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scrittrice e drammaturga britannica (1890-1976) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Agatha Mary Clarissa Miller (1890 – 1976), scrittrice britannica. Ha usato anche lo pseudonimo di Mary Westmacott.
Erano circa le 5 di una mattina d'inverno, in Siria. Lungo il marciapiede della stazione d'Aleppo era già formato il treno che gli orari ferroviari internazionali indicavano pomposamente col nome di Taurus Express, e che consisteva in due vetture ordinarie, un vagone-letto e un vagone-ristorante con annesso cucinino.
Vicino alla scaletta di uno degli sportelli del vagone-letto, un giovane tenente francese, splendido nella sua uniforme, conversava con un omino imbacuccato fino alle orecchie e del quale erano visibili solo il naso arrossato e le punte di un paio di baffi arricciati all'insù.
- Mio caro signor Poirot!
Era una voce melliflua, insinuante, una voce usata deliberatamente come uno strumento, una voce che non aveva niente di impulsivo o di non premeditato.
Hercule Poirot si girò di scatto.
Si inchinò. diede una stretta di mano, cerimoniosa.
Nei suoi occhi apparve qualcosa di insolito. Si sarebbe detto che quell'incontro, del tutto casuale, ridestasse in lui sentimenti ed emozioni che raramente aveva occasione di provare.
– Mio caro signor Shaitana.
Mi troveranno disteso sul letto, colpito in fronte, come annotato dai miei compagni di sventura. I diversi momenti dei decessi non potranno essere stabiliti con precisione quando i nostri corpi verranno esaminati.
Quando il mare si calmerà, arriveranno dalla terraferma imbarcazioni e gente. E si troveranno dieci cadaveri e un mistero insoluto a Nigger Island.
Il vecchio Lanscombe, muovendosi lentamente sulle gambe malferme, passò di stanza in stanza per alzare le tende. Ogni tanto sbirciava fuori dalle finestre, socchiudendo gli occhi malati.
Tra poco sarebbero rientrati dal funerale. Cercò di affrettare il passo. Le finestre erano così tante.
Enderby Hall era una immensa dimora gotico-vittoriana. I tendaggi delle varie stanze erano in pesante, ormai sbiadito velluto, e alcune pareti erano ancora tappezzate di seta. Sbiadita anch'essa.
La signorina Lemon, solerte segretaria di Poirot, rispose al telefono. Mise da parte il blocco per la stenografia, alzò il ricevitore e disse senza enfasi: «Trafalgar 8137».
Hercule Poirot si appoggiò alla spalliera della sedia e chiuse gli occhi. Con dita leggere prese a tamburellare meditabondo sull'orlo del tavolo.
Il grande interesse suscitato nel pubblico da quello che a suo tempo fu battezzato "Il Caso Styles", è ormai scemato. Ciononostante, data la risonanza che ha avuto, sia il mio amico Poirot sia la famiglia interessata mi hanno pregato di scrivere il resoconto dell'intera vicenda. In questo modo si spera di mettere a tacere i pettegolezzi che ancor oggi capita di ascoltare.
Lawrence arrossì, imbarazzato, poi sorrise. Un uomo innamorato è sempre uno spettacolo penoso. Cynthia invece era splendida.
Tirai un gran sospiro.
«Che cosa c'è, mon ami?»
«Niente» risposi malinconicamente. «Sono due donne deliziose.»
«E nessuna delle due è per lei, vero?» concluse Poirot. «Non importa. Su con la vita, mon ami. Forse andremo ancora a caccia insieme, e allora… Non si può mai sapere.»
La memoria del pubblico è molto labile; perciò anche l'intensa curiosità e l'interesse vivissimo suscitati dall'assassinio di George Alfred St. Vincent Marsh, quarto baronetto Edgware, sono ormai caduti completamente nell'oblio.
Il nome del mio illustre amico Hercule Poirot non fu mai apertamente immischiato nell'affare; ma egli fu ben contento di restarsene nell'ombra e di lasciare agli altri il trionfo della vittoria. Inoltre, Poirot riteneva che questo caso rappresentasse uno dei suoi insuccessi. E sostiene che fu soltanto un'osservazione colta per caso per la strada a metterlo sulla pista giusta.
Gwenda Reed rimase ferma sulla banchina, tremante. Qualsiasi cosa guardasse, la vedeva alzarsi e abbassarsi ritmicamente.
Fu in quel momento che prese una decisione, decisione destinata a essere causa di gravissimi avvenimenti in futuro.
Contrariamente al programma stabilito, non avrebbe preso il treno per Londra.
Se non vado errato esiste un famoso aneddoto in cui un giovane scrittore, deciso a iniziare il suo romanzo in modo tanto efficace e originale da attirare l'attenzione del più sofisticato editore, scrisse la seguente frase:
«All'inferno!» disse la duchessa.
Stranamente, questo mio racconto inizia più o meno allo stesso modo con l'unica differenza che chi esclama la stessa frase non è una duchessa.
Ero andato a trovare il mio amico Poirot che aveva un mucchio di lavoro, purtroppo, in quei giorni. Era diventato talmente celebre che ogni ricca signora che avesse perduto un bracciale o il gattino prediletto si precipitava ad assicurarsi i servizi del grande Hercule Poirot. Il mio piccolo amico era uno strano miscuglio di parsimonia fiamminga e di fervore artistico, e accettava molti casi anche se per lui di poco interesse, cedendo a quel primo istinto decisamente predominante.
