scrittore italiano (1898-1957) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Curzio Malaparte, pseudonimo di Kurt Erich Suckert (1898 – 1957), scrittore e giornalista italiano.
A giudicare dai lamenti, dalle minacce, dalle esortazioni e dalle preghiere dell'on. Scalfaro, si direbbe che l'Italia sia un sobborgo di Sodoma, la Bestia dell'Apocalisse, un museo dei vizi, una scuola di depravazione, una sentina d'impurità ed una nazione infine senza pudore né dignità. (da Due anni di battibecco, 1953-1955, Aria d'Italia, 1957; citato in Roberto Gervaso, I sinistri, Ed. Mondadori)
Chi non sa che le Muse non sono nove ma diciotto? Nove Muse intelligenti, per gli scrittori intelligenti, e nove cretine per gli scrittori cretini.[1]
Dall'America era sbarcata in Europa una folla enorme di omosessuali di ogni classe sociale [...] fra quei giovani, una certa aria pederastica fosse di moda, altrettanto quanto una certa tendenza al Comunismo. Io avevo avuto in animo di dedicare un numero, appunto a Pederastia e marxismo, ma poi ne fui dissuaso, con ragione, sia da Guttuso, comunista, sia da Moravia, non comunista, perché in quel tempo il Comunismo era una forza antifascista. (da Mamma Marcia, Vallecchi, 1959, p. 264)
È di regola, a proposito di Montherlant, citare Barrès. E se i più colti risalgono nientemeno che a Pindaro, a Senofonte, (al Senofonte ufficiale di cavalleria, più che al discepolo di Socrate), e all'inevitabile Alcibiade, i più avvertiti risalgono a Bossuet, a Pascal. Tanto par facile ritrovare in certo sontuoso spirito cattolico del Gran Secolo, o nella febbrile e crudele introspezione pascaliana, quel miscuglio di sensualità, di erotismo, e d'inquietudine cristiana, che fa sì forti al palato le migliori pagine. [...] Montherlant si mostra nella sua vera natura, fredda e violenta, dominata e repressa da un ordine morale che in lui, di antica e nobile famiglia, né la cultura né l'estetismo son riusciti a corrompere. Un ordine morale cattolico, nel suo significato più cavalleresco.[2]
È sempre la solita storia, dopo una guerra. I giovani reagiscono all'eroismo, alla retorica del sacrificio, della morte eroica, e reagiscono sempre allo stesso modo. Per disgusto dell'eroismo, dei nobili ideali, degli ideali eroici, sai che fanno i giovani come te? Scelgono sempre la rivolta più facile, quella della viltà, dell'indifferenza morale, del narcisismo. Si credono dei ribelli, dei blasés, degli affranchis, dei nichilisti e non son che puttane [...]. Ne ho conosciuti migliaia come te, dopo l'altra guerra, che credevano d'essere dadaisti o surrealisti, e non erano che puttane. Vedrai, dopo questa guerra, quanti giovani crederanno d'essere comunisti. Quando gli alleati avranno liberato tutta l'Europa, sai che troveranno? Una massa di giovani delusi, corrotti, disperati, che giocheranno a fare i pederasti come giocherebbero al tennis.[3]
Finché tu soffri per te, per la tua fame, per la miseria tua, della tua donna e dei tuoi figli. Finché ti avvilisci e ti rassegni allora tutto va bene. Sei un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Ma appena tu soffri per la fame degli altri, per la miseria dei figli degli altri, per l'umiliazione degli altri uomini allora sei un uomo pericoloso, un nemico della società. (da Il Cristo proibito, p. 216)
Forse il sole non passa attraverso il vetro senza romperlo? (da Il Cristo proibito, p. 128)
Gli italiani amano più le rivoluzioni che i rivoluzionari, e più i galantuomini tenuti in sospetto dagli zelatori, che quelli in odore di santità. (da Don Camalèo)
I colpi di Stato di Primo de Rivera e di Pilsudzki appaiono concepiti ed eseguiti secondo le regole di una tattica tradizionale, che non ha nessuna analogia con quella fascista.[4]
I vinti sono buoni e generosi. I vincitori cattivi ed egoisti. Preferisco i vinti: ma non potrei adattarmi alla condizione di vinto.[5]
[...] in piedi | Cacciatori delle Alpi. Oggi bisogna | balzare in piedi con un grido solo: | — Avanti! — Come quando | sotto l'ultima cima | l'impeto dell'assalto | s'aggrovigliava nell'insidia ed alto | sempre era il grido — Avanti! — Come quando | sul viluppo dei monti | uno di voi, stronco non domo, urlò: | — Avanti i morti! — | e l'impeto passò. (citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 674)
L'epigramma è una pistola corta, e ammazza più sicuramente di un archibugio. (da Il battibecco)
L'otto Settembre è memorabil data corremmo a vincer insieme coi nemici la guerra che avevamo già perso con gli amici.[6]
La legge in Italia, è come l'onore delle puttane. (da Il battibecco)
La morale effeminata è la morale dei deboli. (da Mamma Marcia, Vallecchi, 1959[7])
La Rivoluzione d'ottobre [rivoluzione fascista dell'ottobre 1922] non può e non deve ripetere gli errori del Risorgimento, finito in malo modo nel compromesso antirivoluzionario del Settanta, che preparò il ritorno al potere attraverso il liberalismo, la democrazia, il socialismo, di quegli elementi borbonici, granducali, austriacanti, papalini che avevano sempre combattuto e bestemmiato l'idea e gli eroi del Risorgimento. È necessario che il Fascismo prosegua senza esitazioni il suo fatale cammino rivoluzionario. (su L'Impero, 18 aprile 1923[8])
La sosta a Ulan Bator è stata breve, e già siamo di nuovo in volo attraverso il deserto di Gobi, corso dalle alte nuvole di sabbia purpurea, che l'implacabile vento della Mongolia solleva da ogni parte dell'orizzonte. Lo spettacolo è terribile e meraviglioso. Fin dove giunga lo sguardo, questo mare di sabbia quando rossa quando gialla quando viola si stende all'infinito, ora con lievi ondulazioni, ora con improvvisi tumulti di rocce nere, lucenti come rupi di ossidiana, ora placandosi in crateri immensi, bianchi di sale. Lunghe file di cammelli punteggiano di quando in quando il deserto: sono le carovane che dalla Mongolia vanno al Sinkiang, il Turkestan cinese, al Tibet, allo Shansi, alla Cina centrale, a Pekino. Percorrono l'antica «via della seta», portano pelli grezze, pellicce, lana, tappeti preziosi. È il deserto di Gobi che domina e regola il clima di gran parte dell'Asia continentale: la sua sabbia, portata dal vento, giunge fino a Pekino, fino alle rive del Pacifico, copre di una impalpabile coltre gialla le pianure della Cina settentrionale e centrale. Non v'è Grande Muraglia che possa impedire il passo alla sabbia del Gobi.[9]
Mi si biasimi pure, ma io sono un uomo e amo la guerra. Non ho l'ipocrisia di dire: "Non amo la guerra". Io l'amo, come ogni uomo ben nato, sano, coraggioso, forte, ama la guerra, come ogni uomo che non è contento degli uomini, né dei loro misfatti. (da Diario di uno straniero a Parigi, Vallecchi, Firenze, 1966, p. 103)
Non sarà mai ripetuto abbastanza che una cosa è l'Italia, altra cosa è lo Stato italiano, e che tanto è cosa meravigliosa l'Italia, quanto è misera cosa lo Stato italiano.[10]
Non so quale sia più difficile, se il mestiere del vinto o quello del vincitore: di una cosa sono certo, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei vincitori.[11]
