Jarno Zaffelli (1976 – vivente), designer e fotografo italiano.
Citazioni in ordine temporale.
[«Da dove arriva la passione, l'interesse nel disegnare circuiti»] Mi chiamo come un ex Campione di motociclismo mancato nel 1973 a Monza... Ho vissuto in una famiglia di appassionati, ma quando ho capito che volevo fare qualcosa nel motorsport, mi sono accorto di esser troppo vecchio per fare il pilota. Avevo 23 anni... Stavo cercando un lavoro di nicchia, oltre che unire la mia passione ad un mestiere che in pochissimi stavano cominciando a fare, era il 2000, ed è stato il mio inizio.[1]
[«Quando lei disegna un circuito, immagina il pilota che percorre il suo disegno? Cosa pensa in quel momento?»] Diciamo che il pensiero viene zona per zona. Ogni sequenza di curve, ogni singola curva e transizione, l'immaginazione è la base. Ma non basta. È soggettiva. E allora si butta giù uno schizzo, lo si modifica 60 volte, lo si mette al simulatore, ci si gira. Fino a che la pista non sembra ok. Poi si calcola la sicurezza. Fino ad amalgamare il tutto. [...] Un progettista non può pensare di essere un pilota per diversi motivi. Innanzi tutto è molto raro che un pilota riesca a disegnare una pista che sta percorrendo, o sulla quale ha anche vinto. E quindi non ha gli strumenti per fare il contrario. Ho diverse esperienze di piloti che guardano un tracciato ma non riescono a capirlo fino a che non ci girano. E un progettista non può permetterselo. Deve riuscire a tradurre le proprie idee nei desideri dei piloti e realizzarli.[1]
Una pista deve essere divertente, percepita come pericolosa, bella da guidare. Devi riuscire a fare un giro e avere la sensazione di non averlo fatto perfetto.[2]
Non esiste una pista ideale. Probabilmente è la prossima che costruirò [...][3]
Un circuito ben progettato, oltre che da un bel disegno, nasce con un grande lavoro di simulazione che tiene conto di tutto quanto sta alle nostre spalle: non ci si può che basare solo sull'esperienza, perché quando parliamo di Motorsport, e in genere di situazioni con un certo grado di pericolo intrinseco, lavoriamo sulle probabilità e sulle possibilità che qualcosa accada.[4]
Ho la sindrome del foglio bianco, non parto mai da un foglio bianco. Non ho un approccio legato alla forma, sono più legato alla funzione.[5]
[«È più difficile progettare un autodromo o un circuito di prova?»] Da un punto di vista costruttivo e della performance, è molto più difficile lavorare a un circuito prova. Questo perché l'autodromo è un campo di gara: sotto un certo aspetto, è come se stessimo progettando un parco di divertimenti. Se invece si lavora su un proving ground, il cui fine è appunto il test di prodotto, è necessario garantire condizioni di prova che restino immutate nel tempo: devo consentire al produttore di realizzare una prova tra un anno o due anni, nelle stesse condizioni in cui la realizza adesso.[6]
Intervista di Carlo Platella, formulapassion.it, 16 settembre 2022.
Tutti quanti pensano che una pista sia in bidimensionale. Se si tengono fermi i due estremi di una curva, quando oggi si progetta la superficie si tende a tracciare una linea piana da parte a parte. Le piste ormai sono tutte così, con una linea retta che ruota attorno a un asse orizzontale. Però si possono fare tante altre cose invece che così. [...] Progettando da zero però ci sono molti meno vincoli. Lavorare per Spa o Monza ad esempio significa confrontarsi con cento anni di problemi, con delle pezze messe in passato per far funzionare il tutto, arrivando a un punto dove nessuno si ricorda più perché qualcosa fosse stata fatta in una determinata maniera. È una difficoltà completamente diversa.
