traduttore, orientalista e professore italiano Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Italo Pizzi (1849 – 1920), iranista e accademico italiano.
Ingenuamente [le donne arabe] facevano pompa di lor bellezza nativa, e si narra di Aisha (era costei del tempo musulmano, del primo tuttavia) che, rimproverata dal marito di non portar velo, rispose: "Iddio m'ha segnata del suggello della beltà, e mi è caro che altri lo ammiri e vi riconosca il favore di Dio; né io intendo di velarmi il volto, perché, dinanzi a Dio, non v'ha in ciò alcun fallo".[1]
Non vi ha forse in tutto il mondo paese più ricco della Persia in leggende eroiche.[2]
Il Libro dei Re si può dividere come in due parti, una delle quali è tutta eroica e leggendaria, mentre l'altra è storica, aggirandosi intorno alle imprese d'Iskender o Alessandro Magno in Oriente e raccontando con molte favole la storia dei Sassanidi fino al 651 dell'Era volgare, nel qual anno la Persia fu conquistata dagli Arabi. La prima parte incomincia col primo uomo e primo re, Gayumers, e ha per suo principale soggetto una guerra secolare degli Irani coi Turani, popoli dell'Asia settentrionale, e coi Devi o demoni, creature di Ahrimane, cioè del genio del male. Non v'ha alcun dubbio che sotto questo nome di Devi non si celi una popolazione antichissima che gl'Irani trovarono sul lungo quando discesero nell'Iran, e che essi dovettero sottomettere e sterminare in parte. Ma questa guerra contro i Devi e contro i Turani agli occhi degl'Irani aveva un significato veramente grande. Essa rappresentava in terra visibilmente la gran lotta tra il male e il bene, fra il creatore, Ormuzd, e il nemico d'ogni bene, Ahrimane, alla quale tutti gli uomini, per un dovere morale, sono obbligati a prender parte. Come il male si può e si deve combattere con le opere pie e buone, così esso si può anche combattere con le armi, e gli eroi dell'Iran, quando scendono in campo contro Devi e Turani, altro non fanno che soddisfare a quest'obbligo morale.[3]
[Su Keyumars] Il suo regno incominciò in un giorno in cui il sole entrava nell'Ariete, e durò trent'anni. A lui erano sottomessi non solo tutti gli uomini, ma anche tutte le bestie della campagna che gli rendevano omaggio.[4]
Firdusi descrive il miserando stato dell'Iran sotto lo scettro di Dahàk. Ogni colpa, ogni opera trista, fu lecita allora, mentre ogni virtù era perseguitata.[5]
Con Yezdeghird si chiude la serie dei monarchi persiani, e la conquista degli Arabi segna l'entrar nell'Iran di una nuova fede, di una nuova legge e di nuovi dominatori.[6]
[...] fu peculiare dottrina persiana quella del Sufismo, dottrina più filosofica che religiosa, più mistica che devota e credente, panteistica, sebbene a parole professasse il monoteismo e adoperasse i termini del Corano, atea e scettica nella sostanza, sebbene professasse il più ardente e sviscerato amor divino. E, cosa strana davvero! questa cupa dottrina che anelava all'annientamento dell'essere individuale nell'Essere universale, assunse la più splendida e smagliante forma poetica che fa della lirica persiana, pur con molte leziosaggini e svenevolezze, un gioiello inimitabile![7]
Si può dire che ogni elegia di Mimnermo è improntata del pessimismo più cupo. Per lui, che val la vita? Ha pregio finché dura la bella giovinezza, passata la quale, cessa ogni godimento per il mortale. Sottentra la vecchiaia, travagliosa per voler degli Dei, mentre mille e mille affanni affliggono l'uomo nella sua breve carriera terrena.[8]
Da Gli Irani
L'Avesta, Istituto editoriale italiano, Milano, pp. 19-35, 1914
L'Avesta non è un libro organico, non è l'opera di una mente sola creatrice e pensatrice, sì bene la raccolta di più opere, anzi di frammenti di più opere andate perdute. Esso perciò, per la varia natura delle parti che lo compongono, può interessare il pubblico e gli studiosi in due maniere ben distinte e diverse. Può interessare il filosofo e il teologo come codice sacro d'una religione già famosa nell'antichità; può interessare lo storico, il letterato, il poeta, in quella parte di esso che tocca la vita e i costumi, le idee di genti vissute in età remote, e ne esprime, massime nella parte poetica, i pensieri, gli affetti, i voti, le aspirazioni.
