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condizione in cui gli uomini non sono ancora associati fra loro Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Lo stato di natura è quell'ipotetica condizione in cui gli uomini non sono ancora associati fra di loro e disciplinati da un apparato governativo e dalle relative leggi tipico invece dello stato di diritto. Questa particolare condizione dell'uomo è stata ipotizzata dai filosofi inglesi Thomas Hobbes e John Locke e, in seguito, dallo svizzero Jean-Jacques Rousseau assumendo caratteristiche diverse, anche opposte, nei vari filosofi che lo postulano: se per Hobbes lo stato di natura è uno stato di guerra permanente e universale[1] (bellum omnium contra omnes)[2], per Rousseau gli uomini in questo stato vivono "liberi, sani, buoni, felici".
Nel Leviatano Hobbes espone la propria teoria della natura umana, della società e dello Stato. Poiché il diritto ha origine naturale per ogni ente inclusi gli esseri umani, nello stato di natura gli uomini si ritrovano ad avere tutti quanti gli stessi diritti su qualsiasi cosa e ingaggiano una guerra che vede tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes; homo homini lupus = l'uomo è un lupo divoratore per ogni altro uomo).
Tuttavia, gli uomini hanno un comune interesse ad arrestare la guerra per assicurarsi un'esistenza che altrimenti sarebbe impegnata soltanto nella guerra per difendere beni di cui non si potrebbe mai godere, così formano delle società, stipulando un contratto sociale (chiamato "Patto" da Hobbes) in cui limitano la loro libertà, accettando delle regole che vengono fatte rispettare dal Leviatano-Capo dello Stato.
«I authorise and give up my right of governing myself to this man, or to this assembly of men, on this condition; that thou give up, thy right to him, and authorise all his actions in like manner. This done, the multitude so united in one person is called a COMMONWEALTH; in Latin, CIVITAS. This is the generation of that great LEVIATHAN, or rather, to speak more reverently, of that mortal god to which we owe, under the immortal God, our peace and defence.»
«Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno STATO, in latino CIVITAS. Questa è la generazione di quel grande LEVIATANO o piuttosto - per parlare con più riverenza - di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa»
Per liberarsi dalla condizione primitiva in cui tutti competono con tutti (bellum omnium contra omnes) e la vita è nasty, brutish, and short (spiacevole, grezza, e breve), si deve costituire una società efficiente, che garantisca la sicurezza degli individui, condizione primaria per il perseguimento dei desideri. A questo scopo tutti gli individui rinunciano ai propri diritti naturali, stringendo tra loro un patto con cui li trasferiscono a una singola persona, che può essere o un monarca, oppure un'assemblea di uomini, che si assume il compito di garantire la pace entro la società.
Per questo Hobbes è spesso considerato un teorico del giusnaturalismo, dove il diritto naturale precede e fonda quello civile. Tuttavia, tale visione è dibattuta: difatti, solitamente, il giusnaturalismo tende a stabilire delle leggi naturali che facciano da limite al potere statale; da parte sua, invece, Hobbes utilizza le leggi naturali per dimostrare che il potere statale, per poter funzionare efficacemente, dev'essere illimitato, privo di vincoli, e indiviso; in questo modo si pone agli antipodi di pensatori classici del giusnaturalismo, come, ad esempio, Locke.
Nell'opera Due trattati sul governo John Locke esprime il suo pensiero circa lo stato di natura.
«Per ben intendere il potere politico e derivarlo dalla sua origine, si deve considerare in quale stato si trovino naturalmente tutti gli uomini, e questo è uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro. È anche uno stato di eguaglianza, in cui ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca, nessuno avendone più di un altro, poiché non vi è nulla di più evidente di questo, che creature della stessa specie e dello stesso grado, nate, senza distinzione, agli stessi vantaggi della natura, e all’uso delle stesse facoltà, debbano anche essere eguali fra di loro, senza subordinazione o soggezione, a meno che il signore e padrone di esse tutte non ne abbia, con manifesta dichiarazione del suo volere, posta sopra le altre, e conferitole, con chiara ed evidente designazione, un diritto incontestabile al dominio e alla sovranità.»
Locke aggiunge, però, che la perfetta libertà e l'uguaglianza non implicano che lo stato di natura sia uno stato di licenza: nessuno ha il diritto di distruggersi e di distruggere gli altri per la propria conservazione. Infatti, lo stato di natura è limitato da una legge di natura, che coincide con la ragione, sulla cui base è possibile costituire una società ordinata con rispetto e uguaglianza reciproca.
«Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che obbliga tutti: e la ragione, ch’è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti eguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi, perché tutti gli uomini, essendo fattura di un solo creatore onnipotente e infinitamente saggio […] sono proprietà di colui di cui sono fattura […] e, poiché siamo forniti delle stesse facoltà e partecipiamo tutti d’una sola comune natura, non è possibile supporre fra di noi una subordinazione tale che ci possa autorizzare a distruggerci a vicenda […]»
Secondo la medesima legge di natura, che vuole la pace e la conservazione di tutti gli uomini, è necessario, dunque, sia conservare e difendere gli altri, anche sopprimendo l'offensore; sia di punire i trasgressori di questa legge, in modo da proteggere gli innocenti e reprimere gli offensori. Per il principio di uguaglianza, tutti possono far osservare questa legge: nessuno infatti ha superiorità e giurisdizione assoluta o arbitraria sopra un altro. La naturale condizione umana non è per Locke, come per Hobbes, il "bellum omnium contra omnes". Ogni uomo ha in sé una naturale predisposizione alla giustizia e alla pace; queste sono legge naturale prima che legge sociale. Diversamente, né la pace né giustizia sarebbero realizzabili.
