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scrittore italiano (1898-1957) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Curzio Malaparte, pseudonimo di Kurt Erich Suckert (1898 – 1957), scrittore e giornalista italiano.
Il manoscritto di Kaputt ha una storia: e mi sembra che nessuna prefazione convenga a questo libro meglio della storia segreta del suo manoscritto.
Ho cominciato a scrivere Kaputt nell'estate del 1941, all'inizio della guerra tedesca contro la Russia, nel villaggio di Pestcianka, in Ucraina, in casa del contadino Roman Suchèna. Ogni mattina mi sedevo nell'orto, sotto un albero di acacia, e mi mettevo a lavorare, mentre il contadino, seduto per terra presso il porcile, affilava le falci, o affettava le barbabietole e le verze per i suoi maiali.
La casa, dal tetto di stoppie, dai muri di terra e di paglia tritata, impastata con sterco di bue, era piccola e pulita: non aveva altra ricchezza fuorché una radio, un grammofono, e una piccola biblioteca con tutte le opere di Puschkin e di Gogol.
«Perché non fate la lotta alle mosche, anche a Napoli? Da noi, nell'Italia del nord, a Milano, a Torino, a Firenze, perfino a Roma, i comuni hanno organizzato la lotta alle mosche. Non c'è più neppure una mosca nelle nostre città».
«Non c'è più neppure una mosca a Milano?».
«No, neppure una mosca. Le abbiamo ammazzate tutte. E una cosa igienica, si evitano le infezioni, le malattie».
«Eh, ma anche a Napoli abbiamo fatto la lotta alle mosche, anzi, abbiamo fatto addirittura la guerra alle mosche. Son tre anni che facciamo la guerra alle mosche».
«E allora, come mai ci sono ancora tante mosche, a Napoli?».
«Eh, che volete, signore: hanno vinto le mosche!»
Erano i giorni della «peste» di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz'ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall'alba all'ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L'onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d'Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l'agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma nonostante l'universale e sincero entusiasmo, non v'era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell'animo del popolo.
“Non posso abbandonare i miei morti, Jimmy. I vostri morti ve li portate in America. Ogni giorno partono per l'America piroscafi carichi di morti. Sono morti ricchi, felici, liberi. Ma i miei morti non possono pagarsi il biglietto per l'America, sono troppo poveri. Non sapranno mai che cosa è la ricchezza, la felicità, la libertà. Sono vissuti sempre in schiavitù; hanno sempre sofferto la fame e la paura. Saranno sempre schiavi, soffriranno sempre la fame e la paura, anche da morti. E' il loro destino, Jimmy. Se tu sapessi che Cristo giace fra loro, fra quei poveri morti, lo abbandoneresti?”
“Non vorrai darmi a intendere” disse Jimmy “che anche Cristo ha perso la guerra.”
“E' una vergogna vincere la guerra” dissi a voce bassa.
Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l'essere toscano: molto più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese, tedesco, spagnolo, inglese. E non già perché noi toscani siamo migliori o peggiori degli altri, italiani o stranieri, ma perché, grazie a Dio, siamo diversi da ogni altra nazione: per qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da quel che gli altri hanno dentro.
[Curzio Malaparte, Maledetti toscani, Vallecchi, Firenze, 1958.]
– Non tutti potranno leggere questo libro.
Bisogna aver disceso tutti gli scalini dell'umanità per mordere alla radice stessa della vita, aver «mangiato la terra e averla trovata deliziosamente dolce» come i primi uomini delle leggende indiane, aver sofferto, sperato, maledetto, bisogna essere stati uomini, semplicemente umani, per poter leggere questo libro senza pregiudizio e sentirvi il sapore della vita.
Non è un libro di guerra questo. È il libro di un uomo che fin dai primi giorni è entrato, come volontario, nel cerchio della guerra, a capo chino, bestemmiando (non Dio), e che ne è uscito all'ultimo giorno, benedicendo Dio, a capo chino, come un francescano; di un uomo che ha lasciato la trincea assetato d'amore e di pace, ma avvelenato fin nelle radici d'odio e di disperazione.