La signorina Jane Marple sedeva vicino alla finestra che dava sul giardino, una volta fonte d'orgoglio per lei. Ma adesso non lo era più. Ora, guardando fuori della finestra, la signorina Marple prendeva un'espressione triste. Già da parecchio tempo, il dottore le aveva proibito di occuparsi attivamente di giardinaggio. Le aveva raccomandato di non curvarsi, di non zappare, di non piantare; tutt'al più poteva divertirsi a potare qualche pianta, ma senza fare sforzi. Il vecchio Laycock, che andava da lei due volte alla settimana, faceva senza dubbio del suo meglio. Ma il suo punto di vista circa "il meglio" differiva molto da quello della signorina Marple. Lei sapeva esattamente quello che voleva e quando lo voleva, e istruiva l'uomo a dovere. Lui accoglieva con entusiasmo le istruzioni, le approvava pienamente e poi faceva a modo suo.
Erano le due del pomeriggio del 7 maggio 1915. Il Lusitania, colpito da due siluri, stava affondando rapidamente, mentre le scialuppe venivano calate in mare a gran velocità. Le donne e i bambini erano stati allineati lungo il ponte superiore e aspettavano il loro turno. Alcune si avvinghiavano ai mariti e ai padri; altre stringevano i figli al petto, disperate. Una ragazza, sola, se ne stava appartata dagli altri passeggeri. Era molto giovane, certo sotto i diciotto anni. Non sembrava spaventata: il suo sguardo grave e imperturbabile fissava l'orizzonte lontano.
La signora Bantry stava sognando. Le sembrava di trovarsi all'esposizione dei fiori, nel momento in cui il curato, vestito dei sacri paramenti, distribuiva i premi, in chiesa. Sua moglie andava in giro in costume da bagno: ma quel fatto, che se fosse accaduto nella realtà non avrebbe mancato di scandalizzare i fedeli parrocchiani, pareva, come succede spesso nei sogni, non desse minimamente nell'occhio ai presenti.
Secondo mese dell'inondazione – 20° giorno
Renisenb vagava con lo sguardo sul Nilo. Poteva sentire in distanza le voci dei suoi fratelli Yahmose e Sobek che discutevano se rinforzare o meno in quel punto l'argine. La voce di Sobek aveva una tonalità alta e fiduciosa, come sempre. Era sua abitudine mantenere il proprio punto di vista con determinazione. La voce di Yahmose era bassa, e assomigliava a un brontolio, esprimeva dubbio e ansietà. Yahmose si trovava sempre in apprensione per qualche cosa.
Quando il capitano Roger Angmering si costruì una casa nell'anno 1782 sull'isola al largo di Leathercombe Bay, tutti lo giudicarono un eccentrico. Un uomo di buona famiglia come lui avrebbe dovuto avere una dimora decorosa circondata da prati spaziosi e magari con una tenuta attraversata da un fiumicello.
Ma il capitano Roger Angmering aveva un solo amore, il mare. Si costruì dunque quella sua casa, solida come si conveniva, su un piccolo promontorio spazzato dai venti e isolato dalla terraferma a ogni marea alta.
La signorina Arundell morì il 1° maggio. Benché la malattia fosse stata brevissima, la morte della signorina non produsse molta sorpresa nella piccola città di Market Basing dove viveva sin da quando aveva sedici anni. Infatti, Emily Arundell aveva oltrepassato la settantina – ultima sopravvissuta di una famiglia di cinque persone – e da parecchi anni era di salute cagionevole. Già diciotto mesi prima della sua morte era stata sul punto di andarsene all'altro mondo per un attacco simile a quello che doveva poi esserle fatale.
L'Inghilterra! Dopo tanti anni, l'Inghilterra! Che impressione gli avrebbe fatto?
Luke Fitzwilliam se lo chiese scendendo dalla passerella del piroscafo e mentre passava la dogana finché, sul treno, quella domanda divenne il primo dei suoi pensieri.
Partire era stato un momento magico. Partire aveva significato prima di tutto una prospettiva di guadagno, poi ritrovare vecchi amici e conoscerne dei nuovi... un'esperienza affrontata con lo spirito sereno di chi si dice: Non sarà per molto, in fin dei conti. Me la godrò e presto sarò di ritorno.
La conobbi in Egitto, verso la fine della guerra. Sophia Leonides era stata trasferita al Cairo dove occupava un posto importante alle dipendenze del Foreign Office. Dapprima l'apprezzai per le sue capacità d'impiegata, poi, molto presto, mi resi conto che aveva un'intelligenza brillantissima che le aveva procurato un posto del genere ad appena ventidue anni, e apprezzai molto anche il suo delizioso senso dell'umorismo.
Uscito dalla Vieille grand'mère, Hercule Poirot si rialzò il bavero del cappotto. Precauzione eccessiva in una serata tanto mite? Può darsi. Se gliel'avessero fatto rilevare, avrebbe risposto che alla sua età, "le precauzioni non erano mai troppe".
Deliziose le lumache della Vieille grand'mère, però. Che scoperta preziosa, quella piccola trattoria. Meditabondo come un cucciolo sazio, Poirot si passò la lingua tra le labbra e si lisciò i baffi folti, bellissimi, con un fazzoletto.
Aveva mangiato proprio bene. Ma adesso non sapeva che cosa fare...
Stavo alla finestra della stanza di Poirot e guardavo distrattamente la strada sottostante.
«È strano» esclamai all'improvviso sottovoce.
«Che cosa c'è, mon ami?» chiese Poirot placidamente dalle profondità della sua comoda poltrona.
Ero stato chiamato fuori città per qualche giorno e al mio ritorno trovai Poirot intento a chiudere le cinghie della sua valigetta.
«À la bonne heure, Hastings. Temevo che non sareste tornato in tempo per accompagnarmi.»
«Siete chiamato a risolvere un caso?»
Fino a questo punto, nei casi da me raccontati, le indagini di Poirot hanno sempre preso l'avvio da un fatto centrale, omicidio o furto, e da lì si sono svolte mediante un processo di deduzioni logiche fino alla trionfale soluzione finale. Negli eventi che ora sto per riportare, una notevole serie di circostanze ha condotto dagli incidenti apparentemente banali che per primi hanno attratto l'attenzione di Poirot, agli eventi sinistri che hanno concluso un caso molto insolito.