Gli Antichi [...] fecero quasi tutti lodi grandissime degl'Irani. Ne lodavano l'alta e bella persona e l'aspetto dignitoso e nobile. Erodoto parla di certo loro portamento decoroso e grande; Eschilo ne nota le belle e folte chiome; Diodoro si compiace del descrivere la virile bellezza d'alcuno di loro. Gli Arabi del Medio Evo solevano dire che chi desidera aver figli valenti e animosi, deve pigliarsi in moglie una donna di Persia. E, del resto, in tutta quella forte predilezione che gl'Irani, al dire degli scrittori greci e romani, hanno sempre avuto per tutto ciò che è cavalleresco, nobile, eletto, come sono nobili cavalli, nobili mute di cani, giuochi ed esercizi nella palestra e nella caccia, palazzi e giardini sontuosi, drappi, gemme, profumi, ornamenti sontuosissimi, null'altro si manifesta che un sentire alto ed elevato, quale di chi onestamente e nobilmente gode dei beni di quaggiù. Lo stesso libro sacro attribuito a Zoroastro, l'Avesta, comanda e ordina ad ogni uomo pio di godere onestamente della vita e de' suoi beni, pur che non si ecceda in nulla, come di un dono prezioso del Creatore. Lo stesso libro proclama arte sovrana fra tutte l'agricoltura, e gl'Irani furon sempre, e sono tuttora, dei più solerti e diligenti agricoltori dell'Asia.
Noi, lungamente allevati nelle idee della cultura classica, perché sappiamo che i Greci sconfissero i Persiani a Maratona, alle Termopili, a Salamina, ci siamo anche avezzati a considerar questa gente come un branco di codardi menati al macello dall'ambizione di un tiranno, mentre è pur noto che essi, in quelle battaglie, combatterono da valorosi. Erodoto stesso ne fa, con le lodi, bella e aperta testimonianza, né, si badi anche a ciò, erano tutti persiani o irani i soldati che Dario e Serse menavano allora con sé; era, invece, uno stuolo infinito, male ordinato, di genti fra loro lontane e diversissime. Alessandro, è vero, tolse il regno a Dario Codomanno, ma e Dario e il popolo suo, pur cedendo, cedettero da valorosi; e gli Arabi che nel VII secolo dell'Era nostra invasero l'Iran e distrussero nel 650 l'antico impero, non entrarono certamente senza colpo ferire nel ricco e glorioso paese, anche se il regno era lacerato dalle discordie intestine e cadente omai per forze esauste e per decrepitezza.
[Su Dario I di Persia] Appartiene allo storico il dir degnamente di questo gran principe e di giudicarlo nel rispetto politico e guerriero, amministrativo e civile. Basti a noi il notare come tutta l'antichità ne faccia lodi altissime, non esclusi i Greci, come si rileva dalle pagine di Eschilo e di Erodoto.
Né Serse, né gli altri che vennero poi, ebbero la mente, la saggezza, la fortuna di Dario.
Vollero i Sassanidi, con nobile ardire, ripristinar la gloria dell'impero di Ciro e di Dario, ma non poteron tanto. Rilevarono tuttavia il caduto sentimento nazionale e lo rinvigorirono; richiamarono in onore, come or si diceva, la religione paesana; favorivono gli studi, fondarono scuole, tennero a freno i nobili, prepotenti e avidi, e con essi i ministri del culto, intolleranti e fanatici, e pensarono anche talvolta alle misere plebi disereditate.
[Su Cosroe I] Questo gran principe, al quale l'Occidente va debitore di non poche cose, s'acquistò bella gloria di giusto, tanto da esser lungamente celebrato come tale nei romanzi persiani e negli arabi, protesse le arti e le lettere, accolse alla sua mensa i filosofi che Giustiniano imperatore aveva scacciati da Costantinopoli, diede per il primo un pensiero a raccogliere in un volume che forse fin d'allora ebbe il nome di Libro dei Re, le memorie epiche nazionali. Così, per lui, s'incominciava quel moto letterario che quattro secoli dopo, o poco più, doveva metter capo alla composizione poetica di esso libro per opera di Firdusi.
