Non esiste qualcosa come un popolo palestinese. Non è che siamo venuti, li abbiamo buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Essi non esistevano. (da una dichiarazione al The Sunday Times, 15 giugno 1969)
Come possiamo restituire i territori occupati? Non c'è nessuno a cui restituirli. (8 marzo 1969).
A tutti quelli che parlano in favore di riportare indietro i rifugiati arabi devo anche dirgli come pensa di prendersi questa responsabilità, se è interessato allo stato d'Israele. E bene che le cose vengano dette chiaramente e liberamente: noi non lasceremo che questo accada. (da un discorso alla Knesset, riportato su Ner, ottobre 1961.)
Israele non ha bombe atomiche né intende impiegarne.
[Sul perché Israele non ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare] Ne abbiamo tanti di problemi sul tappeto... In ogni caso Israele non è il solo paese a non aver firmato ancora.
Israele non introdurrà mai per primo armi atomiche nel Medio Oriente.
Non ha senso pensare che la pace possa raggiungersi per interposta persona. Sono gli arabi che debbono farla, con noi, sedendosi allo stesso nostro tavolo. Finché i Grandi discuteranno, gli arabi si sentiranno scaricati di ogni responsabilità, e invece, ora, debbono finalmente assumersene. Tre volte hanno fatto la guerra e tre volte l'hanno perduta e sempre c'è stato qualcuno che ha detto loro: non importa, arrangiamo noi la situazione. E così abbiamo avuto armistizi, forze d'emergenza dell'Onu, tregue, osservatori, ma giammai la pace. Adesso basta. Nessuno può risolvere un problema che investe direttamente arabi e israeliani, nessuno può imporci una soluzione. Vogliamo la pace, una pace negoziata fra le parti in causa che ci garantisca confini certi e giusti.
Dove mai s'è visto nella storia che due nazioni che hanno fatto la guerra non abbiano poi sottoscritto la pace sedendo al tavolo delle trattative? Nel caso nostro c'è di più: siamo stati attaccati, abbiamo vinto. Il popolo che è stato attaccato e che ha vinto invita gli aggressori sconfitti: prego, venite e facciamo la pace. E questo sarebbe un atteggiamento tanto assurdo ed estremista da alienarci gli amici? Può darsi, ma si tratterebbe di un caso assai strano. Di solito a domandare la pace è chi perde, tuttavia noi rigettiamo ogni posizione di privilegio: noi vogliamo una pace dignitosa, onorevole per tutte due le parti a chiusura d'una guerra che speriamo, e fortemente auspichiamo, sia stata l'ultima.
I sovietici sono come e più degli arabi, responsabili della guerra del '67, per la campagna di intossicazione che condussero.
Dal punto di vista della sicurezza gli attuali confini sono l'ideale. E non li lasceremo fin quando gli arabi non cercheranno di muovercene con negoziati di pace che garantiscano confini reciprocamente sicuri.
Accettiamo solo il principio che i Luoghi Santi musulmani e cristiani vengano posti sotto le rispettive giurisdizioni e amministrazioni. Sul resto non si discute.
in Intervista con la storia, Rizzoli, Milano, 1974.
Questo paese esiste come il compimento della promessa fatta da Dio stesso. Sarebbe ridicolo chiedere conto della sua legittimità. (da Le Monde, 15 ottobre 1971)
In questi ultimi anni e durante la guerra d'attrito mi son trovata tante volte nella necessità di prendere certe decisioni: ad esempio mandare i nostri soldati in luoghi da cui non sarebbero tornati indietro, o impegnarli in operazioni che sarebbero costate la vita a chissà quante creature da entrambe le parti. E soffrivo... soffrivo. Però davo quegli ordini come li avrebbe dati un uomo. Anzi, ora che ripenso, non sono affatto sicura di aver sofferto più di quanto avrebbe sofferto un uomo.
La guerra è una stupidaggine immensa. Io sono convinta che un giorno tutte le guerre finiranno. Sono convinta che un giorno i bambini, a scuola, studieranno la storia degli uomini che facevano la guerra come si studia un'assurdità. Se ne stupiranno, se ne scandalizzeranno come oggi si scandalizzano del cannibalismo. Anche il cannibalismo è stato accettato per lungo tempo come una cosa normale. Eppure, oggi, almeno fisicamente, non si pratica più.