«Dopo tutto» mormorò Poirot, «è possibile che stavolta io non muoia.»
Poiché venivano da un malato ora convalescente di influenza, accolsi quelle parole come rivelatrici di un benefico ottimismo. Io stesso avevo sofferto precedentemente di quel disturbo e Poirot ne era stato colpito subito dopo. Ora stava seduto sul letto appoggiato ai cuscini, la testa avvolta in una sciarpa di lana, e stava sorseggiando lentamente una tisane particolarmente cattiva che avevo preparato seguendo le sue direttive. I suoi occhi si posarono con piacere su una fila ordinatamente disposta di flaconcini di medicine che ornavano la mensola del camino.
«Quanti furti di obbligazioni sono stati compiuti in questi ultimi tempi!» commentai un mattino mettendo da parte il giornale. «Poirot, abbandoniamo la scienza dell'investigazione e dedichiamoci invece al crimine!»
«Volete, come si dice... arricchirvi rapidamente, mon ami?»
Ho sempre ritenuto che una delle più avvincenti e drammatiche tra le molte avventure da me divise con Poirot fosse quella delle nostre indagini per una serie di strane morti seguite alla scoperta e all'apertura della Tomba del Re Men-her-Ra.
Non molto dopo la scoperta della tomba di Tutankamen, fatta da lord Carnarvon, sir John Willard e il signor Bleibner di New York, continuando i loro scavi non lontano dal Cairo, nei pressi delle Piramidi di Gizeh trovarono inaspettatamente una serie di camere funerarie. La loro scoperta suscitò enorme interesse. La tomba sembrava essere quella del Re Men-her-Ra, uno di quegli oscuri sovrani dell'Ottava Dinastia, periodo in cui l'antico regno andava disgregandosi. Di quel periodo si sapeva ben poco e i giornali diedero grande rilievo alla notizia della scoperta.
«Poirot» dissi «un cambiamento d'aria vi farebbe bene.»
«Lo pensate, mon ami?»
«Ne sono sicuro.»
«Eh... eh?» disse il mio amico sorridendo. «Allora è tutto predisposto, vero?»
«Verrete?»
«Dove intendete portarmi?»
Ora che la guerra e i problemi della guerra sono cose del passato penso di potermi arrischiare, senza timore, a rivelare al mondo la parte che il mio amico Poirot ha avuto in un momento di crisi nazionale. Il segreto è stato ben protetto. Non una parola è arrivata alla stampa ma ora che l'esigenza di segretezza è passata ritengo giusto che l'Inghilterra venga a conoscenza del suo debito verso il mio strano, piccolo amico il cui meraviglioso cervello ha tanto abilmente evitato una grande catastrofe.
Poirot ed io stavamo aspettando per il tè il nostro vecchio amico, l'ispettore Japp di Scotland Yard. Eravamo seduti davanti al tavolino da tè in attesa del suo arrivo. Poirot aveva appena finito di sistemare con cura tazze e piattini che la nostra padrona di casa usava buttare sul tavolo invece di disporli con cura. Aveva anche respirato pesantemente sopra la teiera di metallo lustrandola poi con un fazzoletto di seta. Il bricco stava per bollire e non lontano, in una ciotola di smalto, c'era una densa crema di cioccolato che a Poirot piaceva molto più di quello che lui descriveva come «il vostro veleno inglese».
Poirot e io avevamo molti amici e conoscenti con i quali intrattenevamo rapporti informali. Tra questi bisogna annoverare il dottor Hawker, un nostro vicino di casa, medico di professione. Era abitudine dell'amabile dottore venirci a trovare ogni tanto la sera e fare due chiacchiere con Poirot del cui genio era un ardente ammiratore. Il dottore, che era un tipo schietto e fiducioso al massimo, ammirava quelle qualità così lontane dalle proprie.
Il problema presentatoci dalla signorina Violet Marsh costituì per noi un diversivo piuttosto gradevole rispetto al nostro solito lavoro di routine. Poirot aveva ricevuto dalla signorina un biglietto molto deciso e dal tono pratico con la richiesta di un appuntamento e aveva risposto pregandola di venire il giorno seguente alle undici del mattino.
Arrivò puntuale: una giovane alta e bella, vestita con semplicità ma bene, dai modi sicuri e pratici. Era chiaramente una donna che intendeva farsi strada nel mondo. Per quanto mi riguarda, io non sono un grande ammiratore della cosiddetta donna newyorkese e, nonostante il suo bell'aspetto, non ero particolarmente ben disposto nei suoi confronti.
Jimmy Thesiger si precipitò giù dallo scalone di Chimneys a due gradini per volta. La sua discesa fu così vertiginosa che, nell'atrio, venne a collisione con Tredwell, il dignitoso maggiordomo, il quale stava portando una nuova provvista di caffè bollente. Grazie alla presenza di spirito e alla meravigliosa abilità di Tredwell poté essere evitato un disastro.
Mancava poco a mezzanotte quando un uomo attraversò Place de la Concorde, a Parigi. Nonostante la bella pelliccia che gli ricopriva la magra persona, c'era in tutto il suo aspetto qualcosa che denotava trascuratezza e in un certo senso meschinità. Un omino dal muso da sorcio, si sarebbe detto, e incapace di avere un qualsiasi cosa una parte prominente. Tuttavia, chi lo avesse giudicato così sarebbe stato in errore, poiché egli l'aveva, invece, una parte preponderante, e nei destini del mondo.