[Sulla Conquista islamica della Persia] Non si spegneva tuttavia l'ingegno iranico; che anzi, come avvien sempre quando un popolo civile soggiace ad un più forte, ma ancor barbaro e rozzo, quei rozzi e barbari abitatori del deserto tutto, o quasi tutto, dovettero apprendere ciò che riguarda l'arte politica, militare e letteraria, dai loro novelli soggetti, di gran lunga superiori in ogni modo del vivere civile.
Se non pur gli Arabi, i Musulmani tutti, di qualunque nazione fossero, ebbero il vanto nel Medio Evo di finezza e di splendore nella vita, di abilità ricercata in tutto ciò che tocca il fasto e il lusso, dai palazzi fantasticamente lavorati alle essenze e ai profumi più delicati, di tutto cotesto essi vanno debitori ai Persiani dai quali lo tolsero e se l'appropriarono per mandarlo attorno per tutti i confini del vastissimo impero. Anche la scienza che ci venne d'Asia nel Medio Evo, in grandissima parte fu persiana; e persiani sono quasi tutti i filosofi, i medici, gli astronomi, i matematici, di cui leggiamo i nomi nelle pagine dei nostri dell'età di mezzo, quali Agazel e Alrasi, Albatenio, Avicenna, Alfarabi. Scrissero in lingua araba le loro opere, essendo questa la lingua dotta dell'impero musulmano; e noi perciò, con manifesto errore, li abbiam detti arabi e tali tuttavia li reputiamo.
Da Zarathustra e la sua religione
L'Avesta, Istituto editoriale italiano, Milano, pp. 36-113, 1914
Tre momenti di massimo splendore ebbero la cultura e la civiltà iranica, e questi si appuntano e assommano, per così dire, in tre nomi altrettanto gloriosi e illustri che sono Zarathustra, Dario, Firdusi. Appartengono i due primi all'evo antico, e uno è un gran legislatore, fondatore inoltre d'una religione novella; l'altro è un gran principe, unificatore del patrio regno. Appartiene il terzo all'evo medio, ed è un gran poeta, degno di starsi accanto ai maggiori d'Occidente.
L'Avesta quale ora l'abbiam noi, è ben lontano da quello che doveva essere un tempo quand'esso formava come un'ampia e vasta enciclopedia. Né esso fu il codice sacro, il libro sacro di tutti gl'Irani, sì bene di una parte sola della nazione. Non fu dei Persiani nell'antichità, perché da ciò che dice Erodoto intorno alla loro religione, e da ciò che si rileva dalle iscrizioni degli Achemenidi, risulta ch'essi professavano una religione molto affine, non però quella dell'Avesta. I Persiani, invece, la abbracciarono assai più tardi, cioè dopo l'Era volgare, quando i Sassanidi la proclamarono solennemente, con l'Avesta, religione ufficiale del regno.
[Su Yima] Fu, in terra, propagatore della fede e iniziatore fra gli uomini dell'agricoltura.
Non c'è alcuna fondata ragione per accusare Alessandro della dispersione dell'Avesta e della conseguente perdita di molti fra i libri d'esso, anche se di ciò lo accusano i Parsi, essi che sogliono chiamarlo, per l'odio che ne hanno, il maledetto. Provenendo dall'odio, l'accusa non può essere interamente giusta, e d'altra parte è noto che Alessandro non era intollerante verso le religioni dei popoli da lui visitati e vinti, non si occupava né dei loro riti né delle loro credenze, che, mentre aveva ben altre cose a cui attendere, poco o nulla gl'importavano. Anzi, se gl'importavano, gl'importavano in senso favorevole, perché è pur noto che i soldati macedoni che l'avevano seguito in Oriente, l'accusavano, rozzi come erano e incolti, di assumere costumi e riti asiatici, i persiani in particolare.
[Sullo Zoroastrismo] Ha pochi dogmi, ma reca al fedele insegnamenti altissimi; ammette la vita futura, promette la venuta, alla fine del mondo e quando risorgeranno i morti, d'un Salvatore, annunzia il premio che toccherà ai buoni, e la pena dei malvagi che però non sarà eterna, inculca una morale nobile ed elevata, non inerte e inoperosa perché non conosce l'ascetismo brahmanico e nemmeno l'indifferenza e la calma del Buddhismo, inculca il lavoro, quello specialmente, proclamato da essa il più santo, il più utile, dell'agricoltura, insegnato dallo stesso dio creatore, Ahura Mazdao, al primo re, Yima, e da Yima propagato con l'esempio tra i primi mortali.