Penso che se fossi vissuto in una società più virile e in mezzo a un popolo più virile sarei forse potuto diventare un uomo nel vero senso della parola. Ma se dovessi definirmi con una sola parola direi che, nonostante tutto, sono un uomo.[5]
Per molto tempo almeno, vedremo continuarsi nell'antifascismo, adattandosi alle circostanze nuove, molti dei metodi e della mentalità fascista. Si farà dell'antifascismo di natura fascista. (da Malaparte: 1950-1951, a cura di Edda Ronchi Suckert, Ponte alla Grazie, Milano, 1994, p. 422)
Primo de Rivera e Pilsudzki s'immaginano che per impadronirsi di uno Stato moderno basti rovesciare con le armi un governo costituzionale.[12]
[Mussolini] Stringeva nella mano una rosa color carne. Mussolini ha sempre una rosa stretta con delicatezza nel pugno. [...] Quel gesto all'Oscar Wilde, quel gesto, in un certo senso, byroniano, quel gesto decadente, mi mise a disagio. Egli non sa il valore, il senso di quel suo gesto, di quella sua rosa. Il giorno in cui egli sarà fucilato, io vorrei esser presente per mettergli una rosa nella mano rattrappita. Non per insultarlo, per mancargli di rispetto: no. Non mi piace mancar di rispetto ai morti. (da Diario di uno straniero a Parigi)
Tutti gli scrittori sono stati fascisti, nella qual cosa non vi è nulla di male. Ma perché oggi pretendono di farsi passare antifascisti, per martiri della libertà, per vittime della tirannia? Nessuno di loro, dico nessuno, ha mai avuto un solo gesto di ribellione contro il fascismo, mai. Tutti hanno piegato la schiena, con infinita ipocrisia, leccando le scarpe a Mussolini e al fascismo. E i loro romanzi erano pure esercitazioni retoriche, senza l'ombra di coraggio e di indipendenza morale e intellettuale. Oggi […] scrivono romanzi antifascisti come ieri scrivevano romanzi fascisti; tutti, compreso Alberto Moravia, che gli stessi comunisti (quando Moravia non filtrava ancora col comunismo) definivano uno scrittore borghese, e perciò fascista. L'attuale romanzo italiano rispecchia l'attuale conformismo anti-fascista del popolo italiano, come ieri rispecchiava il conformismo fascista e […] rivela lo sforzo degli scrittori di conquistarsi una libertà formale e contenutistica in contrasto col loro inguaribile conformismo personale morale e intellettuale. (Citato in Non è con l'omertà intellettuale che riscopriremo Curzio Malaparte. Intervista a Luigi Martellini di Luca Meneghel, in l'Occidentale, 2 agosto 2009)
Il manoscritto di Kaputt ha una storia: e mi sembra che nessuna prefazione convenga a questo libro meglio della storia segreta del suo manoscritto. Ho cominciato a scrivere Kaputt nell'estate del 1941, all'inizio della guerra tedesca contro la Russia, nel villaggio di Pestcianka, in Ucraina, in casa del contadino Roman Suchèna. Ogni mattina mi sedevo nell'orto, sotto un albero di acacia, e mi mettevo a lavorare, mentre il contadino, seduto per terra presso il porcile, affilava le falci, o affettava le barbabietole e le verze per i suoi maiali. La casa, dal tetto di stoppie, dai muri di terra e di paglia tritata, impastata con sterco di bue, era piccola e pulita: non aveva altra ricchezza fuorché una radio, un grammofono, e una piccola biblioteca con tutte le opere di Puschkin e di Gogol.
Citazioni
Muore tutto ciò che l'Europa ha di nobile, di gentile, di puro. La nostra patria è il cavallo. Voi capite quel che voglio dire. La nostra patria muore, la nostra antica patria. E tutte quelle immagini ossessionanti, quella continua ossessione dei nitriti, dell'odore orrendo e triste dei cavalli morti, rovesciati sulle strade della guerra, non vi pare che rispondano alle immagini della guerra, alla nostra voce, al nostro odore, all'odore dell'Europa morta? Non vi sembra che anche quel sogno significhi qualcosa di simile? Ma forse è meglio non interpretare i sogni. (Parte prima, p. 76)
Quando finalmente Mosley entrò da Laure, eran quasi le quattro del pomeriggio. Nicolson ed io avevamo già bevuto cinque o sei Martini, e avevamo cominciato a mangiare; non ricordo più quel che stavamo mangiando, né di che cosa ci mettemmo a discorrere, ricordo soltanto che Mosley aveva una testa molto piccola, una voce dolce, che era alto, altissimo, magro, indolente, un po' curvo, e che, per nulla dispiaciuto anzi perfettamente soddisfatto del suo ritardo, «on n'est jamais pressé quand il s'agit d'arriver en retard» disse, non per scusarsi, ma per farci intendere che non era così stupido da non capire che era giunto in ritardo. Nicolson ed io ci mettemmo subito d'accordo con un'occhiata, e, per tutta la durata della colazione, Mosley non ebbe neppure il più lieve sospetto che ci fossimo messi d'accordo per prenderci gioco di lui. Mi parve che fosse largamente dotato di sense of humour: ma, come tutti i dittatori (Mosley non era se non un pretendente alla dittatura, aveva però, senza alcun dubbio, ahimè, la stoffa del perfetto dittatore, e si sa di che lana è fatta quella stoffa!) non sospettava neppur lontanamente che si potesse prendersi gioco di lui. (Parte seconda, p. 123)
[Mosley] Aveva portato con sé una copia dell'edizione inglese del mio libro Technique du coup d'État, e desiderava che gli scrivessi una dedica sul frontespizio. Egli si aspettava forse da me una dedica ditirambica: così, per deluderlo malignamente, scrissi sul frontespizio soltanto queste due frasi del mio libro: «Hitler, come tutti i dittatori, non è che una donna» e «La dittatura è la forma più completa della gelosia». Mosley, leggendo quelle parole, si turbò, e guardandomi con gli occhi socchiusi «anche Cesare, per voi, non era che una donna?» mi domandò con un lievissimo accento d'irritazione. Nicolson si conteneva per non ridere e mi faceva segno con gli occhi. «Era assai peggio di una donna» risposi, «Cesare non era un gentleman». «Cesare non era un gentleman?» disse Mosley stupito. «Uno straniero» risposi, «che si permette di conquistar l'Inghilterra, non è certo un gentleman.» (Parte seconda, pp. 123-124)
Mussolini crede in se stesso, se tuttavia crede in qualcosa: ma non crede all'incompatibilità fra la logica e la fortuna, tra la volontà e il destino. La sua voce è calda, grave, eppur delicata. Una voce che talvolta ha strani, profondi accenti femminili, un che di morbosamente femmineo. (Parte sesta, p. 376)
«Perché non fate la lotta alle mosche, anche a Napoli? Da noi, nell'Italia del nord, a Milano, a Torino, a Firenze, perfino a Roma, i comuni hanno organizzato la lotta alle mosche. Non c'è più neppure una mosca nelle nostre città». «Non c'è più neppure una mosca a Milano?». «No, neppure una mosca. Le abbiamo ammazzate tutte. E una cosa igienica, si evitano le infezioni, le malattie». «Eh, ma anche a Napoli abbiamo fatto la lotta alle mosche, anzi, abbiamo fatto addirittura la guerra alle mosche. Son tre anni che facciamo la guerra alle mosche». «E allora, come mai ci sono ancora tante mosche, a Napoli?». «Eh, che volete, signore: hanno vinto le mosche!»