Avevo notato che, da qualche tempo, Hercule Poirot diventava sempre più insoddisfatto ed irrequieto. Ultimamente non avevamo avuto casi interessanti, niente su cui il mio carissimo amico potesse esercitare la sua viva intelligenza e le sue notevoli doti di deduzione. Quel mattino di luglio sbatté giù il giornale con uno spazientito «ciàh», una delle sue esclamazioni preferite, che suonava esattamente come lo sternuto di un gatto.
Il capitano Crosbie uscì dalla banca con l'aria compiaciuta di chi ha incassato un assegno e ha scoperto che nel suo conto c'è più denaro di quanto avesse pensato.
Il capitano Crosbie aveva spesso l'aria soddisfatta di sé. Era nel suo stile. Era un uomo di corporatura tarchiata con un volto rubizzo e un paio di irti baffi alla militare. Quando camminava aveva una certa tendenza a pavoneggiarsi. Indossava abiti forse un po' troppo vistosi e gli piacevano le storie succulente. Si trovava bene in compagnie maschili. Un uomo allegro, ordinario ma gentile, e scapolo. Non possedeva tratti particolari. I tipi come lui abbondano in Medio Oriente.
22 Dicembre.
Stephen rialzò il bavero della giacca, mentre percorreva rapido la banchina. Una fitta nebbia avvolgeva la stazione e tutto aveva un aspetto grigio, sporco. Le grosse locomotive fischiavano superbe, scagliando nubi di vapore nell'aria fredda e umida.
Stephen pensò, con disgusto:
«Che orribile paese... che orribile città!».Sempre la cosidetta vittima e il colpevole!
Secondo il mio modesto parere, non c'è in tutta l'Inghilterra cittadina di mare più attraente di St. Loo. La costa della Cornovaglia gareggia in bellezza con la Costa Azzurra.
Manifestai questa convinzione all'amico Hercule Poirot, e mi sentii rispondere: «Le tue asserzioni sono poco originali, caro Hastings. Abbiamo letto quasi le stesse parole ieri sulla lista delle vivande, nel vagone ristorante che ci portava qui».
Hercule Poirot valutò con uno sguardo di approvazione la ragazza che stava entrando nella stanza.
La lettera che lei gli aveva scritto non conteneva nulla di speciale, chiedeva semplicemente un appuntamento, senza far cenno al motivo che si celava dietro quella richiesta. Solo la fermezza della scrittura faceva supporre che Mary Lemarchant fosse giovane.
Quando, finalmente, mi venne tolta l'ingessatura e i medici mi ebbero palpato a sazietà, e dopo che le infermiere mi ebbero fatto le loro belle raccomandazioni di usare con cautela i miei arti, e mi ebbero nauseato con quel loro tono come se si rivolgessero a un bambino, Marcus Kent dichiarò che dovevo andare a vivere in campagna.
«Aria buona, vita tranquilla, niente da fare: ecco la ricetta per voi. Vostra sorella vi terrà buona compagnia. Mangiate, dormite e vegetate.»
La prosperosa signora McGillicuddy seguiva trafelata il facchino che con passo sciolto percorreva l'accesso ai cancelli portando la sua valigia, ma, carica com'era di acquisti per natale, perdeva sempre più terreno.
Il marciapiede n. 1 non era molto affollato, essendo appena partito un treno; invece sotto la tettoia una folla confusa si affrettava dentro e fuori i sottopassaggi, i depositi bagagli, i buffet e gli uffici informazioni, sostando davanti alle tabelle degli orari e sciamando attraverso i cancelli degli arrivi e delle partenze.
La signora Ferrars morì nella notte di giovedì, dal 16 al 17 settembre. Mi vennero a chiamare alle 8 di mattina, venerdì, 17. Non c'era più niente da fare, era già morta da qualche ora.
Quando ritornai a casa, erano appena suonate le nove. Aprii la porta d'entrata e indugiai per qualche minuto nel vestibolo per appendere il cappello e il soprabito. Non voglio con questo dire che in quel momento avevo una premonizione degli eventi che si sarebbero verificati nella settimana successiva. Ma l'istinto mi diceva che qualcosa stava per accadere.
È difficile per me decidere da quale momento cominciare il racconto degli avvenimenti di quell'estate, ma penso che la conversazione, avvenuta un mercoledì, al vicariato, durante il pasto di mezzogiorno, possa costituire un buon inizio, poiché alcune frasi pronunciate allora si rivelarono, più tardi, importanti.
Avevo appena finito di tagliare il lesso (parecchio filaccioso, a dire la verità), quando nel rimettermi a sedere osservai, con una disposizione di spirito poco in carattere col mio abito, che chiunque si fosse preso la briga di eliminare il colonnello Protheroe avrebbe reso un gran servigio all'umanità.
Elinor Katherine Carlisle! Siete imputata, secondo l'atto d'accusa, di assassinio nella persona di Mary Gerrard; delitto che fu compiuto il 27 dello scorso mese di luglio. Vi dichiarate colpevole o innocente?
Elinor Carlisle era immobile, col capo eretto. Una testa graziosa, dai lineamenti decisi, con occhi di un azzurro vivido e profondo, i capelli neri, le sopracciglia depilate accuratamente in modo da formare una linea sottilissima.
Vi fu silenzio... un silenzio impressionante.
Edwin Bulmer, l'avvocato difensore, ebbe un brivido di sgomento. Pensò: "Dio mio, ora si dichiara colpevole... Ha perduto il dominio di se stessa...".
Le labbra di Elinor Carlisle si dischiusero e lei pronunciò:
«Innocente».
Nel mese di giugno del 1935 lasciai il mio ranch, nell'America del Sud, e tornai in Inghilterra per qualche mese. Dovevo sistemare alcuni affari che richiedevano la mia presenza.
È inutile dire che, giunto a Londra, andai diffilato dal mio amico Hercule Poirot, il quale mi convinse ad abitare presso di lui durante il mio soggiorno in patria.
Quando arrivò al traghetto, imbruniva.