[Sullo Zoroastrismo] Comunque sia, essa è un bene ordinato e architettato sistema di religione che, come il Mosaismo, il Cristianesimo e l'Islamismo, procede dalla predicazione e dall'opera feconda d'una persona sola.
Il nome Ahura, come il nome di Yahveh che la Bibbia dà al Dio d'Israele, significa l'Essere, cioè l'Essere per eccellenza; ed è ovvio l'intendere che simile concetto, alto e sublime, mera e pura astrazione metafisica, non può procedere che da una eletta mente speculativa, non può appartenere all'ordine delle idee proprie delle religioni naturalistiche. E sarebbe forse, questa idea, venuta a Zarathustra dai Semiti, anzi dagli Ebrei?
[Su Angra Mainyu] L'opera sua [...] oltre ad essere essenzialmente malvagia, è anche una specie di voluta contaminazione del bene creato dall'avversario, appunto come per esempio [...] che, se Ahura Mazdao creò il fuoco, egli v'indusse la cenere e il fumo.
Anra Mainyu cerca con ogni mezzo di distruggere, di annientare l'opera di Ahura Mazdao, e là, nel fondo del freddo e tenebroso settentrione, sta la sede dei demoni da lui procreati, mentre sotto la plaga lucente del cielo meridionale, là dove è la via percorsa dal sola, si sta la sede felice dei beati.
I Daēvi del Zoroastrismo altro non sono in origine che i Devi della corrispondente, anzi affine mitologia e teologia indiana. Senonché i Devi indiani sono divinità buone, protettrici amiche dell'uomo, laddove i Daēvi iranici sono esseri maligni, veri geni del male. Ciò dipende probabilmente dal fatto che una qualche scissura religiosa, come ragionevolmente si può supporre, turbò la società o la vita ariana o indoiranica prima della scambievole separazione, ovvero da ciò, che antichi concetti religiosi dovettero man mano cambiarsi e alterarsi profondamente per cagioni che è assai difficile, per non dire impossibile, rintracciare.
[Su Ahura Mazdā] Ha tutti gli attributi d'un Dio altissimo, perché è onnisciente, sapientissimo, custode e difensore delle creature sue, inaccessibile all'inganno perché tutto vede e sa, creatore della luce, degli uomini e della così detta giovenca primeva che è, come si vedrà, il simbolo vivente della forza e della virtù produttiva della natura. Il trono di lui sta nel più alto cielo, ed egli vi siede attorniato dalle milizie celesti. Quest'ultimo concetto è comune, si può dire, a quasi tutte le religioni; ma gli attributi ora enumerati sono di natura filosofica e teologica, tali che accostano esso Ahura Mazdao al dio semitico, al Yahveh in particolare degli Ebrei, mentre lo discostano da ogni altro dio indoeuropeo al quale, di solito, vanno accompagnati sempre, o quasi, attributi antropomorfici.
[Su Mitra] Non va soggetto al sonno, e però vede e ascolta tutto, è onnisciente, e nulla in cielo o in terra può sottrarsi a lui. È armato di clava, e con essa, ben fusa e ben ferrata, va sgominando le schiere dei demoni e di tutti quelli che lo rinnegano, le cui armi sono scagliate invano da loro contro di lui.
Nel rispetto etico e morale, Mithra è considerato come custode geloso dei patti che i mortali concludono fra loro, mallevadore della giustizia e della fede reciproca, punitore dei traditori e dei fedifraghi; e Senofonte attesta che i Persiani solevano appunto giurare nel suo nome.
Anra Mainyu è stoltissimo, né potrebbe essere altro, perché, essendo il male per eccellenza nella sua totalità, ove avesse qualche poco di sapienza, avrebbe in sé anche alcun che di bene. Satana all'opposto, se non sempre, appare assai spesso furbo e astuto e acuto trovator d'inganni e d'arti subdole, identificato poi, per facile e fantastica illazione del pensiero, allo spirito scrutatore e indagatore dell'uomo. Un giorno, alla fine del mondo, saranno vinti ambedue; ma, laddove Satana rimarrà in eterno il signore del doloroso regno, Anra Mainyu, da che allora soltanto incomincerà il regno assoluto del bene, rimarrà annientato. Sarà così allora cassata per sempre l'esistenza del male.