Erano i giorni della «peste» di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz'ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall'alba all'ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo. Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L'onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d'Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l'agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori. Ma nonostante l'universale e sincero entusiasmo, non v'era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell'animo del popolo.
Citazioni
La peste
È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla.
Nessun popolo sulla terra ha mai tanto sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice nessuno, non odia nessuno: neppure la miseria. Cristo era napoletano.
Voglio bene agli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, e l'ho provato cento volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l'anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché credono che Cristo sia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, che è una cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini, e che tutti i popoli d'Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è un atto di giustizia divina.
Il 1 ottobre 1943 è una data memorabile nella storia di Napoli: perché segna l'inizio della liberazione dell'Italia e dell'Europa dall'angoscia, dalla vergogna, e dalle sofferenze della schiavitù e della guerra, e perché proprio in quel giorno scoppiò la terribile peste, che da quell'infelice città si sparse a poco a poco per tutta l'Italia e per tutta l'Europa.
Ma le zone più frequentate dai liberatori erano proprio quelle Off limits, cioè quelle più infette e perciò più vietate, poiché è nella natura dell'uomo, specie dei soldati di tutti i tempi e di qualunque esercito, preferire le cose proibite a quelle permesse.
Ma quel che più commuoveva il popolo napoletano era la gentilezza di modi dei liberatori, specie degli americani, la loro disinvolta urbanità, il loro senso di umanità, il loro sorriso innocente e cordiale di onesti, buoni, ingenui ragazzoni. Se è mai stato un onore perdere la guerra, era certamente un grande onore, per i napoletani, e per tutti gli altri popoli vinti dell'Europa, aver perduto la guerra di fronte a soldati così cortesi, eleganti, lindi, così buoni e generosi.
La fame umana ha una voce meravigliosamente dolce e pura. Non v'è nulla di umano nella voce della fame.
Napoli [...] è la più misteriosa città d'Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell'immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. [...] Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli.
La vergine di Napoli
Quel popolo che nelle strade faceva commercio di se stesso, del proprio onore, del proprio corpo, e della carne dei propri figli, poteva mai essere lo stesso popolo che pochi giorni innanzi, in quelle stesse strade, aveva dato così grandi e così orribili prove di coraggio e di furore contro i tedeschi?
[L'8 settembre 1943] Era stata proprio una bellissima festa, una festa indimenticabile. In tre anni di guerra non ci eravamo mai tanto divertiti. A sera eravamo stanchi morti, avevamo la bocca tutta indolenzita dal gran ridere, ma eravamo orgogliosi di aver compiuto il nostro dovere. Finita la festa, ci ordinammo in colonna, e così, senz'armi, senza bandiere, ci avviammo verso i nuovi campi di battaglia, per andare a vincere con gli alleati quella stessa guerra che avevamo già persa con i tedeschi. Marciavamo a testa alta, cantando, fieri di aver insegnato ai popoli di Europa che non c'è ormai altro modo di vincer le guerre che buttar le proprie armi e le proprie bandiere, eroicamente, nel fango, 'ai piedi del primo venuto'.
Le parrucche
Gli organi genitali hanno sempre avuto una grande importanza nella vita dei popoli latini, e specialmente nella vita del popolo italiano. La vera bandiera italiana non è il tricolore, ma il sesso, il sesso maschile.
Tutti piangevano, poiché un lutto, a Napoli, è un lutto comune, non di uno solo, né di pochi o di molti, ma di tutti, e il dolore di ciascuno è il dolore di tutta la città, la fame di uno solo è la fame di tutti. Non v'è dolore privato, a Napoli, né miseria privata: tutti soffrono e piangono l'uno per l'altro, e non c'è angoscia, non c'è fame, né colera, né strage, che questo popolo buono, infelice, e generoso, non consideri un tesoro comune, un comune patrimonio di lacrime.
Le rose di carne
Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle, soltanto per la propria pelle. Tutto il resto non conta.
Il vento nero
Trattenni il cavallo, tesi l'orecchio. Udii veramente parlare sul mio capo, voci umane passar nell'aria nera, alte sulla mia testa. "Wer da?" gridai "chi va là?" [...] Le voci passavano alte sulla mia testa, erano proprio parole umane, parole tedesche, russe, ebraiche. Le voci erano forti, che si parlavan tra loro, ma un po' stridule: talvolta dure, talvolta fredde e fragili come il vento, e spesso si rompevano in fondo alle parole con quel tintinnio del vetro che urta in una pietra. Allora gridai di nuovo: "Wer da? chi va là?". "Chi sei? che vuoi? chi è? chi è?" risposero alcune voci, correndo alte sulla mia testa. [...] "Sono un uomo, sono un cristiano" dissi. Un riso stridulo corse nel cielo nero, si perdé lontano nella notte. E una voce, più delle altre forte, gridò: "Ah, sei un cristiano, tu?". Io risposi: "Sì, sono un cristiano". Una risata di scherno accolse le mie parole, e alto correndo sulla mia testa si allontanò, andò a spegnersi a poco a poco laggiù nella notte. "E non ti vergogni d'esser cristiano?" gridò la voce.[...] Un grido di orrore mi si ruppe nella gola. Erano uomini crocifissi. Erano uomini inchiodati ai tronchi degli alberi, le braccia aperte in croce, i piedi congiunti, fissati al tronco da lunghi chiodi, o da fili di ferro attorti intorno alle caviglie.
Molti eran vestiti del nero kaftano ebraico, molti erano nudi, e la loro carne splendeva castamente nel tepore freddo della Luna. Simile all'uovo turgido di vita, che nei sepolcreti etruschi di Tarquinia i morti sollevano fra due dita, simbolo di fecondità e di eternità, la luna usciva di sotterra, si librava nel cielo, bianca e fredda come un uovo: illuminando i visi barbuti, le nere occhiaie, le bocche spalancate, le membra contorte degli uomini crocifissi. Mi sollevai sulle staffe, tesi le mani verso uno di loro, tentai con le unghie di strappare i chiodi che gli trafiggevano i piedi. Ma voci di sdegno si levarono intorno, e l'uomo crocifisso urlò: "Non mi toccare, maledetto". "Non voglio farvi del male" gridai "per l'amor di Dio, lasciate che vi venga in aiuto!" Una risata orribile corse d'albero in albero, di croce in croce, e vidi le teste muoversi qua e là, le barbe agitarsi e le bocche aprirsi e chiudersi: e udii lo stridore dei denti. "Venirci in aiuto?" gridò la voce dall'alto "e perché? forse perché hai pietà di noi? perché sei un cristiano? [...] Coloro che ci hanno messi in croce, non sono forse cristiani come te? Son forse cani, cavalli, o topi, coloro che ci hanno inchiodati a questi alberi? [...] "Non sono stato io" gridai "non sono stato io a inchiodarvi agli alberi! Non sono stato io!". "Lo so" disse la voce con un inesprimibile accento di dolcezza e di odio "lo so, sono stati gli altri, sono stati tutti gli altri come te".
