse per tre a zero. Fingo il lirismo dell'amnesia. In realtà, senza aver mai prodotto il minimo sforzo per ricordarmele, ricordo con precisione inappellabile le formazioni delle due squadre, chi portava le cavigliere sopra i calzettoni e chi no, l'odore inebriante del fumo di migliaia di sigarette nell'umido pomeriggio d'inverno, le grida di dileggio dei miei compaesani, la mia malinconia e la mia tenerezza. Per gli sconfitti. Ho aspettato tutta un'adolescenza, una guerra, una ricostruzione, la consumazione di un primo amore e anche di un secondo, insomma quattordici anni ho aspettato perché quell'elegante endecasillabo di sconfitti a strisce mi vincesse un campionato. Da allora — ammetto — me ne ha vinti parecchi. E io continuo ad amare sconfitti che continuano a perdere. Ma nell'angolo appartato e secondario del mio cuore che concedo alla trivialità del "tifo per lo spettacolo sportivo" mi sia consentito (anche perché me lo consento io) di amare anche questi sconfitti che vincono.[1]
- La "Commedia" non è un'opera, è un lungo monologo che mette il lettore di fronte a scelte radicali legate alla tragedia dello stare al mondo e alla speranza di salvezza.[2]
- [«Consiglia una fuga dal presente?»] Non ho nulla contro il presente. Anzi, frequento pochissimo la nostalgia, che è paura-odio del presente. Ma non amo il "presentismo", ovvero l'ideologia del presente. Abbiamo rubato alla teologia l'idea di un presente assoluto, eterno, immutabile. I classici invece sembrano farci capire che dopo la centomillesima generazione di iPad potrebbero tornare i dinosauri. Insegnano la ciclicità della storia. Sono la promessa di un futuro sconosciuto. [«E allora cos'è il diritto all'anacronismo?»] Il diritto all'imprevedibilità delle nostre vite. La consapevolezza che nessuna identità è fissata per sempre. Le identità, individuali o collettive, sono dinamiche, in continua ridefinizione. Bisogna sfuggire sia alla presunzione di sapere chi siamo sia alla fissazione di non poter essere altro.[3]
- È detestabile questo riconoscersi e dividersi per branchi generazionali, dove la tua identità si fonda sull'appartenenza a una generazione. Non mi pare sia un segno confortante: il culto della gioventù è apparso sempre in epoche molto sinistre.[3]
Da un'intervista a la Repubblica, luglio 2013; ripubblicato in Antonio Gnoli, repubblica.it, 24 novembre 2016.
- Credo fosse il 1954. Avevo lasciato da poco la Rai, dove ero stato assunto nel 1950 come giovanissimo funzionario al Terzo programma radiofonico. C'era gente interessante allora. Mi capitò di intrattenere rapporti di scontrosa familiarità con personaggi anche notevoli, come per esempio Gadda. [«L'aneddotica su di lui è vasta»] È vero, potrei dirle che c'erano certi giorni in cui si trascinava nei corridoi tirandomi per la giacca e dicendo cose irripetibili su alcuni suoi colleghi. Ma al di là di ciò dava l'impressione di essere un uomo misterioso, che arrivava da un buio antico, da un dolore indicibile che ha prodotto uno stile ecumenico. Senza ombra di dubbio è stato il più grande scrittore italiano del '900. [«Come argomenterebbe questa affermazione?»] Sentì più di ogni altro la carenza di vocalità dell'italiano. Avendo l'italiano poca voce, necessita del supporto del canto o del dialetto. Ma Gadda non era uno scrittore dialettale. Inventò una lingua vocale che si appoggiava ai dialetti. Si comportò come Dante con la Commedia. Che dopo aver detto che tutti i dialetti fanno schifo, che non ce ne è uno che valga "la pantera profumata del volgare illustre", scrive utilizzando di tutto: desinenze, calate, strutture sintattiche delle parlate che conosceva e perfino di quelle che gli erano ignote.
- [«Le piacciono gli scrittori italiani?»] Ho avuto rapporti ottimi con grandi lettori, con i dantisti, con i musicisti e con la gente comune. Meno con gli scrittori, una categoria che mi annoia terribilmente. [«A parte Gadda?»] A parte lui, ho ammirato il rigore di Calvino e la moralità di Pasolini. Il quale scrisse cose notevolissime, ma non certo nei suoi romanzi. Fu un impasto singolare di contraddizioni: un narciso terribile, affetto da masochismo eroico, ma anche dotato di un coraggio morale raro in Italia. Però non mi era simpatico, come non lo ero io a lui. Mi considerava un borghese. Con l'aggravante di aver sposato in prime nozze una figlia di Susanna Agnelli.