Dahaka significa il serpe che morde. Nel senso naturalistico, è il mostro aereo che, secondo i primitivi concetti d'una religione naturalistica, contende gli spazi celesti agli Dei della luce, e però si ricongiunge al suo fratello del Rigveda che è il serpente Ahi. L'Avesta, serbando i tratti spaventosi e orribili dovuti alla immaginazione del volgo, lo designa a volta a volta come la peggiore e la più esiziale Drugia che Anra Mainyu abbia creata, e lo descrive con tre capi, con tre fauci, con sei occhi; ma poi, assorgendo a concetto teologico e filosofico, la pone tra le schiere del male, e asserisce che Anra Mainyu appunto la creò per disfare tutto quanto il mondo terreno e indurvi la morte.
[Su Zahhak nello Shāh-Nāmeh] Forse la fantasia calda degl'Irani in un qualche principe di stirpe semitica, crudele e tirannico, che li infestò, vide in esso l'immagine vivente e visibile della malvagia Drugia infernale procreata da Anra Mainyu, e nella saga epica immaginò per conseguenza un crudele tiranno, arabo d'origine, che aveva sua sede in Babil, cioè in Babilonia, detto Azdahak o semplicemente Dahak, che tolse il regno e poi la vita al loro re Gemshid e li tiranneggiò per mille anni.
La morale insegnata dall'Avesta, oltre e al disopra dei suoi precetti teologici, dogmatici, rituali, è pur sempre una morale molto alta e pura che con ragione colloca il Zoroastrismo fra le più elette religioni del mondo. Lo stesso triplice precetto del non peccar mai in pensieri, in opere, in parole, che si trova anche tra i precetti del Cristianesimo, racchiude nella sua rigidezza e compendia ogni altro precetto che sia inteso a guidar l'uomo quaggiù. Le maggiori virtù che, del resto, erano raccomandate non pure dall'Avesta, ma anche dalla legge e dalla consuetudine comune a tutti gl'Irani, erano la giustizia, la beneficenza, la generosità, la pietà, l'orrore per la menzogna.
Se fu detto giustamente che l'India al mondo ha dato i sacerdoti, e che la Grecia e Roma hanno dato l'uomo civile, non meno giustamente si può dire che la Persia ha dato invece il tipo dell'uomo che crede, che lavora, che combatte.
Quanto ad ampiezza, tutte le altre epopee cedono di gran lunga al Libro dei Re di Firdusi, trovandosi che l'Iliade e l'Odissea si restringono a due fatti soli, uno prima, l'altro dopo la caduta di Troia, i due poemi indiani, il Râmâyana e il Mahâbhârata, non narrano che un fatto, il primo la conquista di Lankâ (Ceylan), il secondo la lotta tra due stirpi nemiche per il possesso del regno, con molti altri fatti secondari. Questa stessa cosa si può dire dei Nibelungen dei Tedeschi e del Kalevala dei Finni; e solo l'Edda dei Scandinavi potrebbe fare eccezione, cominciando essa dall'origine di tutte le cose e discendono poscia a narrare i fatti degli Dei, dei Giganti, delle Valkyrie e degli Eroi, fino ad accennare all'universale incendio che un giorno distruggerà il mondo. [...] Ma il maggior pregio del Libro dei Re, per il quale esso acquista importanza grandissima, si è quello di essere una epopea nazionale, un'epopea cioè l'argomento della quale non è stato trovato ed elaborato da un poeta nel silenzio della sua stanza e con la scorta de' suoi libri, come la Gerusalemme e l'Eneide, ma è argomento, è soggetto popolare conservato per tradizione di padre in figlio, finché poi un gran poeta, quale era Firdusi, lo raccolse e lo vestì di una splendida forma poetica. (pp. VIII-IX)
Il Libro dei Re è una fedele immagine dell'ingegno, dell'animo e del cuore del popolo persiano, se non dei tempi nostri, almeno di quell'età allorquando non era stato ancora infiacchito dalle dottrine mussulmane, e sentiva ancora la forza benefica dell'antica religione di Zoroastro, operosa, energica e, dopo il Cristianesimo, la più umanitaria di tutte. (pp. IX-X)
Se i poemi omerici sono un fedele specchio della vita eroica dei Greci, dei sentimenti e delle idee di quell'età, il Libro dei Re non è meno la fedele immagine dell'animo, del cuore e dell'ingegno del popolo persiano. (pp. X-XI)