"Ah! ah! ah!" gridò l'uomo crocifisso "avete udito? Vuol toglierci dalla croce! E non se ne vergogna! Razza immonda di cristiani, ci torturate, ci inchiodate agli alberi, e poi venite a offrirci la vostra pietà! Vorreste salvarvi l'anima, eh? Avete paura dell'inferno! Ah! ah! ah! [...] Vuoi toglierci dalla croce?" disse l'uomo crocifisso con voce grave e triste "e poi? I tedeschi ci ammazzeranno come cani. E anche te, ti ammazzeranno come un cane arrabbiato." [...] Non sapete far altro, vigliacchi? Ci inchiodate agli alberi e poi ci ammazzate con un colpo nella testa? E' questa la vostra pietà, vigliacchi?".
La notte mi assalì la febbre, e fino all'alba delirai, vegliato dal giovane ufficiale.[...] Il terzo giorno mi alzai dal letto e presi congedo dal giovane ufficiale [...] quando imboccammo il viale fiancheggiato d'alberi, chiusi gli occhi, e dato di sprone al cavallo m'inoltrai di galoppo fra le due terribili schiere d'uomini crocifissi. [...] A un tratto frenai il cavallo: "Che è questo silenzio?" gridai "perché questo silenzio?". Avevo riconosciuto quel silenzio. Aprii gli occhi, e guardai. Quegli orribili Cristi pendevano inerti dalle loro croci: gli occhi sbarrati, la bocca spalancata, e mi guardavano fisso.
Un giorno Febo uscì, e non tornò più. Lo aspettai fino a sera, e scesa la notte corsi per le strade, chiamandolo per nome. Tornai a casa a notte alta, mi buttai sul letto, col viso verso la porta socchiusa. Ogni tanto mi affacciavo alla finestra, e lo chiamavo a lungo, gridando. [...] Non appena si fece giorno, corsi alla prigione municipale dei cani. Entrai in una stanza grigia, dove, chiusi in fetide gabbie, gemevano cani dalla gola ancora segnata dalla stretta del laccio del chiappino. Il guardiano mi disse che forse il mio cane era rimasto sotto una macchina o era stato rubato, o buttato a fiume da qualche banda di giovinastri. [...] Tutta la mattina corsi di canaio in canaio, e finalmente un tosacani, in una botteguccia di Piazza dei Cavalieri, mi domandò se ero stato alla Clinica Veterinaria dell'Università, alla quale i ladri di cani vendono per pochi soldi gli animali destinati alle esperienze cliniche. Corsi all'Università, ma era già passato mezzogiorno, la Clinica Veterinaria era chiusa. Tornai a casa, mi sentivo nel cavo degli occhi un che di freddo, di liscio, mi pareva di aver gli occhi di vetro. Nel pomeriggio tornai all'Università, entrai nella Clinica Veterinaria. [...] Lungo le pareti erano allineate l'una a fianco dell'altra, come i letti di una clinica per bambini, strane culle in forma di violoncello: in ognuna di quelle culle era disteso sul dorso un cane dal ventre aperto, o dal cranio spaccato, o dal petto spalancato.
Sottili fili di acciaio, avvolti intorno a quella stessa sorta di viti di legno che negli strumenti musicali servono a tender le corde, tenevano aperte le labbra di quelle orrende ferite: si vedeva il cuore nudo pulsare, i polmoni dalle venature dei bronchi simili a rami d'albero, gonfiarsi proprio come fa la chioma di un albero nel respiro del vento, il rosso, lucido fegato contrarsi adagio adagio, lievi fremiti correre sulla polpa bianca e rosea del cervello come in uno specchio appannato, il groviglio degli intestini districarsi pigro come un nodo di serpi all'uscir dal letargo. E non un gemito usciva dalle bocche socchiuse dei cani crocifissi. [...] A un tratto, vidi Febo. Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieno di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Non mandava un gemito, respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un tremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il petto. "Febo" dissi a voce bassa. E Febo mi guardava con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Io vidi Cristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso, vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni di una dolcezza meravigliosa. "Febo" dissi a voce bassa, curvandomi su di lui, accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò la mano, e non emise un gemito. Il medico mi si avvicinò, mi toccò il braccio: "Non potrei interrompere l'esperienza", disse, "è proibito. Ma per voi... Gli farò una puntura. Non soffrirà". [...] Anche gli altri cani, distesi sul dorso nelle loro culle, mi guardavano fisso, tutti avevano negli occhi una dolcezza meravigliosa, e non il più lieve gemito usciva delle loro bocche. A un tratto un grido di spavento mi ruppe il petto: "Perché questo silenzio?", gridai, "che è questo silenzio?". Era un silenzio orribile. Un silenzio immenso, gelido, morto, un silenzio di neve. Il medico mi si avvicinò con una siringa in mano: "Prima di operarli", disse, "gli tagliamo le corde vocali".
Mangerei la terra, masticherei i sassi, ingoierei lo sterco, tradirei mia madre, pur di aiutare un uomo, o un animale, a non soffrire. La morte non mi fa paura: non la odio, non mi disgusta, non è, in fondo, cosa che mi riguarda. Ma la sofferenza la odio, e più quella degli altri, uomini o animali, che non la mia. Sono disposto a tutto, a qualunque vigliaccheria, a qualunque eroismo, pur di non far soffrire un essere umano, pur di aiutare un uomo a non soffrire, a morire senza dolore
Il pranzo del generale Cork
Quando Napoli era una delle più illustri capitali d'Europa, una delle più grandi città del mondo, v'era di tutto, a Napoli: v'era Londra, Parigi, Madrid, Vienna, v'era tutta l'Europa. Ora che è decaduta, a Napoli non c'è rimasta che Napoli. Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. E' il destino dell'Europa di diventar Napoli. Se rimarrete un po' di tempo in Europa, diverrete anche voi napoletani.
La pioggia di fuoco
Il Vesuvio urlava nella notte, sputando sangue e fuoco. Dal giorno che vide l'ultima rovina di Ercolano e di Pompei, sepolte vive nella tomba di cenere e di lapilli, non s'era mai udita in cielo una così orrenda voce. Un gigantesco albero di fuoco sorgeva altissimo fuor dalla bocca del vulcano: era un'immensa, meravigliosa colonna di fumo e di fiamme, che affondava nel firmamento fino a toccare i pallidi astri. Lungo i fianchi del Vesuvio, fiumi di lava scendevano verso i villaggi sparsi nel verde dei vigneti. Il bagliore sanguigno della lava incandescente era così vivo, che per un immenso spazio intorno i monti e la pianura n'erano percorsi con incredibile violenza.
