Chi ascolta un superstite dell'Olocausto diventa a sua volta un testimone.[1]
Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.[2]
Omicidio a sangue freddo e cultura non si escludono a vicenda. Se l'Olocausto ci ha dimostrato qualcosa, è che una persona può amare la poesia e comunque uccidere i bambini.[4]
Prendi posizione. La neutralità favorisce sempre l'oppressore, non la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, mai il torturato.[5]
Se con l'Olocausto Dio ha scelto di interrogare l'uomo, spetta a questi rispondere con una ricerca che ha Dio per oggetto.[6]
Una città assediata dove la gente si aggira come fantasmi, gli alunni non vanno a scuola e i professori non hanno nulla da insegnare. La gente non sa dove incontrarsi: la notte arriva troppo presto e l'alba troppo tardi.[7]
Volevano ad ogni costo uccidere l'ultimo ebreo sul pianeta. Oggi ci si potrebbe chiedere: perché la memoria, perché ricordare, perché infliggere un dolore tale? In fondo per i morti è tardi ma per i vivi no. Se non si può annullare il tormento, si può invece sperare, riflettere, prendere coscienza.[8]
↑ Citato in Tom Regan, Gabbie vuote, traduzione di Massimo Filippi e Alessandra Galbiati, Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2005, p. 6. ISBN 88-7106-425-9