Io credo che la guerra nel Medio Oriente durerà ancora molti, molti anni. E le dico perché. Per l'indifferenza con cui i capi arabi mandano a morire la propria gente, per il poco conto in cui tengono la vita umana, per l'incapacità dei popoli arabi a ribellarsi e a dire basta.
Alla pace con gli arabi si potrebbe arrivare solo attraverso una loro evoluzione che includesse la democrazia. Ma ovunque giro gli occhi e li guardo, non vedo ombra di democrazia. Vedo solo regimi dittatoriali. E un dittatore non deve rendere conto al suo popolo di una pace che non fa. Non deve rendere conto neppure dei morti. Chi ha mai saputo quanti soldati egiziani son morti nelle due ultime guerre? Solo le madri, le sorelle, le mogli, i parenti che non li hanno visti tornare. I capi non si preoccupano neanche di sapere dove sono sepolti, se sono sepolti. Noi invece...
Supponiamo che Sadat firmi e poi venga assassinato. O semplicemente eliminato. Chi ci dice che il suo successore rispetterà l'accordo firmato da Sadat?
Sadat non vuole negoziare con noi. Io sono più che pronta a negoziare con lui. Lo dico da anni: «Sediamoci a un tavolo e vediamo di arrangiare le cose, Sadat». E lui, picche. Lui non è affatto pronto a sedersi a un tavolo con me. Continua a parlare della differenza che esiste tra un accordo e un trattato. Dice che è disposto a un accordo, ma non a un trattato di pace. Perché un trattato di pace significherebbe il riconoscimento di Israele, relazioni diplomatiche con Israele. Mi spiego? Ciò cui allude Sadat non è un discorso definitivo che stabilisca la fine della guerra: è una specie di cessate-il-fuoco. E poi egli rifiuta di negoziare direttamente con noi. Vuoi negoziare attraverso intermediari. Non possiamo parlarci attraverso intermediari! privo di senso, è inutile!
Credo ad Hussein. Sono convinta che egli si sia reso conto, ormai, di quanto sarebbe futile per lui imbarcarsi in un'altra guerra. Hussein ha capito di aver commesso un errore tremendo nel 1967, quando entrò in guerra contro di noi e non considerò il messaggio che Eshkol gli aveva inviato: «Non entri in guerra e non le succederà niente». Ha capito che fu una tragica sciocchezza ascoltare Nasser, le sue bugie su Tel Aviv bombardata.
Gli arabi sono davvero strani: perdono le guerre e poi pretendono di guadagnarci. Ma insomma, la guerra dei Sei giorni, noi l'abbiamo vinta o no? Il diritto di porre le nostre condizioni ce l'abbiamo o no? Ma da quando, nella storia, colui che attacca e perde ha il diritto di dettar prepotenze a colui che vince?
I siriani vorrebbero che noi scendessimo dalle alture del Golan per spararci addosso come facevano prima. Inutile dire che non ci pensiamo nemmeno, che non scenderemo mai dall'altipiano. Tuttavia anche coi siriani siamo pronti a negoziare. Alle nostre condizioni. E le nostre condizioni consistono nel definire tra la Siria e Israele un confine che stabilisca la nostra presenza sull'altopiano. In altre parole, oggi i siriani si trovano esattamente dove dovrebbe esser fissato il confine.
Ci accusano di espansionismo ma l'espansionismo, creda, non ci interessa. Ci interessano solo nuovi confini. E poi senta: questi arabi voglion tornar ai confini del 1967. Se quei confini erano giusti, perché li distrussero?
Senta, anche noi durante la guerra di Indipendenza avevamo i nostri gruppi terroristici: lo Stem, la Irgun. E io li avversavo, li avversai sempre. Però nessuno di loro si macchiò mai delle infamie di cui gli arabi si macchiano con noi. Nessuno di loro mise mai bombe nei supermarket, o dinamite negli autobus dei bambini. Nessuno di loro provocò mai tragedie come quella di Monaco o di Lidda.
Cosa vuoi discutere con gente che non ha nemmeno il coraggio di rischiare la propria pelle e consegna gli ordigni esplosivi a un altro?