E là, di fronte a noi, tutto avvolto nel suo mantello di porpora, ci apparve il Vesuvio. Quello spettrale Cesare dalla testa di cane, seduto sul suo trono di lava e di cenere, spaccava il cielo con la fronte incoronata di fiamme, e orribilmente latrava. L'albero di fuoco che usciva dalla sua gola affondava profondamente nella volta celeste, scompariva negli abissi superni. Fiumi di sangue sgorgavano dalle sue rosse fauci spalancate, e la terra, il cielo, il mare tremavano.
La bandiera
Sorpassammo la jeep del Generale Cork, ci mettemmo in testa alla colonna, proprio dietro gli Sherman, svoltammo per la stradetta che dalla Via Appia Nuova, di fronte all'aeroporto di Ciampino, porta alla Via Appia Antica, e poco dopo imboccammo quella nobile via, la via più nobile del mondo, lastricata dalle grosse lastre di pietra nelle quali sono tuttora visibili i due solchi scavati dalle ruote dei carri romani.
“Come al solito”disse il giorno dopo, nella sua predica, il giovane curato della Chiesa di Santa Caterina, in Corso Italia “come al solito la propaganda fascista mentiva, quando annunziava che l'esercito americano, se fosse entrato in Roma, avrebbe assalito le nostre donne: sono le nostre donne che hanno assalito, e sconfitto, l'esercito americano.”)
Il processo
In quei quattro anni di guerra non avevo mai sparato contro un uomo: né contro un uomo vivo, né contro un uomo morto. Ero rimasto cristiano. Rimaner cristiano, in quegli anni, voleva dir tradire. Esser cristiano voleva dire essere un traditore, poiché quella sudicia guerra non era una guerra contro gli uomini, ma contro Cristo. Da quattro anni vedevo torme d'uomini armati andar cercando Cristo, come il cacciatore va cercando la selvaggina. In Polonia, in Serbia, in Ukraina, in Romania, in Italia, per tutta l'Europa, da quattro anni, vedevo torme d'uomini pallidi andar frugando nelle case, nei cespugli, nei boschi, sui monti, nelle valli, per stanare Cristo, per ammazzarlo come un cane arrabbiato. Ma ero rimasto cristiano.
“Non posso abbandonare i miei morti, Jimmy. I vostri morti ve li portate in America. Ogni giorno partono per l'America piroscafi carichi di morti. Sono morti ricchi, felici, liberi. Ma i miei morti non possono pagarsi il biglietto per l'America, sono troppo poveri. Non sapranno mai che cosa è la ricchezza, la felicità, la libertà. Sono vissuti sempre in schiavitù; hanno sempre sofferto la fame e la paura. Saranno sempre schiavi, soffriranno sempre la fame e la paura, anche da morti. E' il loro destino, Jimmy. Se tu sapessi che Cristo giace fra loro, fra quei poveri morti, lo abbandoneresti?”
“Non vorrai darmi a intendere” disse Jimmy “che anche Cristo ha perso la guerra.”
“E' una vergogna vincere la guerra” dissi a voce bassa.
Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l'essere toscano: molto più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese, tedesco, spagnolo, inglese. E non già perché noi toscani siamo migliori o peggiori degli altri, italiani o stranieri, ma perché, grazie a Dio, siamo diversi da ogni altra nazione: per qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da quel che gli altri hanno dentro.
Quanti guai si sarebbero risparmiati, se Mussolini, invece di parlare dal balcone di Palazzo Venezia, avesse parlato dal terrazzino di Palazzo Vecchio. (1958, p. 3)
La libertà è un fatto dell'intelligenza: ed è quella che dipende da questa, non l'intelligenza dalla libertà. (1958, p. 12)
Nel concetto dei toscani, chi non è un uomo libero è un uomo grullo. (1958, p. 12)
Maggior fortuna sarebbe, se in Italia ci fossero più toscani e meno italiani. (1958, p. 18)
Perfino nell'uso delle parole i senesi lasciano l'olio toscano per il burro. (1958, p. 19)
A dirlo fra noi, la gentilezza sta di casa solo a Siena. Altrove, nel resto della Toscana, è civiltà di modi, e non di voce, di piglio, di tono, di parole. (1958, p. 23)
La Toscana era l'unico paese al mondo che fosse una «casa»: il resto d'Italia, e Francia, Inghilterra, Spagna, Germania, erano Repubbliche, Monarchie, Imperi, non «case». (1958, p. 30)
Santo de Magione | né papa né cojone. (1958, p. 47)
Sarà forse che i toscani non sono come i bovi, che vedono tutto in grande: ma è certo che non pèrdono mai di vista la misura del mondo, e i rapporti, palesi e segreti, fra gli uomini e la natura. (1958, p. 52)
I toscani han l'abitudine di non salutare mai per primi nessuno, nemmeno in Paradiso. E questo, anche Dio lo sa. Vedrai che ti saluterà lui, per primo. (1958, p. 59)
Io son di Prato, m'accontento d'esser di Prato, e se non fossi nato pratese vorrei non esser venuto al mondo, tanto compiango coloro che, aprendo gli occhi alla luce, non si vedono intorno le pallide, spregiose, canzonatorie facce pratesi, dagli occhi piccoli e dalla bocca larga (ma aver la bocca larga, a Prato, non vuol dire, come altrove, esser boccalone), e fuori della finestra, di là dai tetti, la curva affettuosa della Retaia, il ginocchio nudo dello Spazzavento, le tre gobbe verdi del Monte Ferrato, gli olivi di Filettole, di Santa Lucia, delle Sacca, e i cipressi del Poggio del Fossino, sopra Coiano. E questo dico non perché son pratese, e voglia lisciar la bazza ai miei pratesi, ma perché penso che il solo difetto dei toscani sia quello di non esser tutti pratesi. (1998, pp. 62-63)
Tutti son buoni a far gli eroi con la pelle degli altri... (1958, p. 93)
Il solo, fra tutti i popoli, italiani e stranieri, che non abbia paura dell'inferno, il solo che abbia coll'inferno continui e famigliari rapporti sono i toscani. I quali da tempo immemorabile hanno sempre viaggiato in quel paese, e tutt'ora lo percorrono, come se viaggiassero in casa propria. Vanno e vengono dall'inferno quando piace a loro, e nel più semplice modo: a piedi, in calessino, in bicicletta, come se andassero a fare un giro per il podere. (1998, p. 165)
Qui accanto è la bella chiesa che si affaccia sulla piazza Giordano Bruno, e in un angolo della piazza il piedestallo, vuoto, del monumento all'autore del Candelaio: e vien fatto di pensare che Giordano Bruno sia andato a fare una passeggiata giù verso lo Scalo del Vescovado, a parlar con le ragazze sedute sulla spalletta del Ponte di Marmo, o in via delle Acciughe (mette sete a pensarci), o in via della Venezia, a bere una «torpedine» al bar Transatlantico, un bar che è una vecchia osteria piena di odor di bottarga. (1998, p. 158)
Imparate dai toscani che non c'è nulla di sacro a questo mondo, fuorché l'umano, e che l'anima di un uomo è uguale a quella di un altro: e che basta sapersela tener pulita, all'asciutto, che non pigli polvere né umido, come sanno i toscani, che dell'anima propria son gelosissimi, e guai a chi gliela volesse sporcare, o umiliare, o ungere, o benedire, o impegnare, affittare, comprare; e che vi sono anime femmine e anime maschie, e che le anime dei toscani son maschie, come si vede da quelle che escon di bocca ai morti nel Camposanto di Pisa: il solo camposanto che sia al mondo, tutti gli altri son cimiteri. (1998, pp. 163-164)
– Non tutti potranno leggere questo libro. Bisogna aver disceso tutti gli scalini dell'umanità per mordere alla radice stessa della vita, aver «mangiato la terra e averla trovata deliziosamente dolce» come i primi uomini delle leggende indiane, aver sofferto, sperato, maledetto, bisogna essere stati uomini, semplicemente umani, per poter leggere questo libro senza pregiudizio e sentirvi il sapore della vita. Non è un libro di guerra questo. È il libro di un uomo che fin dai primi giorni è entrato, come volontario, nel cerchio della guerra, a capo chino, bestemmiando (non Dio), e che ne è uscito all'ultimo giorno, benedicendo Dio, a capo chino, come un francescano; di un uomo che ha lasciato la trincea assetato d'amore e di pace, ma avvelenato fin nelle radici d'odio e di disperazione.