Sarebbe potuto arrivarci molto più presto, ma aveva tirato in lungo il più possibile.
Prima si era attardato a tavola dagli amici di Redquay in piacevole conversazione, punteggiata da uno scambio di notizie sulle conoscenze comuni; poi gli amici lo avevano invitato a trattenersi per il tè e lui aveva accettato. Ma a un certo punto si era reso conto che non poteva più rimandare.
L'appartamento di Hercule Poirot era arredato in uno stile essenzialmente moderno. Scintillava di cromature. Le sue poltrone, per quanto confortevolmente imbottite, avevano una linea squadrata e senza compromessi.
Proprio al centro di una di queste poltrone stava seduto, ordinato e composto, Hercule Poirot. Di fronte a lui, in un'altra poltrona, sedeva il dottor Burton, professore dell'All Souls, intento a sorseggiare con aria da intenditore un bicchiere di Chateau Mouton Rothschild offertogli da Poirot. Non c'era niente di ordinato e composto nel dottor Burton. Era grassoccio, trasandato e, sotto un ciuffo di capelli bianchi, il faccione rubizzo irradiava bonarietà. Aveva una risatina chioccia, profonda e un po' ansante e l'abitudine di ricoprire se stesso e quanto gli stava intorno di cenere di tabacco. Invano Poirot lo circondava di portacenere.
Era il giorno d'apertura della sessione estiva del Collegio di Meadowbank. Il sole del tardo pomeriggio illuminava il piazzale di ghiaia antistante l'edificio. La porta d'ingresso era spalancata e, sulla soglia, mirabilmente intonata allo stile georgiano della porta, stava la signorina Vansittart nel suo tailleur di ottimo taglio e senza un capello fuori posto.
Alcuni genitori che non la conoscevano bene, l'avevano scambiata per la "grande" signorina Bulstrode, ignari del fatto che la signorina Bulstrode, per abitudine, se ne stava richiusa in una sorta di sancta sanctorum dove ben pochi venivano ammessi.
«Misteri non risolti.»
Raymond West fece uscire dalle labbra una nuvola di fumo e ripeté quelle parole con una sorta di compiacimento ponderato e consapevole.
«Misteri non risolti.»
«Allora, dottor Pender, che cosa ci raccontate?»
Il vecchio pastore sorrise bonariamente.
«Io ho sempre vissuto in posti tranquilli» disse, «e di rado mi è capitato di assistere a qualche avvenimento fuori del comune. Ma una volta, in gioventù, mi trovai coinvolto in un'esperienza molto strana e drammatica.»
«Non so se è leale raccontarvi la storia che ho in mente» disse Raymond West, «perché non ne conosco la soluzione. Ma è talmente curiosa e interessante che ve la proporrei come un problema. Chissà che, fra tutti, non si riesca a darle una conclusione logica.
«Bisogna risalire a due anni fa, quando mi recai a trascorrere la Pentecoste in Cornovaglia da un tale che si chiamava John Newman.»
«È strano disse Joyce Lemprière, «ma la storia che sto per raccontarvi mi crea un senso d'angoscia. È accaduta molti anni fa... cinque, per la precisione... e da allora il ricordo mi ha sempre perseguitato. La facciata rassicurante, allegra e il macabro mistero che vi si celava dietro. Il quadro che dipinsi a quell'epoca risentì dell'atmosfera. A prima vista potrebbe sembrarvi lo schizzo di una ripida viuzza della Cornovaglia piena di sole, ma se lo guardate più a lungo, notate qualcosa di sinistro. Non l'ho mai venduto, eppure evito di guardarlo. Lo tengo in un angolo dello studio, girato contro la parete.
Il signor Petherick si schiarì la voce più solennemente del solito.
«Forse il mio problemino vi sembrerà un po' banale» disse in tono di scusa, «dopo i racconti sensazionali che abbiamo ascoltato. Nel mio non c'è niente di cruento, ma mi pare un problemino ingegnoso e interessante. E poi ho la fortuna di conoscerne la soluzione.»
«E adesso tocca a te. zia Jane» disse Raymond West.
«Sì, zia Jane, ci aspettiamo una storia veramente piccante» intervenne Joyce Lemprière.
«Mi prendete in giro, amici miei» disse placida Miss Marple. «Credete che, siccome ho passato tutta la vita in questo posto fuori del mondo, non abbia avuto mai esperienze interessanti.»
«L'anno scorso, quando ero qui...» disse sir Henry Clithering, e s'interruppe.
La padrona di casa, la signora Bantry, lo guardò incuriosita.
L'ex commissario capo di Scotland Yard era ospite dei suoi vecchi amici, il colonnello Bantry e sua moglie, che abitavano vicino a St. Mary-Mead.
«Voi, dottor Lloyd» chiese la signorina Helier «non conoscete qualche storia raccapricciante?» Gli sorrise, con uno di quei sorrisi che ogni sera affascinavano il suo pubblico, a teatro. Jane Helier veniva spesso definita la più bella donna d'Inghilterra e le sue colleghe gelose erano solite dire tra loro: "Naturalmente Jane non è un'artista. Non recita... capite? È solo merito dei suoi occhi!"
La conversazione spaziò sui crimini non scoperti e rimasti impuniti. Ognuno a turno disse la sua opinione: il colonnello Bantry, la sua paffuta e amabile consorte, Jane Helier, il dottor Lloyd e anche la vecchia Miss Marple. La sola persona a non parlare era quella che tutti ritenevano più idonea a pronunciarsi: sir Henry Clithering, l'ex commissario capo di Scotland Yard. Lui se ne stava in silenzio accarezzandosi i baffi, sorridendo di un suo segreto pensiero.
«Ho un reclamo da fare» annunciò sir Henry Clithering.