Banking is the new black: tutti quanti vogliono fare il banking dopo che li abbiamo fatti a Zandvoort. Quello che non capiscono però è che il banking non è la soluzione di tutti i mali. Lo era per Zandvoort [...]. Se ho delle inclinazioni o degli andamenti, devo sempre considerare il posto e come è fatto. Zandvoort è la mia pista di biglie di quando ero bambino. Io giocavo con le biglie nella sabbia e le prime piste ho cominciato a farle così a Riccione. Uno dei primi tracciati che ho progettato l'avevamo rifatto in sabbia e in scala in un campo da beach volley per capire le proporzioni. Quando sono arrivato a Zandvoort, sulla spiaggia e sulle dune dove potevo fare una cosa del genere, è ritornata la pista da biglie, solo che le biglie erano auto a 300 km/h.
[«[...] capita che le piste di MotoGP vengano condivise con quelle di Formula 1. Le piste possono essere ambivalenti?»] Spesso capita che vogliano essere condivise, ma non viene fatto per motivi di calendario. Qualche anno fa dicevo che quando una pista è bella, è bella per entrambe, auto e moto. Ci sono però delle condizioni tecniche che privilegiano un tracciato per la Formula 1 piuttosto che un altro. [...] La MotoGP in generale ha bisogno di spazi di fuga non necessariamente più grandi, ma fatti in maniera differente. Negli ultimi anni c'è stato un avvicinamento tra i requisiti FIA e FIM e si sta arrivando a una convergenza. Non sempre però la convergenza è una priorità per il progettista. Progettare una pista per una Formula 1 è relativamente molto più semplice rispetto a un tracciato che deve avere a che fare con tanti motociclisti, ognuno dei quali ha la sua idea di come debba essere fatta la pista o i cordoli. I piloti di MotoGP sono molto più esigenti dei piloti di Formula 1, perché loro cadono e si rompono le ossa. Hanno un modo di divertirsi nella pista differente: si inclinano, vanno da una parte all'altra, è molto diverso. In una Formula 1 invece sei il pilota di un missile terra-terra che deve andare ripetutamente destra-sinistra e generalmente nelle piste non hai mai dei saliscendi che ti facciano schiacciare come a Spa. Un tracciato come Monza a una MotoGP non dice niente, ma Portimao dice tanto sia alla Formula 1 che alla MotoGP.
Renzo Piano non è il mostro sacro dell'architettura perché ha una bella mano, fa un bel disegno o ha una bella idea, ma perché riesce ad avere continuamente idee, sconosciute a tutti noi, nel come realizzare e produrre un progetto che trasferisca in realtà quello che ha nella mente. Tutti pensano che l'archistar sia tale perché traccia una linea in una maniera o con un colore particolare. Non è così. Il difficile è realizzare le idee, non averle. Ci sono tante complicazioni e onestamente è la parte che mi piace di più. Guardando alla carriera di Renzo Piano si capisce che lui è architetto perché ha cominciato a costruirsi le sue barche quando era giovanissimo, era uno che ci metteva le mani. È uno che le sue cose le fa capendo come costruirle. Quando doveva ancora diventare un gigante, lui andava dall'impresa e dava la soluzione, non aspettava che fossero gli altri a fornirgliela. Era lì la sua grandezza.
Da noi [In Italia] il primo errore che si commette si viene tagliati fuori. Vorrei porre l'esempio di uno dei ragazzi che aveva da poco iniziato a lavorare con noi. Stavamo parlando in una riunione e io stavo giocando con un modellino. L'ho passato a lui, che appena l'ha preso in mano l'ha spezzato. Guardandomi atterrito negli occhi, ha preso il pezzo e l'ha buttato all'indietro, sperando che non l'avessi visto. Io l'ho redarguito non perché l'avesse rotto, ma perché la prima che gli è venuta in mente, come evidentemente gli avranno insegnato, è stata di nascondere l'errore. Se però nascondi l'errore, non c'è possibilità di correggerlo e di non commetterlo più. Perciò, bisogna essere in grado di assumersi le proprie responsabilità se si commette qualche sciocchezza, ma bisogna parlarne, altrimenti non ci rimetto solo io, ma tutta la squadra. [«Una tendenza che forse tradisce una visione egocentrica dell'errore, dove l'unico a risentirne è chi lo commette e non la comunità...»] Siamo stati educati così. In Italia generalmente siamo cresciuti all'ombra dei nostri genitori dove non bisogna far sapere a nessuno degli errori che commetti. È una questione culturale italiana.