Citazioni
– L'Italia, dove il diritto è nato, è fra i paesi più incivili del mondo: vi manca, cioè, il senso del diritto. (Cap. II)
– Quando un popolo individualista come il nostro perde la fiducia in sé stesso e nelle istituzioni che lo reggono, l'immoralità diventa una forma di viver civile e la mediocrità invade la cosa pubblica. (Cap. II)
Mai fino ad allora, il popolo, in quanto popolo, si era battuto. Le guerre erano state combattute, fino ad allora, dagli eserciti regolari, sotto la guida di pochi uomini esperti d'arme. Le nazioni avevano sempre continuato a vivere in pace, sul margine della guerra, attendendone l'esito. Questa volta, tutto il popolo fu chiamato in aiuto della società costituita, nemica, economicamente e socialmente, del popolo. (Cap. II)
La morte è senza mistero, come la vita. È una necessità: poiché è necessario vivere. (Cap. III)
A mano a mano che vedevo i corpi adattarsi alle varie necessità di quella nuova esistenza, io cercavo di scoprire ne' miei compagni i segni dell'inevitabile trasformazione morale, che doveva compiersi a mano a mano. Avevo la persuasione di assistere allo svolgersi di un fenomeno nuovo nella storia dell'umanità. Mai fino ad allora l'umanità si era piegata a un così grande sforzo. Tutte le energie della razza erano puntate al compimento di un'opera immensa, che avrebbe richiesto anni di sacrificio e torrenti di sangue: qualcosa di nuovo sarebbe inesorabilmente nato da quello sforzo titanico. (Cap. V)
– Quando parlo di soldati, intendo i soldati di fanteria, i malvestiti, i laceri, i sudici, i buffi e miserabili soldati di fanteria. Le altre armi, che hanno preso magnificamente parte alla guerra, non hanno contribuito a formare l'odierna mentalità del popolo, balzata fuori dal tormentoso crogiolo della fanteria. (Cap. VI)
– Su tutta la linea delle Alpi e dell'Isonzo la nostra magnifica razza si faceva ammazzare senza una bestemmia, senza mai voltarsi indietro[corsivo nel testo] verso le «greche», con un coraggio rassegnato che era più bello del solito coraggio soldatesco fatto di spavalderia e d'impeto assoluto. (Cap. VI)
Avanti figlioli! E la fanteria va avanti. Lenta, inesorabile, senza volontà, ma non come un gregge. Il gregge cammina senza capire: la fanteria capisce, ma non vuol sapere. Che importa sapere perché si muore? Bisogna morire. [corsivi nel testo] (Cap. VI)
– E il popolo dei fanti, magnifico d'ira e di fierezza, s'inginocchiò a testa nuda sulle pietraie del Grappa. Percosso nel viso dall'ondata di ingiurie che saliva dalla nazione sbigottita, il popolo delle trinceemostrò ancora una volta come si muore, come si combatte, come si sopporta per l'onore della razza. (Cap. XII)
Qualsiasi governo ha il diritto di costringere, pur con la forza, i cittadini a compiere un'azione utile alla collettività: a condizione, però, che li possa e li sappia costringere. (da Rivolta dei santi maledetti, 1921[14])
[ Curzio Malaparte, Opere scelte, Mondadori Editore]
Fra le molte piacevoli storie che si raccontano a bassa voce in Italia su Mussolini, ve n'è una che dipinge assai bene quelle che saranno le condizioni morali del popolo tedesco fra qualche tempo. Una sera Mussolini, stanco di stare solo in casa, infilò un pastrano, si calò un cappello sugli occhi, e, col viso nascosto dal bavero del cappotto, uscì a piedi a spasso per Roma. Giunto davanti ad un cinematografo, gli venne il desiderio di divertirsi come tutti quanti, prese un biglietto ed entrò. Lo spettacolo incominciò con delle News Picture e, naturalmente, l'eroe delle News Picture era lo stesso Mussolini, sempre lui, sempre il solito Mussolini, a cavallo, in automobile, a piedi, in uniforme, in borghese, in camicia nera, in frack, in aeroplano, in motoscafo. Mussolini passava in rivista truppe fasciste, inaugurava un monumento, presiedeva un congresso di filosofi, stringeva la mano a un Cardinale, visitava una caserma, saliva sul Campidoglio, pronunciava un discorso, due discorsi, tre discorsi, un'infinità di discorsi. Appena il Duce era apparso sullo schermo, tutto il pubblico s'era alzato in piedi battendo le mani: soltanto Mussolini, che non era abituato ad alzarsi in piedi in proprio onore, era rimasto tranquillamente a sedere. Un modesto piccolo borghese, si era alzato anche lui, e vedendo quel signore accanto rimaner seduto con tanta inutile imprudenza, gli toccò la spalla, si chinò al suo orecchio, e gli disse: – Scusi, signore, anch'io la penso come lei, ma è meglio alzarsi. Fra qualche tempo tutto il popolo tedesco la penserà come quel piccolo borghese italiano nel cinema di Roma, e, come lui, si alzerà subito in piedi battendo le mani appena Hitler apparirà sullo schermo.
Citazioni
Il Cardinale Gasparri, che era obbligato, dalla natura delle sue funzioni di Segretario di Stato del Vaticano, ad avere una certa conoscenza della miseria e della grandezza umane, diceva che «Mussolini certamente è un grand'uomo, se per grandi uomini s'intende degli uomini del genere di Mussolini.»
«Hitler non è capace d'impadronirsi del potere con un colpo di Stato – concluse Mussolini [16] – bisognerà che lo spingano in alto a calci nel didietro» e non sospettava, così dicendo, di dare di Hitler lo stesso giudizio che Halifax, Ministro di Carlo II d'Inghilterra, dava di Lawrence Hyde, conte di Rochester: «J'ai vu des gens à qui l'on faisait descendre les escaliers à coups de pied au derrière – diceva Halifax – mais Lord Rochester est le premier que j'ai vu les monter de la même façon.[17]»
Il popolo italiano ama i suoi Santi e i suoi eroi in un modo molto particolare. Ai suoi occhi un Santo e un eroe sono la stessa cosa. Non vi è per lui nessuna differenza fra San Francesco d'Assisi e Garibaldi. […] Esso ama San Francesco per la sua povertà e la sua umiltà, per i suoi piedi nudi e la sua barbetta piena di fili d'erba come i nidi degli uccelli, ed ama San Bernardino da Siena per la sua eloquenza semplice ed affettuosa, per le sue parole dialettali, […] Esso ama San Rocco perché non temeva di toccare con le sue mani bianche gli orrendi bubboni neri degli appestati, e ama Garibaldi perché era bello, biondo, vestiva una camicia rossa e, sui campi di battaglia guidava a cavallo, un cavallo tutto bianco, le sue schiere di giovani biondi, belli, buoni, vestiti di camicie rosse.