[ Curzio Malaparte, Opere scelte, Mondadori Editore]
Fra le molte piacevoli storie che si raccontano a bassa voce in Italia su Mussolini, ve n'è una che dipinge assai bene quelle che saranno le condizioni morali del popolo tedesco fra qualche tempo. Una sera Mussolini, stanco di stare solo in casa, infilò un pastrano, si calò un cappello sugli occhi, e, col viso nascosto dal bavero del cappotto, uscì a piedi a spasso per Roma. Giunto davanti ad un cinematografo, gli venne il desiderio di divertirsi come tutti quanti, prese un biglietto ed entrò. Lo spettacolo incominciò con delle News Picture e, naturalmente, l'eroe delle News Picture era lo stesso Mussolini, sempre lui, sempre il solito Mussolini, a cavallo, in automobile, a piedi, in uniforme, in borghese, in camicia nera, in frack, in aeroplano, in motoscafo. Mussolini passava in rivista truppe fasciste, inaugurava un monumento, presiedeva un congresso di filosofi, stringeva la mano a un Cardinale, visitava una caserma, saliva sul Campidoglio, pronunciava un discorso, due discorsi, tre discorsi, un'infinità di discorsi. Appena il Duce era apparso sullo schermo, tutto il pubblico s'era alzato in piedi battendo le mani: soltanto Mussolini, che non era abituato ad alzarsi in piedi in proprio onore, era rimasto tranquillamente a sedere. Un modesto piccolo borghese, si era alzato anche lui, e vedendo quel signore accanto rimaner seduto con tanta inutile imprudenza, gli toccò la spalla, si chinò al suo orecchio, e gli disse: – Scusi, signore, anch'io la penso come lei, ma è meglio alzarsi. Fra qualche tempo tutto il popolo tedesco la penserà come quel piccolo borghese italiano nel cinema di Roma, e, come lui, si alzerà subito in piedi battendo le mani appena Hitler apparirà sullo schermo.
[ Curzio Malaparte, Muss Ritratto di un dittatore e Il Grande Imbecille, Luni Editrice]
Ho orrore del sangue. Da ragazzo immaginavo che le statue fossero fatte come noi, e avessero le vene gonfie di sangue. Andavo a incidere con un temperino le braccia ai putti di Donatello, per farne uscire il sangue da quella pelle morbida e bianca.
Sebbene io mi proponga di mostrare come si conquista uno Stato moderno e come si difende, non si può dire che questo libro voglia essere un'imitazione del Principe dì Machiavelli, sia pure un'imitazione moderna, cioè poco machiavellica. I tempi, ai quali si riferiscono gli argomenti, gli esempi, i giudizi e la morale del Principe, erano tempi di così grande decadenza delle pubbliche e private libertà, della dignità civile e del rispetto umano, che sarebbe recare offesa al lettore, uomo libero, il prendere a modello quella famosa opera di Machiavelli per trattare alcuni fra i problemi più importanti dell'Europa moderna.
Quando i pesanti cancelli di Regina Coeli si richiusero alle mie spalle, io dissi tra me: « Questa volta è finita ». Dopo tre mesi di fuga affannosa attraverso l'Europa davanti all'invasione sovietica, dopo tante ansie, tante avventure, tanti pericoli, finire nella trappola di Regina Coeli mi pareva la cosa più ridicola e pietosa del mondo. Il capoguardia, che mi conosceva da molti anni, non parve sorpreso di rivedermi: mi sorrise, non so se per compassione o per malignità, e avviatosi su per la scaletta del 4° Braccio salì all'ultimo piano, e si fermò davanti alla cella n. 461. Era la stessa cella nella quale ero rimasto chiuso per tanti mesi nel 1933, proprio di fronte a quella dove, alcuni anni più tardi, avevo ritrovato Alicata, Cesarini Sforza, i due fratelli Puccini, Montagnani, che doveva poi diventare viccsindaco di Milano, e altri comunisti dèlia prima e dell'ultima ora.
« Abbasso la Russia! Morte all'Unione Sovietica! Viva l'italia! Viva l'America! Viva la libertà! » Li guardai bene: erano Longo, Moscatelli, Secchia, Terracini, Grieco, e altri comunisti del genere.
« Ci risiamo » dissi a Nenni.
« Non capisco quel che vuoi dire » rispose Nenni.
« Si ricomincia da capo » dissi.
« Che male c'è? Bisogna pur decidersi a ricominciar da capo, una volta o l'altra ».
« Non c'è nulla di male, dissi, ma ci risiamo. E son sempre gli stessi ». « Anche tu sei sempre lo stesso » rispose Nenni.
« Certo, anch'io son sempre lo stesso, e anche tu ».
« Siamo sempre gli stessi, tutti quanti, disse Nenni, e non ci trovo nulla dì male.
« Plus ça change et plus c'est la même chose ».
« Senza dubbio, disse Nenni, ma quelli, ora, gridano Viva l'Italia! »
« Un po' tardi, non tì sembra? » « Sì, veramente è un po' tardi » rispose Nenni arrossendo.
Ed io pure arrossii.
Era quella la mia Toscana nativa, dove avevo sofferto la solitudine del diverso, la solitudine della speranza e del futuro, e l'angoscia prima dell'uomo.[18]
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