orientalista, esploratore e storico delle religioni italiano (1894-1984) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Giuseppe Tucci (1894 – 1984), esploratore, orientalista e storico delle religioni italiano.
Il mandala delinea la superficie consacrata e la preserva dall'invadere delle forze disgregatrici simboleggiate in cicli demoniaci. Ma è molto di più di una semplice superficie consacrata e da mantenere pura per gli scopi rituali e liturgici. Esso è di fatto un cosmogramma, è l'universo intero nel suo schema essenziale [...] Lo stesso principio regola naturalmente la costruzione dei templi: ogni tempio è un mandala. L'ingresso nel tempio non è soltanto l'ingresso nel luogo consacrato, ma l'entrata nel mysterium magnum. Il mandala allora non è più solo un cosmogramma ma uno psicogramma, lo schema della reintegrazione dal molto all'uno, a quella coscienza assoluta, intera, luminosa, che lo yoga fa nuovamente brillare in fondo all'essere nostro. (da Teoria e pratica del Mandala[1])
Il Nepal è [...] uno dei paesi più vari e complessi dell'Asia: ricco di colore ma anche di dolore. Sotto la vivacità dei vestiti e l'allegria chiassosa dei bazar si cela come un'angoscia, il presagio di un malfido corruccio della natura; l'avverti in ogni simbolo o forma. Sotto il sorriso e lo splendore delle cupole dorate dei templi incupisce la mole rossiccia delle cappelle senza finestre, impenetrabili: le porte non aprono un mistero ma lo difendono.[2]
[Il] Nepal, uno dei paesi per la natura stessa dei luoghi fra i più fascinosi dell'Asia: tutto un arruffìo di monti e colli, quasi uno sbriciolamento dell'Himalaya precipitato sulla terra, nello sforzo di toccare il cielo.[3]
In questo capitolo tratteremo brevemente della letteratura filosofica dell'India, cioè delle opere più importanti per la storia del suo pensiero. Cominceremo dal primo documento con cui la speculazione indiana si fa strada faticosamente per barlumi ed accostamenti, voglio dire la letteratura dei Brahmana. L'età della sua composizione probabilmente si aggira fra il 1000 e l'800 a.C. È una letteratura molto vasta, di contenuto quasi unicamente ritualistico: l'attenzione della casta sacerdotale, dalla quale questi libri sono usciti, è tutta incentrata sul sacrificio considerato il supremo fine, i momenti del rito sono interpretati simbolicamente ed inseriti in una visione cosmologica e cosmogonica del rito medesimo.
Citazioni
Oppure c'è in noi un principio misterioso che invisibile sostiene la vita nostra ed universa? Le Upanisad risposero affermativamente ed identificarono questo principio permanente con l'atman che non è l'io apparente, la persona che nasce, si corrompe e muore, ha un nome, è mossa da sentimenti e risentimenti, ma una misteriosa presenza immune dalle circostanze di spazio e di tempo, al di là di ogni passione: non multipla, sebbene in tutti presente, ma una: identificata perciò con il Brahman. (p. 38)
Di questi due sistemi[4] quasi sempre insieme si discorre perché entrambi hanno uno sfondo dottrinale comune, se ne togli che il Sankhya (o almeno certe sue correnti) non ammette l'esistenza di Dio e lo Yoga la postula, dando altresì grande importanza alla disciplina mentale e agli esercizi ascetici che questa favoriscono. È inutile ricercare le origini dello Yoga, che affondano in quel terreno magico nel quale vivono i popoli primitivi e che l'evolversi della cultura non riesce a far dimenticare pur sublimandolo Certe analogie nei particolari con le dottrine di antiche scuole iniziatiche della Cina, affioranti nel Taoismo, rendono assai probabile l'opinione che esistessero in gran parte dell'Asia meridionale sud-orientale certe prassi, basate soprattutto sul controllo del respiro e su processi autoipnotici, dalle quali lentamente e per gradi derivarono sia lo Yoga, sia quelle correnti taoiste di cui si è fatto parola. (p. 69)
Tanto il Sankhya che lo Yoga ammettono due sostanze opposte ma ugualmente eterne: da una parte le anime (purusa) infinite semplici, e dall'altra la natura naturante (prakrti), unica, dinamica, complessa. Le anime sono luminose, pura intelligenza, ma inattive, impassibili, non soggette né a gioia né a dolore: esse non sono psiche, che, come vedremo, è evoluta dall'altro principio, ma l'io metempirico, essere coscienziale. Lo Yoga, a differenza del Sankhya, afferma l'esistenza di Dio come supremo regolatore del moto della natura che, non essendo intelligente, non potrebbe svolgersi con la necessaria regolarità intesa alla liberazione delle anime (purusartha). Dio non è il creatore della natura naturante, ma un'anima eccelsa, che con la sua perfezione stimola l'uomo a sciogliersi dai legami della materia. (p. 73)