Non si può fare il ritratto di Mussolini senza fare il ritratto del popolo italiano. Le sue qualità e i suoi difetti non gli sono propri: sono le qualità e i difetti di tutti gli italiani. Il dir male di Mussolini è legittimo: ma è un dir male del popolo italiano.
[ Curzio Malaparte, Muss Ritratto di un dittatore e Il Grande Imbecille, Luni Editrice]
Ho orrore del sangue. Da ragazzo immaginavo che le statue fossero fatte come noi, e avessero le vene gonfie di sangue. Andavo a incidere con un temperino le braccia ai putti di Donatello, per farne uscire il sangue da quella pelle morbida e bianca.
Citazioni
Mi tagliai profondamente la mano, e la vista del mio sangue mi fece rimanere assorto e felice.
Allora l'altra, una bruna grassa dal viso acceso e sudato, venne su me, mi prese la testa fra le mani, mi strofinò il ventre nudo sul viso.
Nella vita d'ogni uomo non v'è nulla di più segreto e di più misterioso dell'innocenza e della castità dell'infanzia.
Ero tra i migliori allievi di tutto il ginnasio, nessuno era più forte di me nel greco e nel latino: ma ero distratto, chiuso, taciturno, e i professori, i miei stessi compagni avevano finito col lasciarmi solo nella mia solitudine.
Un bordello ci vuole, in una città per bene: come ci vuole il Municipio, il Tribunale, le carceri, l'ospedale, il cimitero, e il Monte di Pietà.
Ritrovava intorno a sé un'Italia che credeva morta per sempre, l'Italia di quando era ragazzo, l'Italia del popolo e dei bambini, dei cani randagi, delle fiere di paese, dei banchi dei venditori di frittelle e di fusaglie, l'Italia del gioco dei birilli, delle processioni, delle scampagnate, e dei ciechi che suonano il violino davanti alle chiese e ai tavoli delle osterie.
Sebbene io mi proponga di mostrare come si conquista uno Stato moderno e come si difende, non si può dire che questo libro voglia essere un'imitazione del Principe dì Machiavelli, sia pure un'imitazione moderna, cioè poco machiavellica. I tempi, ai quali si riferiscono gli argomenti, gli esempi, i giudizi e la morale del Principe, erano tempi di così grande decadenza delle pubbliche e private libertà, della dignità civile e del rispetto umano, che sarebbe recare offesa al lettore, uomo libero, il prendere a modello quella famosa opera di Machiavelli per trattare alcuni fra i problemi più importanti dell'Europa moderna.
Citazioni
Durante la notte la città [Varsavia] fu in preda al terrore. Il giorno seguente, 15 agosto, giorno di Santa Maria, tutto il popolo sfilò in processione dietro la statua della Vergine, implorandola a gran voce che salvasse la Polonia dall'invasione. Ma quando pareva che tutto ormai fosse perduto, che da un momento all'altro, a una svolta della strada, una pattuglia di cosacchi rossi dovesse sbucare all'improvviso davanti all'immenso corteo litaniante, si sparse fulminea la notizia delle prime vittorie del Generale Weygand. L'esercito di Trotzki batteva in ritirata su tutta la linea. Era mancato a Trotzki un indispensabile alleato: Catilina. (p. 74)
L'arte della guerra è un'arte piena di sottintesi e di seconde intenzioni. [...] La guerra è sempre volta a fini politici: essa non è che un aspetto della politica dello Stato. (p. 93)
Quando i pesanti cancelli di Regina Coeli si richiusero alle mie spalle, io dissi tra me: «Questa volta è finita». Dopo tre mesi di fuga affannosa attraverso l'Europa davanti all'invasione sovietica, dopo tante ansie, tante avventure, tanti pericoli, finire nella trappola di Regina Coeli mi pareva la cosa più ridicola e pietosa del mondo. Il capoguardia, che mi conosceva da molti anni, non parve sorpreso di rivedermi: mi sorrise, non so se per compassione o per malignità, e avviatosi su per la scaletta del 4° Braccio salì all'ultimo piano, e si fermò davanti alla cella n. 461. Era la stessa cella nella quale ero rimasto chiuso per tanti mesi nel 1933, proprio di fronte a quella dove, alcuni anni più tardi, avevo ritrovato Alicata, Cesarini Sforza, i due fratelli Puccini, Montagnani, che doveva poi diventare viccsindaco di Milano, e altri comunisti dèlia prima e dell'ultima ora.
Citazioni
Tutto era rientrato nell'ordine, grazie al pronto intervento dei Russi, che avevano disarmato e sciolto le Guardie Rosse di Longo, e cacciato in galera i comunisti più accesi. Dal momento che tutti erano diventati comunisti, che bisogno c'era di fare i comunisti? La prontezza di quell'universaie voltafaccia aveva profondamente meravigliato i Russi: che popolo, l'italiano! Quei poveri Russi non credevano ai propri occhi. Tutta l'Italia in pochi secondi aveva arrossito in tal modo, che lo stesso Secchia pareva una rosa sbiadita. (p. 12)
Gli Americani non hanno capito che fra l'occupazione tedesca del 1940, e quella sovietica attuale, la differenza è immensa. L'occupazione hitleriana era esclusivamente militare: opprimeva crudelmente i popoli, ma non sconvoigeva l'assetto sociale del nostro disgraziato continente. L'occupazione russa non solo opprime i popoli al pari di quella tedesca (al concetto razzista hitleriano i comunisti hanno sostituito il loro concetto classista, vale a dire che considerano i borghesi nel modo stesso come i tedeschi consideravano gli ebrei), ma sconvolge l'ordine sociale europeo. Nel 1945, gli Americani hanno liberato un'Europa che sostanzialmente, dal punto di vista sociale, era rimasta quella stessa del 1939. Ma che cosa sarà quell'Europa che gli Americani libereranno domani, o fra dieci anni? (pp. 28-29)
Sono uno scrittore, e un uomo libero. Uno scrittore, che sia anche un uomo libero, non esprime, e non serve, che le proprie idee. Perché dovrei oggi collaborare con i Russi, dal momento che, dal 1940 al 1945, non ho collaborato con i Tedeschi? Li ho, anzi, combattuti al fianco degli Alleati. Aggiungo che non collaborerei con i Russi, nemmeno se fossi comunista, voglio dire un comunista italiano, o francese, o belga. (p. 32)
I Russi considerano i comunisti dell'Europa occidentale come infidi, indisciplinati, romantici, scocciatori, e inconsapevolmente inquinati di trozkismo. Se fossi un comunista italiano o francese, mi guarderei sopra tutto da Stalin. (p. 40)
Io m'avviai verso il Ponte Molotow, l'antico Ponte Cavour, risalii la Via Tomacelli, ribattezzata Via Zdanow, imboccai il Corso Umberto, oggi Prospettiva Giuseppe Stalin: e camminando mi guardavo intomo. (p. 51)
«Abbasso la Russia! Morte all'Unione Sovietica! Viva l'italia! Viva l'America! Viva la libertà!» Li guardai bene: erano Longo, Moscatelli, Secchia, Terracini, Grieco, e altri comunisti del genere.