Ammiccò con bonarietà guardando la compagnia sparsa intorno. Il colonnello Bantry, con le gambe allungate, squadrava la mensola del caminetto come se fosse un soldato in parata. Sua moglie sfogliava un catalogo di. bulbi giunto con la posta del mattino. Il dottor Lloyd divorava Jane Helier con gli occhi e la bella attrice si rimirava pensosamente le unghie laccate di rosa. Soltanto l'anziana signorina, Miss Marple, stava seduta diritta come un fuso, e alzò gli occhi celesti a incontrare quelli di sir Henry.
«Forza, signora B.» disse sir Henry Clithering in tono incoraggiante.
La signora Bantry, la padrona di casa, gli scoccò un'occhiata di rimprovero.
«Vi ho già detto di non chiamarmi signora B. È poco dignitoso.»
«Sheherazade, allora.»
«Ho pensato una cosa» disse Jane Helier.
Sul suo bel viso c'era il sorriso fiducioso di una bambina che si aspetta un applauso. Lo stesso sorriso che ogni sera attirava folle di spettatori a Londra, e che aveva fatto la fortuna di molti fotografi.
«È un episodio capitato a una mia amica» aggiunse guardinga.
Sir Henry Clithering, ex commissario capo di Scotland Yard, era ospite dei suoi amici Bantry nella residenza di loro proprietà, vicino al piccolo villaggio di St. Mary Mead.
La mattina di sabato, quando scese per la prima colazione alla piacevole ora delle dieci e un quarto, per un filo non si scontrò con la padrona di casa sulla soglia della saletta. La signora Bantry, infatti, stava uscendone di corsa in uno stato evidente di turbamento e agitazione.
La signora Van Rydock si scostò alquanto dallo specchio e, con un sospiro di sollievo, disse:
«Bene, anche questa è fatta. Che te ne pare, Jane?»
Miss Marple guardò ammirata la creazione di Lanvanelli e rispose:
«Mi sembra un bellissimo vestito.»
«Già, molto bello» esclamò, sospirando per la seconda volta, la signora Van Rydock e, rivolta alla cameriera, soggiunse:
«Toglimelo, Stephanie.»
"Prendete il Kenya, ad esempio" disse il maggiore Palgrave. "Gran parte della gente blatera, blatera, e non ne sa nulla. Io, invece, ho trascorso ben quattordici anni in quel paese, i migliori anni della mia vita..."
"Nella mia fine è il mio principio..." È una frase che ho sentito citare spesso. Suona bene, ma che cosa significa in realtà?
Esiste forse un solo particolare su cui puntare il dito e dire: cominciò quel giorno, in quel tal posto e a quella tal ora, con quell'avvenimento?
La mia storia ebbe forse inizio quando notai il cartello affisso sul muro della "George e Dragon", con l'annuncio della vendita all'asta della proprietà chiamata la Torre? Un cartello zeppo di particolari sull'estensione della proprietà, sui chilometri quadrati di parco e sul numero delle stanze della casa. Una specie di ritratto esageratamente idealizzato della Torre come forse era stata solo nel suo periodo di splendore, qualcosa come un centinaio d'anni prima.
Nell'atrio del Tigris Palace Hotel di Bagdad, un'infermiera sta finendo di scrivere una lettera. La sua stilografica scorre rapida sulla carta:
«...e con questo, cara, credo di averti raccontato tutto quello che c'era da raccontare. Com'è bello vedere un po' di mondo! Però che sporcizia a Bagdad! E niente affatto romantica e pittoresca come uno potrebbe credere dopo aver letto le Mille e una notte. Lungo il fiume la città è bella, ma all'interno è spaventosa, e non un negozio che valga due soldi. Il maggiore Kelsey mi ha accompagnato a fare un giro per i bazars, molto caratteristici: ma c'è un tal frastuono, un tal martellare su tutti quei recipienti di rame, che ti viene l'emicrania. E poi non so se io userei volentieri quella roba. Coi recipienti di metallo c'è sempre da stare attenti al verderame.
Quattro grugniti, una voce sdegnata che chiedeva perché non si potesse mai lasciare un cappello in giro, una porta sbattuta, e Mister Packington era uscito per prendere l'otto e quarantacinque per la City. La signora Packington rimase seduta davanti al tavolo della prima colazione. Aveva il viso arrossato, le labbra increspate, e se non piangeva era solo perché all'ultimo momento l'ira aveva preso il posto dello sconforto.
«Non lo sopporto», disse la signora Packington.
Il maggiore Wilbraham esitò davanti alla porta dell'ufficio di Mister Parker Pyne allo scopo di leggere, non per la prima volta, l'annuncio sul giornale del mattino che lo aveva condotto colà. Questo era piuttosto semplice:
ANNUNCI PERSONALI.
SIETE FELICI? IN CASO CONTRARIO, CONSULTATE MISTER PARKER PYNE, 17 Richmond Street.
Il citofono sulla scrivania di Mister Parker Pyne emise un ronzio discreto. «Sì?» disse il grand'uomo.
«C'è una signorina che vorrebbe vederla», annunciò la sua segretaria. «Non ha appuntamento».
«La faccia entrare, Miss Lemon». Un momento dopo stava stringendo la mano alla visitatrice.
Senza dubbio uno dei più grandi pregi di Mister Parker Pyne era il suo modo di fare comprensivo. Era un modo di fare che invitava alla confidenza. Mister Parker Pyne conosceva bene quella specie di paralisi che assaliva i clienti nello stesso momento in cui entravano nell'ufficio. Il compito di aprire la strada alle rivelazioni necessarie spettava a lui.
Mister Parker Pyne si appoggiò pensieroso allo schienale della sua sedia girevole ed esaminò il visitatore. Vide un uomo piccolo, di costituzione robusta, sui quarantacinque anni, i cui occhi perplessi, malinconici, imbarazzati, lo guardavano con una sorta di ansiosa speranzosità.
