scrittore, alpinista e scultore italiano (1950-) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Mauro Corona (1950 – vivente), scultore, alpinista e scrittore italiano.
Dalla vetta non si va in nessun posto, si può solo scendere.[1]
Ecco perché io non mi piaccio, non tanto per i miei difetti, che sono una gran parte della mia vita, ma non mi piaccio per quello che non ho ricevuto da bambino. C'è un bel libro, di cui non ricordo l'autore, che si intitola "La ferita dei non amati". Tu non puoi mettere al mondo figli e lasciarli senza mangiare, picchiarli, legarli al palo. Mio padre ci legava un palo. Mi sono sentito inopportuno nell'esistenza umana. Io non dovevo esserci e questo me lo porterò nella tomba. Ho cercato di risolvere, come ho detto poc'anzi, con scrivere, leggere, soprattutto scolpire tronchi, scalare le montagne [...]. Ma non ho risolto nulla, ho solo attenuato il pensiero di non volere esistere in questo mondo.[2]
[Mario Rigoni Stern] Era uno di questi "larici", in questo mondo di fretta, in questa società dove non c'è più tempo libero per se stessi, non c'è più niente, solo una corsa frenetica, uno spreco di cose, uno spreco di oggetti, senza più equilibri: c'è chi ha troppo, c'è chi ha nulla; lui era l'equilibrio. Rigoni Stern era come la pietà di Michelangelo: io non l'ho mai vista, ma sapere che c'è mi allieta i giorni. Ecco, Rigoni Stern era questo, era l'equilibrio faticoso e duro che ha vissuto lui, ma sereno, di una certa serenità se si toglie la guerra.[3]
La vita va affilata giusta se vuoi che funzioni, se vuoi che tagli le difficoltà non deve essere né troppo stesa né troppo conica, se no non vai avanti. La mola che affila le nostre vite è l'educazione, i valori dati da una buona educazione sono importanti, ma più importante è l'inclinazione. Chi ci dà l'educazione deve premere la vita sulla mola con l'inclinazione giusta, altrimenti sbaglia filo e con il filo sbagliato i giovani non tagliano le difficoltà, ma si rompono.[4]
Nel tranquillo e ordinato branco sociale i "diversi" si notano immediatamente e irritano l'acuto senso estetico dei vigili custodi dell'armonia del mondo. Allora si provvede ad emarginarli, isolarli, abbatterli poiché essi emergono come fastidiose protuberanze nel piatto mondo degli arrivati. E così l'uomo, orrendo essere pensante e malvagio, s'arroga il diritto di decidere vita e morte su tutto il creato. (da Il volo della martora)
Quella nullità non chiara di Zingaretti vada a farsi consigliare dal fratello che almeno risolve i casi.[5]
Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro.[6]
«Le uniche parole che meritano di esistere sono quelle migliori del silenzio.» Eduardo Galeano ha ricordato questa frase di Juan Carlos Onetti in un'intervista. «Non solo gli scrittori, anche i politici dovrebbero imprimerselo nella mente» ancora Galeano. «Il silenzio è un linguaggio perfetto, è dura per la parola competere. Per questo anch'io riscrivo più volte un testo finché non sento che è migliore del silenzio.»
Citazioni
Noi continuiamo a non dirci le cose. Le parole non servono più ma vivono lo stesso, nascoste dentro di noi, parole praticate ma non dette. (p. 11)
Non ho un vocabolario sull'amore, ho messo giù una definizione mia, amore vuol dire accettazione totale, donazione totale, silenzio. Questo è «amore». (p. 12)
Il meccanismo, il segreto semplicissimo dell'esistenza è togliere per vedere, per avere una visione, per cui l'essenziale è produrre la vita e campare con le cose necessarie a quella funzione. E solo quelle. La vita è come scolpire, bisogna togliere. (p. 67)
Ogni volta che penso a Erto, il mio vecchio paese, quello abbandonato dopo il Vajont, con le vetuste case una attaccata all'altra e le vie di acciottolamento buie e strette, la memoria va verso l'inverno. Il primo ricordo è il tempo degli inverni, la memoria è quella della neve. Notti infinite, silenzi laboriosi, lunghi, pazienti, interrotti solo ogni tanto da sprazzi di allegria nelle feste di Natale e capodanno.
Citazioni
A quel punto ricordò e le lacrime gli rigarono il volto, che non era cambiato quasi niente in tutti quegli anni. Morì di lì a poco per stanchezza di esistere. Che non è il suicidio diretto ma un lasciarsi andare lentamente, giorno dopo giorno, guardando lontano verso chissà quale ricordo.