- Mi mantengo dall'età di 19 anni. Da ragazzo ho sperato nella musica. Ho cominciato a suonare il pianoforte a 16 anni ma non avevo talento. O non abbastanza. Ho fatto altro. Riuscendo anche molto bene: ho tradotto, ho commentato, ho scritto libri. Racconti, romanzi, libretti. Ho amato la poesia, la musicalità che essa esprime. Quando voglio parlare bene di essa dico che è il contrario della pornografia. [«L'opposto dell'osceno?»] La pornografia stabilisce un rapporto di desiderio tra un puro soggetto e un puro oggetto. Il mio desiderio che si accende in me per un iPad, una velina, una Smart è il desiderio per qualcosa che non mi desidera. Invece la circolarità del desiderio è la proprietà del linguaggio poetico che si svolge in falde della persona anche molto segrete. Questa distinzione mi consente di definire che cosa sia per me la volgarità. [«Viviamo tempi molto volgari?»] Spudoratamente volgari. Senza vergogna alcuna. Ma ogni generazione ha le sue plebi. Imbecilli ci sono sempre stati, dappertutto, tra i vecchi e tra i giovani.
- [«Internet è un fattore di crescita?»] Siamo dentro una grande rivoluzione culturale, non c'è dubbio. Ma quelle che adoperiamo sono tecnologie belliche che non potendo essere utilizzate in una guerra globale, vengono rivolte contro noi stessi. Creano desideri indotti che diventano bisogni. Sospetto che dopo l'ennesima e sofisticata realizzazione algoritmica, torneranno i dinosauri. Mi creda, la globalizzazione mondiale sta creando suscettibilità molto provinciali.
Canto I
- La candida pretesa di leggere questo libro come si legge un'antologia di emozioni liriche, di leggerlo, diciamo così, col cuore (e se non si capisce subito, pazienza), è forse una pretesa un po' gretta: anche il cuore, infatti, ha i suoi pregiudizi e una saccenteria. (p. 4)
- Selva così amara, che la morte non è molto più amara. Quale morte? La morte eterna dell'anima, cui approda un lungo bighellonaggio nel peccato? o anche la morte corporale, che Dante aveva avuto circostanziati motivi per temere negli anni intercorsi fra la data del viaggio oltremondano e il giorno in cui scrisse questi versi? Diciamo pure: la morte (che non è dir poco). (p. 5)
- In Francia, ai passaggi a livello di campagna, un cartello ammonisce: «Attention! Un train peut en cacher un autre». Le allegorie non sono meno pericolose dei treni. Raccomandiamoci la massima prudenza specie all'inizio di una viaggio interminabile. Cerchiamo di stare ai fatti. (p. 8)
- Perdonate la miseria delle parafrasi e la farraginosa carenza delle chiose, Ma per tentare di orientarsi nel labirinto di questi versi - insieme proverbiali ed arcani - forse non c'è che leggere sino alla fine il gran libro, il libro-mondo al quale preludono. (p. 13)
Canto II
- Dante sta avviando un canto magistralmente ordito di retorica: diciamo pure, il canto della Retorica Celeste. (p. 19)
- Il racconto scorre più soave e piano che mai, ma riflettiamo un attimo alla incredibile sofisticazione del congegno espositivo: Dante, insomma, ci sta dicendo che in un'oscura costa Virgilio gli ha detto, che nel Limbo Beatrice gli ha detto, che nell'alto dei cieli Lucia gli ha detto, che la Madonna le ha detto di correre in soccorso di Dante... (p. 26)
Canto III
- Fatto è, che in nessun altro canto come in questo (e nel successivo) Dante si tiene tanto addossato al suo Virgilio: Non si contano i versi che meriterebbero di esser letti con il testo del VI libro dell'Eneide a fronte. Meriterebbero: infatti, le variazioni che Dante apporta nel travaso da lingua a lingua, da cultura a cultura, minime spesso, sono sempre, comunque, decisive. (p. 37)
- Polifonia sgangherata della dannazione. Dalla turba dei dannati che ondeggia nel buio non s'alzano due voci che s'accordino. Ognuno soffre per sé. La solitudine è l'estrema sanzione della pena. (p. 38)
Canto IV
- Dante che, povero e vagabondo, verosimilmente scriveva su cartaccia, non ci ha lasciato un verso autografo, non una parola, non una lettera, e tanto meno una virgola. (p. 53)
- [...] non c'è canto della Commedia così gremito di nomi propri: 48, uno ogni tre versi. (p. 53)