«Che male c'è? Bisogna pur decidersi a ricominciar da capo, una volta o l'altra».
«Non c'è nulla di male, dissi, ma ci risiamo. E son sempre gli stessi». «Anche tu sei sempre lo stesso» rispose Nenni.
«Certo, anch'io son sempre lo stesso, e anche tu».
«Siamo sempre gli stessi, tutti quanti, disse Nenni, e non ci trovo nulla dì male.
«Plus ça change et plus c'est la même chose».
«Senza dubbio, disse Nenni, ma quelli, ora, gridano Viva l'Italia!»
«Un po' tardi, non tì sembra?» «Sì, veramente è un po' tardi» rispose Nenni arrossendo.
Ed io pure arrossii.
Era quella la mia Toscana nativa, dove avevo sofferto la solitudine del diverso, la solitudine della speranza e del futuro, e l'angoscia prima dell'uomo.[18]
Ai funerali vuol essere il morto, ai matrimoni la sposa. (Leo Longanesi)
Il cosiddetto "avvicinamento al partito comunista" è uno dei tanti luoghi comuni, e quindi falsi, che costellano la vita dello scrittore e che ne hanno deformato il senso e la verità attraverso una delle tante etichette che gli hanno attaccato addosso, appositamente manipolate per definirlo come uno che "cambiava di fronte" secondo le convenienze ideologico-politiche del momento. In realtà la famosa tessera del Partito Comunista Italiano che fu ritrovata dopo la sua morte fu spacciata come richiesta di iscrizione da parte di Curzio Malaparte al P.C.I. mentre invece fu offerta da Togliatti e spedita per posta alla clinica dove lo scrittore era ricoverato morente. Capirà che un conto è una tessera richiesta da uno come Malaparte ad uno come Togliatti e un conto è una tessera offerta da uno come Togliatti a uno come Malaparte. (Luigi Martellini)
Insomma, [la "guerra alle mosche" fascista] divenne una barzelletta. Se ne servì anche Curzio Malaparte, trasformandola nel finale del suo Kaputt, un libro vendutissimo (come lui). (Diego Cugia)
La sua conversione, in punto di morte, è stata forse un punto di arrivo. Curzio che continuamente si mascherava di sadismo, si nascondeva nel cinismo e si camuffava da istrione, aspettava forse una luce per uscire dalla esibizione e realmente diventare un eroe. In fondo, la vera anima di Curzio ha sempre cercato la luce eroica nelle strade romane, negli ozi di Forte dei Marmi, nella casa di Prato, nella pace di Capri [...] La sua anima ha cercato l'amore sempre, ma nessuna donna e nessun cane hanno mai saputo dargli l'amore come lui voleva. (Francesco Grisi)
Malaparte che pure finì comunista, era uno scrittore di destra. C'è, anche in lui, un costante prevalere degli impulsi emotivi sulla logica della ragione. (Geno Pampaloni)
Malaparte fu populista e individualista, amando le «plebi» e il nazionalpopolare. Restò sempre un Superuomo dannunziano, con una vena estetica, esibizionista ed erotica che eccedeva sulla tensione ideale, etica e politica. Ossimoro vivente, incarnò la rivoluzione conservatrice: portò agli eccessi i due poli, la rivolta e la restaurazione. (Marcello Veneziani)
Per dimenticare l'amarezza di passare per un collaborazionista, si rifugia nella lettura dell'amato Chateaubriand, di cui gli piace il disprezzo verso gli uomini nuovi. (Giacinto Spagnoletti)
Sarà perché sono napoletano e ce l'ho con lui per come ha usato Napoli, ma si sarà capito ormai che a me questo Malaparte non piace, non mi piace la sua orrificazione della realtà, soprattutto quella della Napoli del 1944 evocata ne La pelle, e non posso fare a meno di ricordare con quanta maggiore pietà e precisione, e un umanissimo sense of humour, quella stessa realtà fu descritta dall'inglese Norman Lewis (in Napoli ' 44, Adelphi). (Raffaele La Capria)
Un parlatore squisito e un grande ascoltatore pieno di tatto ed educazione. (Eugenio Montale)
↑ Da "Gli scapoli" di Montherlant", Corriere della Sera, 24 febbraio 1935, p. 3.
↑ Citato in Circolo Pink, Le ragioni di un silenzio: la persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo, Ombre corte, Verona, 2002, p. 57.
↑ Da Tecnica del colpo di Stato, Oscar Mondadori, Milano, 2002, ISBN 88-04-51086-2, p. 26.
1 2 Dall'intervista Venti domande a Malaparte, il Tempo, 28 luglio 1955.
↑ Citato in Piero Buscaroli, Una nazione in coma. Dal 1793, due secoli, Minerva Edizioni, Bologna, 2013, p. 113.
↑ Citato in Paolo Mieli, Tradimenti senza fine, Corriere della Sera, 11 gennaio 2017, pp. 34-35.
↑ Da Io in Russia e in Cina, Vallecchi, Firenze. In M. L. Santoli e M. Stanghellini, I grandi libri. Antologia italiana per la scuola media con letture epiche, vol. III, Zanichelli, Bologna, stampa 1971, pp. 324-325.
↑ Citato in Paolo Granzotto, Montanelli, Bologna, il Mulino, 2004, p. 119. ISBN 88-15-09727-9.
↑ Da Tecnica del colpo di Stato, Oscar Mondadori, Milano, 2002, ISBN 88-04-51086-2, p. 27.
↑ Curzio Suckert. Il fascismo contro Mussolini?, in La Conquista dello Stato, I (21 dicembre 1924), n. 16, p. 1.
↑ Citato in Curzio Malaparte, Opere scelte, a cura di Luigi Martellini, Mondadori, Milano, 1997, p. 61.
↑ Da una serie di appunti scritti dall'autore in vista di costituirne un'opera organica fra il 1933 ed il 1945
↑ Qui l'autore narra dell'udienza concessagli il 13 settembre 1932 da Mussolini e richiestagli per ottenere la revoca del divieto di pubblicazione in Italia del suo libro Tecnica di un colpo di Stato
↑ Ho visto gente cui venivano fatte scendere le scale a colpi di calci nel sedere, ma Lord Rochester è il primo che vedo salirle allo stesso modo.
↑ Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937
Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Stabilimento Lito-Tipografico Martini, Prato 1921.
Curzio Malaparte, Il battibecco, Aria d'Italia, 1949.
Curzio Malaparte, Il Cristo proibito, a cura di Luigi Martellini, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992. ISBN 8871044096
Curzio Malaparte, Don Camalèo, Aria d'Italia, 1953.
Curzio Malaparte, Kaputt, Oscar narrativa, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1989.