Il nome della signora Abner Rymer fu portato a Mister Parker Pyne.
Egli lo conosceva, e sollevò le sopracciglia.
Subito dopo la cliente fu introdotta nella stanza.
«Par ici, Madame».
Una donna alta in pelliccia di visone seguì il suo sovraccarico facchino lungo la piattaforma della Gare de Lyon. Portava un cappello marrone scuro lavorato a maglia, abbassato su di un occhio e un orecchio. L'altro lato rivelava un grazioso profilo all'insù e piccoli ricci dorati che sormontavano fitti un orecchio a conchiglia. Americana tipica, era nel complesso una creatura incantevole, e più di un uomo si voltò a guardarla passare lungo gli alti vagoni del treno in sosta.
Quattro grandi porte ha la città di Damasco...
Mister Parker Pyne ripeté dolcemente fra sé i versi di Flecker.
Ingresso del Fato, Porta del Deserto, Caverna del Disastro, Forte della Paura,
Io sono il Portale di Bagdad, la Soglia di Diarbekir.
Erano le sei del mattino quando Mister Parker Pyne partì diretto in Persia dopo una sosta a Bagdad.
Nel piccolo monoplano lo spazio a disposizione dei passeggeri era limitato, e i sedili ristretti non erano tali da garantire il minimo agio alla mole di Mister Parker Pyne. C'erano due compagni di viaggio: un omaccione colorito che Mister Parker Pyne giudicò essere di abitudini loquaci, e una donna sottile dalla bocca aggrondata e dall'aria decisa.
Almeno, pensò Mister Parker Pyne, non hanno l'aria di volermi consultare professionalmente.
La comitiva aveva avuto una giornata lunga e faticosa. Erano partiti da Amman la mattina presto con una temperatura di novantotto gradi centigradi all'ombra, ed erano giunti proprio mentre cominciava a far buio nell'accampamento collocato nel cuore di quella città di fantastica e incredibile roccia rossa che è Petra.
Lady Grayle era nervosa. Dal momento in cui era salita a bordo del piroscafo "Fayoum" si era lamentata di ogni cosa. La sua cabina non le piaceva. Sopportava il sole del mattino, ma non quello del pomeriggio. Pamela Grayle, sua nipote, ebbe la cortesia di cederle la sua cabina sul lato opposto. Lady Grayle l'accettò di malagrazia.
Alla signora Willard J. Peters la Grecia non piaceva poi troppo. E di Delfi, nel profondo del cuore, non le importava niente.
Le dimore spirituali della signora Peters erano Parigi, Londra e la Riviera. Ella era una donna che amava la vita di albergo, ma il suo concetto di una camera d'albergo era un tappeto spesso e morbido, un letto di lusso, un'abbondanza di luci elettriche fra le quali un lumino da letto con tanto di paralume, acqua calda e fredda in quantità e accanto al letto un telefono, tramite il quale ordinare tè, pasti, acque minerali, cocktail, e parlare agli amici.
Bobby Jones piazzò la palla al punto di partenza, fece dondolare la mazza, la portò all'indietro lentamente, poi la riportò in avanti e colpì la palla con rapidità fulminea. Invece di seguire una bella traiettoria diritta, di alzarsi da terra e di superare l'ostacolo, per poi atterrare alla giusta distanza dalla quattordicesima buca, la palla rotolò sul terreno e andò a fermarsi proprio contro l'ostacolo. Non c'era una folla di spettatori a lanciare grida di disappunto.
L'unico testimone non manifestò alcuna sorpresa e questo era più che comprensibile, perché chi aveva tirato non era un grande campione di golf, ma soltanto il quarto figlio del vicario di Marchbolt, una cittadina sulla costa del Galles.
Alle sei e tredici di un venerdì mattina i grandi occhi azzurri di Lucy Angkatell si aprirono su un nuovo giorno. Come sempre ben sveglia, cominciò subito a lambiccarsi sui problemi che le si affollavano nella mente incredibilmente attiva. Sentendo un immediato bisogno di consigliarsi e di parlare con qualcuno e scegliendo a tale scopo sua cugina, Midge Hardcastle, giunta a La Cava la sera prima, Lady Angkatell scivolò velocemente fuori dal letto, si gettò una vestaglia sulle spalle ancora piacenti e uscì nel corridoio dirigendosi verso la camera di Midge.
Quel pomeriggio, Ariadne Oliver era andata con Judith Butler, un'amica della quale era ospite, ad aiutare nei preparativi di una festa che avrebbe avuto luogo la sera stessa.
Quando le due signore arrivarono, la sala era un centro di attività frenetica. Donne efficienti e dinamiche andavano e venivano, spostando sedie, tavolini, vasi di fiori, e trasportando grandi quantità di zucche gialle che disponevano in punti strategici.
Quella era una festa dell'Hallowe'en riservata a ragazzi tra i dieci e i diciassette anni.
«Quello è Hercule Poirot, il famoso investigatore» disse la signora Allerton.[10]
Lei e il figlio sedevano in due poltrone a dondolo, dipinte in rosso vivo, davanti al Cataract Hotel di Assuan, e guardavano due figure che si allontanavano: un ometto di bassa statura vestito d'un completo di seta bianca, e una signorina, alta e snella.
Tim Allerton si raddrizzò con insolita vivacità.
«Quell'ometto ridicolo?» chiese incredulo.
«Quell'ometto ridicolo.»
Per fare il tè era il turno della signorina Somers. Non più giovane, con una faccia dolce e spaurita da capretta, la signorina Somers era la più nuova e la meno efficiente delle dattilografe. Aveva versato nella teiera l'acqua che ancora non bolliva, ma la poveretta non era mai sicura di quando bollisse l'acqua. Era, questo, uno dei tanti interrogativi che affliggevano la sua esistenza.