Finoggi c'è stata troppa tolleranza da parte vostra. Una tolleranza che, mi permetta di dirlo, ha le sue radici in un antisemitismo non spento. Ma l'antisemitismo non si esaurisce mai nella sofferenza degli ebrei e basta. La storia ha dimostrato che l'antisemitismo, nel mondo, ha sempre annunciato sciagure per tutti. Si incomincia col tormentare gli ebrei e si finisce col tormentare chiunque.
In ogni capitale europea esistono uffici di cosiddetti movimenti di liberazione e voi sapete benissimo che non si tratta di uffici innocui. Però non fate nulla contro di loro. Ve ne pentirete. Grazie alla vostra inerzia e alla vostra condiscendenza, il terrore si moltiplicherà e anche voi ne farete le spese.
Per noi ebrei, i rapporti con la Germania sono un tale conflitto tra la testa e il cuore.
Il terrorismo è divenuto una specie di internazionale malvagia: una malattia che colpisce persone le quali non hanno nulla a che fare coi profughi palestinesi.
Quando c'è una guerra e la gente scappa, di solito scappa verso paesi di lingua diversa e religione diversa. I palestinesi, invece, fuggirono verso paesi dove si parlava la loro stessa lingua e si osservava la loro stessa religione. Fuggirono in Siria, in Libano, in Giordania: dove nessuno fece mai nulla per aiutarli. Quanto all'Egitto, gli egiziani che presero Gaza non permisero ai palestinesi nemmeno di lavorare e li tennero in miseria per usarli come un'arma contro di noi. È sempre stata la politica dei paesi arabi: usare i profughi come un'arma contro di noi. Hammarskjoeld aveva proposto un piano di sviluppo per il Medio Oriente, e questo piano prevedeva anzitutto il riassestamento dei profughi palestinesi. Ma i paesi arabi risposero no.
La responsabilità verso i palestinesi non è nostra: è degli arabi. Noi, in Israele, abbiamo assorbito circa un milione e quattrocentomila ebrei arabi: dall'Iraq, dallo Yemen, dall'Egitto, dalla Siria, dai paesi nordafricani come il Marocco. Gente che arrivando qui era piena di malattie e non sapeva far nulla. Tra i settantamila ebrei giunti dallo Yemen, per esempio, non c'era un solo medico né una sola infermiera: ed eran quasi tutti ammalati di tubercolosi. Eppure li prendemmo, e costruimmo ospedali per loro, e li curammo, li educammo, li mettemmo in case pulite e li trasformammo in agricoltori, medici, ingegneri, insegnanti... Tra i centocinquantamila ebrei che vennero dall'Iraq v'era un piccolissimo gruppo di intellettuali; eppure i loro figli, oggi, frequentano le università. Certo abbiamo problemi con loro, non è tutto oro quello che luccica, ma resta il fatto che li abbiamo accettati e aiutati. Gli arabi invece non fanno mai nulla per la propria gente. Se ne servono e basta.
Se dobbiamo parlare di profughi io le rammento che per secoli gli ebrei furono i profughi per eccellenza! Sparpagliati in paesi dove non si parlava la loro lingua, non si osservava la loro religione, non si conoscevano i loro costumi... Russia, Cecoslovacchia, Polonia, Germania, Francia, Italia, Inghilterra, Arabia, Africa... Chiusi nei ghetti, perseguitati, sterminati. Eppure sopravvissero, e non smisero mai d'essere un popolo, e si ritrovarono per fondare una nazione...
Io pensavo che in uno Stato ebreo non vi sarebbero stati i mali che affliggono le altre società. I furti, gli assassini!, la prostituzione... Lo pensavo perché ci eravamo avviati bene: quindici anni fa in Israele non c'erano quasi furti, e non c'erano assassini!, non c'era prostituzione. Ora invece abbiamo tutto, tutto... Ed è una cosa che fa male al cuore: ferisce più che scoprire di non avere ancora fatto una società più giusta, più uguale.
Bisogna ammettere che c'è una bella differenza tra l'ideologia socialista e il socialismo messo alla prova pratica. Tutti i partiti socialisti che sono arrivati al governo e hanno assunto le responsabilità di un paese son dovuti scendere a compromessi. Non solo: da quando i socialisti sono al potere in singoli paesi, il socialismo intemazionale è indebolito. Una cosa era fare il socialismo internazionale quando ero ragazza io, cioè quando nessun partito socialista era al potere, e una cosa è farlo ora.