- In termini generali, resta il fatto che Dante Alighieri relega in questo lembo appartato dell'inferno [il limbo] tanti spiriti magnanimi solo perché non ebber battesmo, perché l'acqua del battesimo, cioè, non li ha lavati del peccato originale. Intolleranza? integralismo? fondamentalismo? Il lessico corrente non sembra fornire altre sigle. Tuttavia, se appena riflettiamo a quanta insofferenza razziale e culturale ci consente la sinecura della nostra conclamata e obbligatoria e distratta tolleranza, dovrebbe almeno turbarci l'onore che Dante rende, senza la minima discriminazione di cultura e di razza, alle grandi persone che il «integralismo» condanna irrevocabilmente. (p. 56)
- Il peccato originale, la colpa senza responsabilità, il male irredento e innocente di esser venuti al mondo condannati a morte, magari fosse una vecchia intimidazione di secoli bui! È il buio che ci portiamo dentro tutti. E la pietà che Virgilio prova per i suoi compagni di pena e Dante prova per Virgilio, è forse la pietà che tutti ci meritiamo nascendo. (p. 59)
Canto V
- Con meticolosa rabbia di vendetta, [Minosse] applica sentenze di morte eterna irrogate da una Legge, della quale ignora i disegni (e che ha condannato anche lui). Mansione improba ma, diciamocelo, priva di qualsiasi maestà ("cotanto offizio" forse non significa altro che "quel po' po' di lavoro"). (p. 67)
- Quanti racconti, invece, condivideva Dante con gli osti e i tintori suoi contemporanei! L'intelligenza psicologica, la moralità, il comune sentimento della storia e della vita si abbeveravano nel Medioevo avanzato ad una inesauribile falda di narrazioni. (p. 69)
- Un mareggiare di storni. Nel mareggiare, una riga di gru (la schiera ov'è Dido, forma franco-latina di "Didone"). Dalla riga di gru si staccano ora, come colombe che planino verso il nido portate dal desiderio, i due [Paolo e Francesca], tratti dalla forza dell'appella affettuoso. E parlano. Con la voce di lei. (p. 70)
- Ma è mai possibile che la relazione adulterina che costerà a Paolo e Francesca morte violenta e pene dell'inferno, sia durata, dalla prima radice alla catastrofe, il tempo di un bacio lasciato a metà? Sembra francamente più sensato supporre che il verso memorabile si riferisca al fatto che, da quel giorno, i due abbiano accantonato le perlustrazioni letterarie sul tema dell'amor cortese, per abbandonarsi alle corvées della passione. (p. 73)
- [Dante] addita la letteratura come ruffiana. (p. 73)
- All'inferno nessuno ha rimorsi, fuorché Dante; tutti, semmai, hanno rimpianti. (p. 74)
- Per quanto costi di tormento a Dante-pellegrino abiurare ai dolci pensieri in rima della propria adolescenza [...], il sacro scrivano della Commedia crede di sapere, sa, che in eterno non si può amare che l'Eterno. E solo una fede così dura gli consente di cantare questo morbido, rapinoso ed estremo canto d'amor profano. (p. 74)
Canto VI
- Se il Cerbero del mito classico è fratello dell'Idra, questo è un cugino declassato delle Arpie. Anche lui terrorizza con lo schifo che fa. (p. 82)
- Ma le sue [di Cerbero] frenesie di cane che trema e digrigna arrapato dalla golosità (non avea membro che tenesse fermo) lo rendono anche un po' ridicolo, e sanzionano in eterno la sua promiscuità con i dannati che graffia e trincia, dannato anche lui, cagnaccio antropoide su un pattume di uomini che urlano come cani, demonio da almanacco popolare, viscido e truce. Né, francamente, le sue funzioni di trinciacarni hanno più molto di inappellabile e di sacro... (p. 82)
- Il peccato di chi si abbrutisce al servizio del proprio apparato digerente, gorgogliando di delizia, gli appare, appunto, non maggiore di altri, ma più repellente e umiliante di qualsiasi. Chissà se oggi non caccerebbe sotto quel diluvio di fanghiglia, per depravazione simmetrica, anche quelli che, golosi di sé, praticano il tetro ascetismo delle diete integrali. (p. 85)
Canto VII
- [...] le parole sono tre: "pape" o "papé", "Satan" e "aleppe". E per "Satan" non dovrebbero esserci problemi. "Pape (alla latina, o "papé" alla greca) potrebbe essere l'interiezione di stupore e stizza, attestata dai comici antichi, che sta più o meno per l'"ohibò" dei nostri nonni (oggi pratichiamo interiezioni un po' più genitali). (p. 98)