Versò il tè e distribuì le tazze con un paio di biscotti in ogni piattino.
In anticamera, Tommy Beresford si tolse cappotto e cappello, e li appese con cura all'attaccapanni, cercando di guadagnar tempo. Poi drizzò le spalle, si stampò un bel sorriso sulla faccia ed entrò nel soggiorno, dove sua moglie stava sferruzzando un passamontagna color kaki.
Era la primavera del 1940.
La signora Beresford gli lanciò una rapida occhiata, poi riprese a sferruzzare con ritmo frenetico. Dopo qualche secondo domandò:
«Novità, sui giornali della sera?»
«La guerra-lampo sta per arrivare» rispose Tommy. «Evviva! Le cose vanno male, in Francia.»
«Il mondo è deprimente, in questo momento» osservò Tuppence.
I coniugi Beresford sedevano a colazione. Era una coppia qualsiasi, una delle tante che in quel momento compivano lo stesso rito in tutta l'Inghilterra. Ed era anche una giornata qualunque, una di quelle giornate che capitano cinque volte alla settimana. Pareva che volesse piovere, però non si decideva.
Un tempo, le chiome del signor Beresford erano state rosse. Se ne notava ancora qualche traccia, ma nell'insieme avevano assunto quella tonalità grigio-rosata che, tanto spesso, i fulvi ostentano nella mezza età. Sua moglie, invece, una volta era stata bruna e ricciuta, ma adesso i suoi capelli neri erano striati qua e là da alcune ciocche bianche di gradevole effetto. La signora Beresford, infatti, aveva avuto la tentazione di ricorrere alla tintura, ma alla fine s'era accorta di preferirsi al naturale. E a titolo di conforto aveva cambiato rossetto, scegliendo una sfumatura più gaia e giovanile.
A chi non è capitato qualche volta di sentire un tuffo al cuore rivivendo un'esperienza, un sentimento o un'emozione?
"Non è la prima volta che mi capita questo..."
Perché queste parole colpiscono tanto profondamente?
Era la domanda che mi ponevo mentre, seduto in treno, vedevo passare davanti ai miei occhi il piatto paesaggio dell'Essex.
Hercule Poirot stava facendo colazione. Sul tavolino, alla sua destra, c'erano una tazza di cioccolata fumante e una brioche. Aveva sempre avuto un debole per i dolci. Quella brioche, inzuppata nella cioccolata, aveva un sapore tutto particolare. L'aveva comprata in una piccola pasticceria danese che aveva scoperto dopo aver cambiato almeno quattro negozi. Le brioches della pasticceria danese erano migliori persino di quelle della patisserie française, lì vicino, che, in fin dei conti, si era rivelata un'autentica fregatura.
Faceva molto freddo. Il cielo di Londra era buio e carico di neve. Un uomo con un soprabito scuro, la sciarpa avvolta intorno alla faccia e il cappello calato sugli occhi, percorreva Culver Street. Salì i gradini del numero settantaquattro. Premette il campanello e lo udí squillare nel seminterrato.
La signora Casey, con le mani nell'acquaio, brontolò infastidita:
«Al diavolo quel campanello. Mai un po' di pace. Mai».
La macchina espresso, alle mie spalle, fischiava come un serpente arrabbiato. Il rumore che ne usciva aveva un che di sinistro, per non dire infernale.
Girai lentamente il cucchiaino nella tazza fumante, dalla quale saliva un gradevole aroma.
«Che cosa desidera ancora? Un delizioso tramezzino con banana e pancetta affumicata?»
Mi parve uno strano connubio, quello. Le banane mi riportavano alla mia infanzia; tutt'al più potevo concepirle, una volta ogni tanto, con zucchero e rum. Quanto alla pancetta affumicata, poi, nella mia mente si associava alle uova. Comunque, quartiere che vai usanze che trovi. Mi trovavo in quello londinese di Chelsea e dovevo adattarmi ai suoi usi. Accettai il delizioso tramezzino di banana e pancetta affumicata.
Tutte le mattine, esclusa la domenica, tra le sette e mezzo e le otto e mezzo, Johnnie Butt faceva il giro del villaggio di Chipping Cleghorn in bicicletta, fischiettando allegramente e fermandosi davanti a ogni casa o villino per infilare nella cassetta delle lettere i giornali del mattino che erano stati ordinati dai relativi occupanti al signor Totman, il cartolaio di High Street. Al colonnello e alla signora Easterbrook lasciava il Times e il Daily Graphic, alla signora Swettenham lasciava il Times e il Daily Worker, alla signorina Hinchliffe e alla signorina Murgatroyd il Daily Telegraph e il New Chronicle, alla signorina Blacklock il Telegraph, il Times e il Daily Mail.
Il maggiore Burnaby calzò gli stivali di gomma, si allacciò fino al collo il cappotto, prese da uno scaffale vicino alla porta una potente lampada ad acetilene, aprì con cautela la porta d'ingresso della sua villetta e occhieggiò fuori.
La scena che si presentò ai suoi occhi era quella di una tipica campagna inglese come viene rappresentata dalle illustrazioni dei cartoncini natalizi o come la descrivono i melodrammi all'antica.
19 novembre
Il gruppo raccolto attorno al caminetto era composto da avvocati o uomini di legge. C'era l'avvocato Martindale, Rufus Lord principe del foro, il giovane Daniels che si era fatto un nome col caso Carstairs, più alcuni altri, tra i quali il giudice Cleaver, Lewis, dello studio Lewis e Trench, e il vecchio Treves. Treves aveva circa ottant'anni, portati in verità molto bene. Era socio di uno degli studi più prestigiosi, e lui era il più prestigioso membro di questo studio. Si diceva che fosse a conoscenza di molti retroscena della storia ed era considerato un genio della criminologia.