Il pârsi non ha accettata alcuna parola da lingue straniere e di poco differisce dalla lingua di Firdusi, del più grande poeta epico persiano vissuto intorno al mille dell'era volgare, che può considerarsi come il primo che con un'opera immortale, siccome fece Dante per gli Italiani, abbia messo in onore la lingua della Persia del suo tempo. D'allora in poi il persiano si andò sempre più corrompendo coll'accettare parole arabe; e ai giorni nostri nelle opere degli scrittori moderni persiani esso non è che un gergo, del quale due terzi sono arabi, mentre la lingua si è conservata assai più pura nelle campagne e nei villaggi, laddove non è raro incontrare qualche buono agricoltore che nel suo puro dialetto persiano, che da alcuni fu chiamato l'italiano d'Oriente, racconti ancora la storia degli antichi re favolosi della sua patria. (p. 17)
La religione dei Vedi per gli Indiani e quella di Omero e di Esiodo per i Greci non era che l'espressione delle idee del popolo, soggette spesso a mutarsi e a contraddirsi perché non furono fissate né determinate mai da alcun libro sacro della natura della Bibbia o dell'Avesta. La religione iranica è per lo contrario lavoro di filosofi e sacerdoti, fondata, egli è vero, sopra l'idea popolare della lotta continua tra il bene ed il male, ma ridotta in un sistema da menti elette e speculative e confermata con un codice sacro, immutabile, che si diceva rivelato da Ormuzd al suo profeta Zarathustra o Zoroastro. (p. 26)
Mentre gli Arsacidi e i Sassanidi curarono specialmente la prosperità e il buono stato del loro popolo, e i Sassanidi rimisero in onore l'antica religione risvegliando così la memoria degli antichi miti e degli antichi eroi, gli Achemenidi invece erano come stranieri al loro popolo. Il quale non conosceva il re dei re che sedeva a Persepoli, se non per i tributi che gli doveva mandare; e perché i tributi erano gravosi, e perché la gioventù era obbligata talvolta a partirsi dal paese natìo per recarsi a combattere in lontani paesi, laddove la strascinava repugnante l'ardor di conquista del re; così il re era odiato e riguardato dal popolo come un oppressore. (pp. 70-71)
Non è [...] a meravigliare se la memoria degli Achemenidi è sparita del tutto dalla mente del popolo che non li conobbe e non li amò; e se ora si conoscono i loro nomi, le loro imprese e l'ordine di loro successione, ciò è dovuto alla diligenza degli storici greci e latini e specialmente di Erodoto, e alla cura che essi ebbero di far scolpire in caratteri cuneiformi la propria storia sulla rupe di Behistân, sui marmi di Murghâb e di Elvend, e sulle mura del palazzo reale di Persepoli. (p. 71)
Parlare dei meriti di Firdusi non è al certo cosa lieve e facile; ma dovendone pur tener parola, comincieremo dalla lingua la quale dagli scrittori persiani che vennero dopo di lui, fu sempre più corrotta con parole arabe. Firdusi invece seppe usare la vera lingua persiana astenendosi, per quanto poteva, dalle parole arabe che si introdussero in Persia dopo la conquista degli Arabi. Il modo suo poi di esprimersi è robusto, nervoso e privo di quei giuochi di parole e di quei ghiribizzi incerti che tanto spesso incontriamo nei poeti posteriori imitatori degli Arabi, quali sono Hâfiz, Khâkâni, Saadi e Giâmi. Incontransi ancora spesse volte ne'suoi canti figure e similitudini veramente grandiose, le quali però non toccano mai il mostruoso come quelle che occorrono nei poemi indiani specialmente se di tarda età, come sono i Purâni, né vanno al ridicolo ed allo sciocco come alcune della poesia araba e della persiana che la imitò in poi. (pp. 121-122)
[Su Firdusi] Benché fosse Mussulmano di religione e benché gli fosse toccato di vivere in tempi, nei quali dell'antica e gloriosa Persia non restava che il nome, poté tuttavia, egli solo, comprendere tutta la gloria e l'indole operosa e guerresca della patria sua. (p. 123)
↑ Da L'Islamismo, Ulrico Hoepli, Milano, 1903, p. 77.