Ognuno può retribuire al colpevole, secondo quanto dettano la ragione tranquilla e la coscienza, una punizione proporzionata alla sua trasgressione, nei termini di riparazione e repressione. Il violatore è infatti pericoloso agli uomini, dal momento che da lui è trascurato o infranto il vincolo inteso a garantirli dall'offesa e dalla violenza. Nello stato di natura, ognuno ha il potere esecutivo della legge di natura.
«Poiché questo è un delitto contro l’intera specie umana, e contro la sua pace e sicurezza, a cui la legge di natura ha provveduto, ciascuno perciò, in base al diritto che ha di conservare gli uomini in generale, può reprimere, o, se è necessario, distruggere ciò ch’è loro nocivo, e quindi può recare a chi ha trasgredito quella legge un male tale che possa indurlo a pentirsi d’averlo fatto, e perciò distoglier lui, e, sul suo esempio, altri, dal compiere il medesimo torto. In questo caso e su questo fondamento ognuno ha il diritto di punire gli offensori e rendersi esecutore della legge di natura.»
Tuttavia, Locke ammette facilmente che la parzialità degli uomini nel giudicare se stessi e i propri amici comporta confusione e disordine. Per questo, pone il governo civile come il rimedio adatto agli inconvenienti dello stato di natura. Nello Stato di diritto, o Stato sociale, l'uomo si trova di fronte a regole stabili, da sempre impresse nel suo cuore e non imposte da nessuno, alle quali si deve attenere. Tuttavia, prima dello Stato, deve esistere una società autosufficiente, come la famiglia, che si costituisce a partire da una naturale tendenza dell'uomo verso gli altri. Infatti gli uomini sono stati creati per vivere in società e non in solitudine.
Rousseau vedeva una divaricazione sostanziale tra la società e la natura umana. Rousseau affermava che l'uomo fosse, in natura, buono, un "buon selvaggio", e venisse corrotto in seguito dalla società; vedeva questa come un prodotto artificiale nocivo per il benessere degli individui.
Nel Discorso sull'ineguaglianza, illustrò il progresso e la degenerazione dell'umanità da un primitivo stato di natura sino alla società moderna. Rousseau suggeriva che gli uomini primordiali fossero individui isolati, diversi dagli altri animali unicamente per il possesso del libero arbitrio e per la capacità di perfezionarsi. Questi uomini primitivi erano dominati dall'impulso di autoconservazione ("amore di sé") e da una disposizione naturale alla compassione e alla pietà verso i simili. Quando l'umanità fu costretta a vivere in comunità, a causa della crescita della popolazione, subì una trasformazione psicologica, in seguito alla quale cominciò a considerare la buona opinione degli altri come un valore indispensabile per il proprio benessere. Rousseau associava questa nuova forma di consapevolezza a un'età dell'oro della prosperità umana.
Tuttavia, lo sviluppo dell'agricoltura e della metallurgia, e la conseguente creazione della proprietà privata e della divisione del lavoro, portarono a una crescente dipendenza reciproca degli individui e alla disuguaglianza tra gli uomini. La conseguente condizione di conflitto tra chi aveva molto e chi poco o nulla, fece sì, secondo Rousseau, che il primo Stato fu inventato come una forma di contratto sociale suggerito dai più ricchi e potenti. Difatti i ricchi e i potenti, tramite il contratto sociale, sanzionarono la proprietà privata, lo stato di fatto e quindi istituzionalizzarono la diseguaglianza come se fosse inerente alla società umana. Rousseau concepiva la propria proposta per un nuovo contratto sociale come un'alternativa a questa forma fraudolenta. Al termine del Discorso sull'ineguaglianza, Rousseau spiega come il desiderio di essere considerati dallo sguardo altrui, che si era generato durante l'età dell'oro, aveva potuto, sul lungo periodo, corrompere l'integrità e l'autenticità degli individui all'interno di una società, quella moderna, segnata dalla dipendenza reciproca, dalle gerarchie e dalle diseguaglianze sociali.
Secondo il libro I tre riformatori di Maritain, affermando che nello stato di natura primigenio l'uomo viveva nella purezza dei suoi valori morali, capace di giudicare il bene e il male e di vivere secondo la virtù, Rousseau negò l'esistenza del peccato originale, vanificando la necessità della Redenzione in Cristo e della Sua grazia divina salvifica.[3] Rousseau avrebbe negato il nesso fra natura e ragione, contribuendo al soggettivismo caratteristico dell'età moderna.[4] A Rousseau sarebbe mancata la nozione di moralità sociale[5], convinto com'era dell'intrinseca malvagità dell'uomo che si era allontanato dall'essere "santo della natura"[6] e che si era sottoposto all'educazione e all'influsso delle strutture sociali.
Dal punto di vista dello stato di natura, qualsiasi intervento umano o della divina Provvidenza comporta una decadenza rispetto alla bontà e bellezza originarie del genere umano. Invece, secondo san Tommaso d'Aquino, la grazia divina non distrugge la natura, ma la suppone, la risana e purifica, la eleva e la perfeziona[7][8] a più sublime condizione (Gratia supponit naturam et eam perficit, secondo un antico assioma teologico). In merito affermò: "la grazia [germe del soprannaturale nell'uomo] suppone la natura come la perfezione suppone ciò che è perfettibile" e "la grazia non toglie la natura, ma la perfeziona"[9]
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