- Ma se, come fa qui, il poema mette in rima parole che hanno funzioni completamente diverse, come "urli" (sostantivo), "pùr li (gruppo avverbiale) e "burli" (verbo), oppure "giosta", "dimostra" e "nostra", la rima turba le simmetrie, e il discorso poetico non si assesta nel verso ma, per così dire, ritola giù di verso in verso incespicando nella rima e accelerando a scatti. Strano effetto dinamico, che si percepisce anche se non si nota. (p. 100)
- E se l'Ottocento diffidò di questo canto, dove trovava «il descrittivo» ma non «il drammatico», sarà anche perché non praticava le euforiche mortificazioni della società affluente, i processi di identificazione collettiva nei simboli del consumo, e tanto meno (se possiamo permetterci la spudoratezza dell'anacronismo) la coazione all'improperio, alla rissa, allo scontro frontale che tiranneggia il nostro Sisifo di massa negli ingorghi di traffico. (p. 102)
Canto VIII
- Nelle brume di questo quinto cerchio, [Flegias] saettante e impalpabile sagoma di fuoco ("flego", greco, e "flagro", latino, significano "incendio, ardo"), sarà emblema flagrante della pazza collera di vendetta. (p. 113)
- Certo è che nel calibratissimo congegno teatrale dell'episodio di Filippo Argenti si sprigiona una violenza sbalorditiva. (p. 115)
- Anche se non tutti i competenti han creduto di doversi scandalizzare per il comportamento inopinato del pellegrino (che pur si era lasciato commuovere dalle pene di quel lubrico egoista di Ciacco), quasi tutti hanno osservato come il bersaglio di tanta collera appaia troppo piccolo e volgare per la magnanimità dell'Alighieri. Basta a sanare la sproporzione l'ipotesi di un circostanziato rancore personale? [...] Forse. Perché escluderlo? Dante lo sapeva. Ora Dio solo lo sa. (p. 117)
- Il pellegrino, annientato dal terrore, pare cercar sollievo di speranza nella scrittura che lo scriverà. (p. 119)
- Ma questo esercito di diavoli piovuti dal cielo e dalle pagine dei Padri della Chiesa, dagli affreschi di basilica o di camposanto e dalle fobie del popolo cristiano, lo rintuzza [Virgilio] e lo mortifica. (p. 120)
Canto IX
- Sappiamo che il viaggio si consuma in un tempo storicamente determinato (la primavera dell'anno 1300). Il tempo in cui l'Io racconta è, invece, il presente fittizio della scrittura: è il tempo, insomma, in cui Dante Alighieri "finge" di scrivere il poema sacro, abilitato dalla percezione del Creatore. Ma, contemporaneamente, ogni volta che chiunque dà voce a quei versi, è il presente di cui vive chiunque. Il Tu cui quell'Io si rivolge, di tratto in tratto interpellandolo espressamente, è il lettore. Ma il lettore che ad alta voce dice "pensa, lettor" sta pronunciando parole di un monologo profetico in cui l'attimo e l'atto stesso della lettura sono profetizzati come simultanei all'atto e all'attimo della scrittura, nell'immanenza assoluta del presente di Dio, nella "onnipresenza" di Dio. (p. 131)
- Qui non si tratta di una serie di situazioni drammatiche intercalate da brani narrativi e da considerazioni dottrinali, ma di un'unica struttura monologante e profetica, entro la quale e in ordine alla quale dialoghi, racconti, figure, considerazioni ardue e spesso mal decifrabili assumono il rilievo, il dinamismo appassionato, la maestà che da secoli soggiogano e trascinano chiunque si faccia uscir di bocca il suono di quei versi, si lasci intrappolare in quell'Io febbrile e supremo. (p. 132)
- E con quest'allusione pesante alla favola di Ercole [...], il messo celeste tronca il discorso, si gira e si riavvia per il cammino fangoso, senza rivolgere parola ai due poeti, col piglio di persona incalzata da ben altro pensiero che non quello di chi gli sta fra i piedi. (p. 133)
- Non sono l'unico ad aver perso il padre, ma il solo ad aver perso Vittorio Sermonti. (Pietro Sermonti)
- ↑ Da Forza Roma, forza Juve, l'Unità, 10 maggio 1981, pp. 1, 20.
- ↑ Citato in Poeti e Poesia, Rivista internazionale, anno IV, n. 3, dicembre 2000, Pagine, Roma, p. 3.
- 1 2 Da un'intervista a Panorama; citato in Giorgio Ieranò, È morto Vittorio Sermonti. Che sosteneva: "Essere fuori moda vi farà vivere meglio", panorama.it, 24 novembre 2016.
- Vittorio Sermonti, L'Inferno di Dante, a cura di Gianfranco Contini, Rizzoli, 1988. ISBN 9788817857253