La natura naturante[5], dunque, è il sottostrato di tutto: ogni cosa parte da lei, ogni cosa in lei torna, ad essa dobbiamo il mondo in cui viviamo; le idee, le volizioni, i sentimenti sono possibili soltanto in virtù di cotesta prakrti che tutto crea, determina e condiziona. (p. 76)
Naturalmente il concetto di Dio anche nello Yoga, come è accaduto nel Nyaya, è passato per diversi stadi: dalla primitiva, indifferente presenza, Dio è diventato, sotto l'influsso delle correnti teistiche, un coadiutore attivo della salvazione. L'assimilazione con lo Sciva della religione popolare gli conferisce a poco a poco tutte le proprietà dello Isvara, il Supremo onnipotente. (p. 80)
Il Vedanta dunque prende le mosse da alcune Upanisad ed è stato codificato nei Brahmasutra o Vedantasutra attribuiti a Badarayana. Di fatto tuttavia presto si profilarono diversi modi di intendere le implicazioni delle brevi sentenze[6]. Avvenne perciò che il Vedanta si divise in vari rami che duramente si avversarono: da una parte, per parlare solo dei maggiori e più noti indirizzi, l'Advaita, il monismo assoluto, e dall'altra il Visistadvaita, monismo differenziato, con molte variazioni intermedie che vanno dalle scuole Dvaita, dualiste, a quelle del Bhedabheda della identità nella differenza, per monismo o dualismo intendendosi rispettivamente la esistenza di un unico principio o la differenza fra l'anima umana e quell'assoluto. (p. 102)
Secondo queste scuole[7] il mondo è identico a Dio: tutto ciò che è accaduto, accade ed accadrà, tutte le possibili esperienze e forme sono soltanto manifestazioni (abhasa) di Dio, o sue emanazioni. Ciò che è od appare, in altre parole, è l'evolversi della coscienza divina nel suo mai interrotto processo di stasi, di risveglio, di piena coscienza, di torpore e di sonno. (p. 107)
A differenza della Mimamsa, i Veda, che per questa scuola sono eterni ed increati, sono detti dal Nyaya prodotti ed emanati da Dio; le parole e le lettere che li compongono non sono eterne ma anche esse generate. (p. 396)
Ramakrishna, come dissi nella commemorazione che ne feci, è ancora vivo e presente nell'India moderna, la quale traverso l'interpretazione che ne diede Vivekanada, ha visto in lui il rinnovatore dell'anima indiana: colui cioè che ha riportato gli spiriti a una spontaneità e immediatezza di sentire; che non solo purifica la religione, ma fortifica e nobilita le qualità morali.
La personalità umana è sogno: il fine del conoscere e dell'operare è l'âtman o il nirvâna, definizione l'una positiva, l'altra negativa della stessa indiscriminabile realtà nella quale il molteplice si annulla e il divenire cede all'essere o il tempo all'eterno. È evidente perciò che la mistica abbia avuto in India preminenza sulla scienza. La scienza parte dal presupposto che il mondo sia reale, ma per l'India il mondo è un sogno, anche per quei sistemi, come quelli tantrici, che lo consideravano come la veste o il velo o il gioco di Dio: perché è sempre un miraggio che bisogna raggiungere. Su tali basi non può sorgere e svilupparsi nessuna scienza degna di questo nome: la vera scienza dell'India è stata la psicologia mistica intesa ad indicare la via per cui l'uomo si annulli, con le proprie forze, nel tutto. E questo annullamento della personalità può ottenersi quando, per progressivo ascendere, l'uomo si smaterializzi e quindi si perda nell'infinita luce delle coscienza cosmica, che è perfezione di essere, intelligenza e beatitudine.
In India la liberazione non deriva da una lotta vittoriosa del bene sul male; il problema etico esula quasi dalla filosofia indiana la quale considera bene e male aspetti del contingente e del divenire, così come stima le esistenze paradisiache non desiderabili perché anch'esse soggette al fatale decadimento di tutto ciò che abbia una forma o rappresenti uno stato d'essere. La liberazione non è la soppressione del male, ma la soppressione del non conoscere. E non conoscere è ogni operazione dell'intelletto umano, perché ogni operazione dell'intelletto, creando i suoi fantasmi e le sue costruzioni, ci allontana da quell'indiscriminata coscienza cosmica che è la scaturigine e il presupposto di ogni pensiero particolare, ma nella quale questo pensiero particolare deve annullarsi e spegnersi.
Due paesi al mondo possono vantarsi di aver raggiunto tanto alta cultura e così universale da poterla spargere per continenti interi informando quasi delle proprie creazioni lo spirito di popoli disparatissimi: l'Italia e l'India [...].
↑ Citato in Daniele Corradetti e Gioni Chiocchetti, Le forme e il divino, edizioni Argonautiche, p. 26. ISBN 978-88-95299-27-3
↑ Da Tra giungle e pagode, fotografie di F. Bonardi e C. Guttuso, Newton, Grandi tascabili economici, Roma, 1996, p. 20. ISBN 88-8183-442-1