Quando all'inizio del '900, Bolton King e Thomas Okey condussero la loro inchiesta sull'Italia del tempo, nessuno avrebbe potuto prevedere che l'Europa sarebbe stata travolta in una immane guerra mondiale, che l'Italia stessa – e l'Europa – avrebbero visto oscurarsi il loro cielo per le tempeste che poi presero nome dal fascismo. Il libro dei due scrittori inglesi[1], al contrario, auspicava o quanto meno tendeva a incoraggiare il rafforzamento del partito liberale, allora, per breve momento, diretto insieme da Zanardelli e da Giolitti. Ma tuttavia, nello stesso tempo, l'inchiesta esprimeva qua e là motivi realistici di preoccupazione e previsioni non immotivate di pericoli che già sembravano affondare le radici non solo nel presente ma in tutta una tradizione e – più ancora – nella dislocazione e in certe tendenze delle forze vive della società italiana.
Citazioni
Lo Stato liberale, nei quarant'anni trascorsi dalla proclamazione del regno, aveva resistito ad ogni sorta di difficoltà interne ed esterne: aveva domato il brigantaggio, ma non aveva risolto la questione del Mezzogiorno, si era dato una struttura amministrativa uniforme, ma non aveva spento il regionalismo, era uscito dall'isolamento internazionale, ma la questione romana non era chiusa, si affacciava ad un secolo nuovo, ma il popolo nelle città e nelle campagne, rimaneva ed era tenuto lontano dal governo della cosa pubblica. (vol. I, pp. 44-45)
L'appello alla «giovinezza», il richiamo al combattentismo, il tentativo di dar vita ad un «arditismo civile», l'ideologia del rinnovamento nazionale, unitamente al culto dell'energia e della violenza, il gusto del non conformismo, il disprezzo per la tradizione e per le masse, velleità spiritualiste e neoidealiste, irrazionaliste e romantiche, contro l'ordine costituito e le tendenze dell'epoca e della maggioranza, il tutto mescolato con un pizzico di eroico decadentismo e di fumisteria futurista (quando già il futurismo, almeno in Italia, era alla sua seconda e minore stagione). Questi gli ingredienti ideologici e psicologici degli elaboratori dei primi programmi fascisti e della prima letteratura politica che uscì dalla fucina futurista al primo esordio del fascismo. (vol. I, pp. 264-265)
Nei primi giorni dopo il delitto [Matteotti], Mussolini aveva certamente esitato, piegato e oscillato in uno stato d'animo pieno di ripensamenti; ma già allora aveva delineato, come si è visto, una tattica elastica e duplice, in cui del resto era naturalmente versato per le esperienze attraverso le quali era passato negli anni precedenti, a partire almeno dalla crisi e dalla svolta interventista del 1914. (vol. I, p. 646)
Il corporativismo fascista presentava così, fin dalle sue origini, un divario notevolissimo fra formulazioni dottrinali e realizzazioni o applicazioni pratiche: il ministero delle corporazioni era ben lontano dal poter incidere sul governo dell'economia nazionale, che rimaneva affidato al conte Volpi[2], in rappresentanza dell'alta finanza e dell'industria; e per lungo tempo – fino alla scomparsa del regime – non fu altro che una costruzione burocratica, volta ad imbrigliare la grande massa dei «produttori», un edificio senza basi reali nello sviluppo economico nazionale e senza investitura democratica; mentre i centri decisionali del potere economico rimanevano nelle mani di una ristretta oligarchia capitalistica strettamente saldata con le leve politiche del governo e del partito. (vol. II, p. 89)
La prima polemica aperta fra la Chiesa e il regime fascista [dopo i Patti lateranensi del 1929] era intanto sorta sulla questione, come si è detto, dell'Opera Balilla, che veniva a limitare grandemente lo sviluppo e l'esistenza autonoma dei boy-scouts, l'organizzazione giovanile che faceva capo all'Azione cattolica italiana. [...]. Dietro l'Opera Balilla, da una parte, e gli esploratori cattolici, dall'altra, si delineava un contrasto di fondo. Due esclusivismi, l'uno tipicamente politico-statale, l'altro religioso-ecclesiastico, si contendevano il predominio sulle linee di sviluppo della società civile. (vol. II, pp. 277-278)
Gajda era stato uno dei capi delle legioni cecoslovacche in Russia e braccio destro dell'ammiraglio Kolciak[3]. Nel 26, essendo capo di stato maggiore e ispirandosi alla marcia su Varsavia del maresciallo Pilsudsky[4], aveva tentato il colpo di Stato. Epigono reazionario del panslavismo ed antibolscevico imparentato coi russi bianchi, ebbe in Italia la fama di un «Mussolini cecoslovacco». (vol. II, nota 24, pp. 597-598)
La definitiva vittoria di Franco nella guerra civile spagnola sanzionava il rovesciamento dei rapporti di forza in tutta l'Europa centro-occidentale. Hitler torna a guardare ad oriente, al confine polacco, e il 28 di aprile proclamerà ufficialmente la questione dello «spazio vitale» e denuncerà insieme col patto navale anglo-germanico del 1937 il patto tedesco-polacco di amicizia e collaborazione del 1934. La tragedia spagnola si era compiuta: il programma della lotta fino in fondo contro le forze aggressive del fascismo, propugnato dai comunisti, dalla sinistra socialista e repubblicana era stato sconfitto. (vol. III, pp 214-215)