Si era recato lassù proprio allora per cercare il legno da fare i pifferi. Sapeva che, tagliando i frassini nella notte tra il 20 e il 21 di quel mese, gli strumenti suonavano meglio. In quella notte di primavera, tutti i boschi della Terra intonano melodie. Pare che un misterioso segnale percorra l'intero pianeta per dire agli alberi di mettersi a cantare. E quelli lo fanno, a squarciagola. Per questo, i pifferi dell'ertano e i violini di Stradivari suonavano così bene. Entrambi tagliavano le piante la notte di primavera, tra il 20 e il 21 maggio, quando i boschi della Terra cantano assieme. Il nostro compaesano aveva ricevuto dagli antenati quel segreto, che passava di padre in figlio. Lo aveva tramandato attraverso le generazioni di un antico liutaio ertano, il quale, si racconta, lo svelò per una botticella di vino a Stradivari quando venne da queste parti in cerca di abeti per i suoi violini.
La montagna è piena di segreti. Stanno nascosti per bene. Anche quando non c'è neve, restano al riparo. I boschi sono un mistero di parole: cantano ninne nanne, disegnano il vento, occultano le cose. Il vento fa cadere le foglie ma non svela i misteri. L'autunno è un vino che finisce, l'origine del vuoto. Vuoto a perdere per lunghi mesi. Vento e pioggia danno una mano, fanno pulizia, creano trasparenze.
Citazioni
Il luogo dell'infanzia brilla nel ricordo, finché la sentinella della memoria non abbandona la posizione.
Il vento portava quella polvere impalpabile dei monti, un pulviscolo di fiati, un su e giù di note. Qualcuno sfiorava i tasti della natura, suonava l'immenso pianoforte con le dita affusolate delle stagioni. Questo era il vento.
La montagna cambia tutto. Modifica, rinnova, distorce. È una forza misteriosa che resuscita i segreti, li ravviva, li sposta qua e là, come il giocatore sposta i pezzi sulla scacchiera. I pezzi sono gli uomini, che cercano le cose e ascoltano le voci. E poi le perdono, le dimenticano per strada, lungo la vita. La montagna obbliga a mosse mai fatte, convince a scelte drastiche. Possiede un dono raro, insolito fra gli uomini: fa sembrare nuovo il già noto, sconosciuto quello che si è visto per anni, ogni mattina. Questo mistero salva chi non s'arrende. Della montagna non si scoprirà mai tutto il mistero, solo particolari, o dettagli. Perché il segreto sono gli uomini e gli uomini non si svelano mai del tutto. Chi davvero ama la montagna l'affronta con umiltà e pazienza. Sa che verrà ricompensato con doni di albe nuove, sempre diverse, eppure ogni mattina le stesse.[7]
Nessun uomo può sapere che cosa cerca. I segreti vivono dentro di lui, sono le sue speranze, i suoi crucci.
La montagna si concede ma è donna difficile, molto difficile. Spesso riottosa, caratteraccio. Non si lascia conquistare facilmente. È un cavallo selvaggio, va domato con lealtà e pazienza. Si difende stando ferma eppure sgroppa e disarciona. I suoi fianchi sono lisci, la schiena dritta, le gambe lunghe. È difficile rimanervi aggrappati. La montagna non si stende perché uno ci possa passare sopra. La montagna rimane in piedi.
La vita separa gli amici di gioventù come la scure spacca il tronco. Un pezzo di qua, uno di là. L'uno diventa fuoco, l'altro sostegno di un mobile zoppo. Altri chissà cosa, chissà dove.
Le montagne attirano, catturano, affascinano proprio perché non fanno niente per attirare, catturare, affascinare. Stanno lì e basta. Se qualcuno vi sale, bene, se no è lo stesso. La natura non chiede nulla, non gioca scherzi, né si lamenta. Se ne sta lì impassibile, a condurre la sua vita scandita dalle stagioni.
Le foglie morte s'arriciano, avvicinando i bordi come una persona che si chiude in se stessa. Ma se piove o le sfiora la rugiada del mattino, si aprono di nuovo, allargano le labbra in un sorriso, come chi ha ritrovato la speranza.
I sentieri che intarsiano le montagne rappresentano le esistenze. Si può dire che le percorrono. Quando arriviamo in vetta gettiamo lo sguardo a valle scoprendo che quei sentieri siamo noi.
Il vero pericolo per la montagna, comunque, è l'uomo. Non si rende conto che distruggendo la natura, distrugge se stesso.
I rami della betulla insegnano a non essere testardi, cocciuti e indomabili, bensì a cedere per non venir frantumati. Quando la neve cade, bagnata e pesante, la betulla sente che le sue braccia stanno per spaccarsi. Allora le abbassa con umiltà, scarica la neve e le rialza al loro posto. Agisce al contrario del carpino, che se le lascia spezzare per l'orgoglio di non cedere.