La sinagoga, in Russia, è l'unico posto dove gli ebrei possono esprimere se stessi.
L'America che ho conosciuto io è un posto dove gli uomini a cavallo proteggono un corteo di lavoratori, la Russia che ho conosciuto io è un posto dove gli uomini a cavallo massacrano i giovani socialisti e gli ebrei.
L'America è un grande paese. Ha tante colpe, tante ineguaglianze sociali, ed è una tragedia che il problema dei negri non vi sia stato risolto cinquanta o cento anni fa, però resta un grande paese, un paese pieno di opportunità, di libertà! Ma le par niente poter dire quel che si vuole, scrivere quel che si vuole, anche contro il governo, l'establishment? Forse non sono obbiettiva, ma per l'America ho una tal gratitudine! Sono affezionata all'America: ok?
A me ha sempre fatto pena la gente che ha paura dei sentimenti, delle emozioni, e nasconde quello che prova e non sa piangere con tutto il cuore. Perché chi non sa piangere con tutto il cuore non sa nemmeno ridere a gola spiegata.
Le donne sono più pratiche, più realistiche. Non si disperdono in fumisterie come gli uomini, che girano sempre intorno all'albero per agguantare il nocciolo della questione.
Mia cara, la vecchiaia è come un aereo che vola nella tempesta. Una volta che ci sei dentro, non puoi farci più nulla. Non si ferma un aereo, non si ferma una tempesta, non si ferma il tempo. Quindi tanto vale pigliarsela calma, in saggezza.
Attribuite
O arabi, noi vi potremmo un giorno perdonare per aver ucciso i nostri figli, ma non vi perdoneremo mai per averci costretto ad uccidere i vostri.[1]
A mio avviso, anche se non si è affatto d'accordo con lei, con la sua politica, la sua ideologia, non si può far a meno di rispettarla, ammirarla, anzi volerle bene. (Oriana Fallaci)
Certo la femminilità è un'opinione, però a me Golda sembrò una femmina in tutto e per tutto. Quel pudore dolce, ad esempio. Quell'ingenuità quasi incredibile e pensare che poteva essere così smaliziata e furba quando nuotava tra i vortici della politica. (Oriana Fallaci)
Chiunque conosca Golda Meir non sarà sorpreso dalle sue decisioni. Golda Meir è una donna coraggiosa, tenace e decisa, e che oltretutto ha la fortuna di vedere il mondo tutto in bianco e nero, senza sfumature intermedie. (Moshe Dayan)
Lo stile di lavoro di Golda era caratterizzato da coerenza e decisione; non cercava mai di scansare le responsabilità, e le nostre discussioni si concludevano sempre con scelte o intese precise, mai con vaghe formule o rinvii. Soprattutto, Golda evitava di circondarsi di giornalisti pettegoli e assistenti disposti a favorire fughe di notizie in questioni di vitale importanza. La sua cerchia era composta da amici intimi, e io ero uno di loro. E, nelle questioni riguardanti la mia sfera d'attività, la difesa, tra noi non c'erano barriere di sorta. (Moshe Dayan)
Sapete, poco più di cinquant’anni fa [...] da giovane senatore, ho visitato Israele per la prima volta, da senatore appena eletto. E feci un lungo, lunghissimo viaggio – e un incontro con Golda Meir nel suo ufficio poco prima della guerra dello Yom Kippur. E credo che lei potesse vedere la costernazione sul mio volto mentre mi descriveva ciò che in quel momento stava affrontando – stavano affrontando. Siamo usciti in quella specie di corridoio fuori dal suo ufficio per fare delle foto. Lei mi guardò e all’improvviso mi disse: “Vuoi fare una foto?”. Così mi alzai e la seguii fuori. Eravamo lì in piedi, in silenzio, a guardare la stampa. Lei capì, credo, che ero preoccupato. Si è avvicinata e mi ha sussurrato: “Non si preoccupi, senatore Biden. Abbiamo un’arma segreta qui in Israele” – disse esattamente così – “Non abbiamo altro posto dove andare”. Non abbiamo un altro posto dove andare. (Joe Biden)
↑ Riferito da Fiamma Nirenstein su Radio radicale alle ore 6,30 del 21 gennaio 2009.