La montagna è stata impoverita arrichendola di tutto. Lei storce il naso, subissata di rumori e avvelenata dai gas pestiferi di migliaia di auto e moto. I larici accanto alla strada e gli abeti sono incarboniti, tribolati e boccheggiano asfissiati. Invocano la motosega, non ne possono più.
La tristezza non se ne va via dalle case dei morti. Un fuoco si può riaccendere, come l'amore, le vite no, quando si spengono è per sempre.
Quando il Signore la creò, l'upupa era un uccellino normale. Non aveva nulla di particolare, tanto meno il ciuffo di penne sul capo che la fa riconoscere al primo impatto. Aveva sì piume abbondanti e lunghe, così come lungo aveva il becco, ma tutto era molto contento e poco appariscente.
La cinciallegra non è affatto allegra e quando canta fa più o meno così: cepìn, cepìn, cepìn.
La marmotta è una bestiola timida e sempliciotta, per non dire incauta.
Il canto delle manére
Santo Corona della Val Martin era nato il 21 settembre 1879 a mezzodì. Figlio di Giulian Fupietro e Alba Caterina Carrara, ebbe subito il destino segnato. Da secoli la sua era stirpe di boscaioli e boscaiolo dové diventare anche lui. Del resto, a quei tempi, lassù i mistieri era quelli: artigiano, contadino, boscaiolo, bracconiere o contrabbandiere. Spesso tutti insieme. Infatti Santo faceva anche l'artigiano e il falciatore sui pascoli alti. Ma era arte di rincalzo, robe di quando non era tempo da tronchi: un mese d'estate e uno d'inverno. Il resto dell'anno Santo era boscaiolo, e di quelli in gamba.
La fine del mondo storto
Una mattina d'inverno, le disgrazie d'altronde capitano spesso d'inverno, il mondo si sveglia e scopre che non ci sono più petrolio, né gas né carbone né corrente elettrica. A dir la verità, un po' di corrente esiste ancora. Laddove l'acqua fa girare le turbine c'è forza elettrica, ma è poca cosa. Il problema sono gasolio, benzina, gas, insomma tutto ciò che tiene in vita i motori, e di conseguenza anche la gente, visto che la gente dipende dai motori.
Storia di Neve
Neve Corona Menin venne al mondo nel tempo cattivo dell'inverno. Era il giorno dell'Epifania del 1919. Nella contrada San Rocco e nel paese stavano tutti in casa perché fuori nevicava, ed era già due metri alta e tutto rimaneva sepolto da quella grande quantità di bianco. Ma non era solo la neve a tenere la gente nelle case accanto ai fuochi di carpino, c'era anche il grande freddo.
Favola in bianco e nero
Erano passati quasi due anni, da quel Natale senza fede e senza Bambin Gesù. Da quel dicembre angosciato quando, dai presepi dell'intero mondo cristiano, era scomparsa la statua del Salvatore. Anni di domande, di perché, di dubbi. E una sola risposta: "Causa nostra". Ma nessuno lo diceva a voce alta. E tutti ancora tacciono.
Mauro Corona è un uomo leale, scala montagne in stile pulito, scolpisce legno seguendo la vena e la luna, scrive libri e storie di persone vere e perciò rare. (Erri De Luca)
Scrittore scarno e asciutto, e insieme magico nell'essenzialità con cui narra storie fiabesche e insieme di brusca, elementare realtà. I suoi racconti hanno l'autorità della favola, in cui il meraviglioso si impone con assoluta semplicità, con l'evidenza del quotidiano. In loro c'è comunione con la natura, col fluire nascosto e incessante della vita, e un'infinita, intrepida solitudine.
Storia di neve vuol essere una specie di Cent'anni di solitudine ossia un epos, genere che alla letteratura europea sembra interdetto da più di un secolo.
Uno scrittore fecondo, vitale e debordante nella scrittura come nell'esistenza; letteralmente anche eccessivo. Storia di neve, con le sue 816 pagine, sembra scritto da tutti e da nessuno; una memoria collettiva, potenzialmente senza inizio e senza fine, perché, anche se l'omonima protagonista – la magica, angelica e gelida eroina e vittima – vive solo ventinove anni, ogni vita si ricollega, come le radici degli alberi si abbarbicano su quelle morte e marcite, a generazioni precedenti, a immemorabili maledizioni, a forze e passioni di tempi o secoli passati.
Mauro Corona, Confessioni ultime, TEA, Milano, 2020. ISBN 9788850258031-20005
Mauro Corona, Favola in bianco e nero, Mondadori, Milano, 2015. ISBN 9788804661146
Mauro Corona, I fantasmi di pietra, Mondadori, Milano, 2006. ISBN 8804555432