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nome giornalistico attribuito ad un progetto di alleanza elettorale in funzione anticomunista e antisocialista in Italia Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Operazione Sturzo è il nome giornalistico attribuito ad un progetto di alleanza elettorale in funzione anticomunista e antisocialista tra la maggioranza centrista, composta da Democrazia Cristiana, Partito Socialista Democratico Italiano e Partito Repubblicano Italiano, e le opposizioni della destra (Movimento sociale italiano e Partito Nazionale Monarchico).
Promossa su direttiva personale di papa Pio XII e sostenuta dai cardinali Alfredo Ottaviani e Giuseppe Pizzardo per scongiurare la vittoria delle sinistre alle elezioni comunali di Roma del 1952, non andò in porto per l'opposizione di Alcide De Gasperi e di mons. Giovanni Battista Montini e la contrarietà di repubblicani e socialdemocratici a qualsiasi intesa col MSI.
«Con la parola ‘a-cattolici’, si qualificano comunemente, da noi, quelli che non sono cattolici romani. Poiché il termine è diventato oramai di uso generale, noi continueremo a servircene, sebbene esso non sia esatto, perché quasi tutti i gruppi di credenti tengono a qualificare come ‘cattolica’ (e cioè universale) la loro fede; per modo che da un lato, il carattere distintivo della cattolicità, come si intende in Italia e presso le nazioni latine, è quello della cattolicità con la qualifica specifica di apostolico-romana, e, dall’altro, vi è una cattolicità evangelica; una cattolicità anglicana, ecc; e, quindi, nessun credente, e specialmente nessun cristiano è a-cattolico, nel senso tecnico di questo termine»
Il tentativo di alleanza tra centro e destra in Campidoglio affonda le sue radici nella speciale considerazione che la Chiesa ha della capitale.[1] Con la firma dei Patti Lateranensi, definitivamente chiusa la questione romana, viene infatti stabilito al secondo comma dell'articolo 1 del Concordato il carattere sacro di Roma "sede del pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi". Il governo italiano (all'epoca presieduto da Mussolini) è tenuto a impedire qualsiasi atto o evento che contrasti col detto carattere.[2] La definizione si rivela tuttavia generica sul piano teorico ed inapplicabile sul piano pratico. Lo stesso Mussolini, due mesi dopo,[3] deve addirittura disilludere estremisti e facinorosi dichiarando ridicola l'ipotesi di chiudere le sinagoghe, abbattere la statua di Giordano Bruno e rimuovere i simboli del Risorgimento italiano, esattamente come deve chiarire una volta per tutte alla gerarchia vaticana che non sarà attuato alcun divieto ai culti non cattolici.[4]
Mancando una giurisprudenza al riguardo, la clausola rimane di fatto quella enunciazione priva di determinazione che le due parti hanno di fatto voluto.[1] Mancante di chiarimenti, interpretazioni e limitazioni, infatti, consente alla Chiesa e allo Stato di coprire ed escludere, rispettivamente, la maggior parte delle possibili ipotesi di applicazione. L'intenzione di Pio XI di restaurare la Roma cattolica dello Stato Pontificio rimane quindi tale. La politica estera italiana non è ancora ostile all'Inghilterra anglicana e si sa che si devono ammettere ammettere l'islamismo e il cristianesimo copto delle colonie nella lista dei culti ammessi.[5] e Mussolini stesso, del resto, ha voluto la Conciliazione per pacificare il paese, non per creare nuovi disordini.[6][1] Tra le pretese cattoliche destinate a rimanere sulla carta c'è l'abbattimento della statua di Giordano Bruno[N 1] la censura preventiva cattolica dei film e della pubblicità e la moderazione delle coreografie di molti eventi di regime.[7]
«Come voi ben sapete, il Concordato fra la Santa Sede e l'Italia (art. 1 capov. 2) prescrive che « in considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto col detto carattere ». Si può dire che tale è la sua presente condizione? Siamo dolenti di dover rispondere che no.»
La prima consultazione elettorale amministrativa di Roma dopo venti anni di Fascismo si rivela oltremodo deludente per i cattolici. Comunisti e socialisti, uniti nel "blocco del popolo" assieme al Partito d'Azione, ottengono la maggioranza assoluta con il 36,9%. La Democrazia cristiana è al terzo posto, col 20,3%, scavalcata da l'Uomo Qualunque col 20,7%. Gli altri partiti rappresentati in consiglio comunale sono il PRI (7,8%), i monarchici (7,0%) e il PLI (5,0%). In ossequio alle direttive provenienti dalle gerarchie ecclesiastiche la DC attua una strategia mirata ad escludere le sinistre dalla maggioranza, anticipando di qualche mese l'esclusione dal governo nazionale. La proposta di costituire una giunta tra tutti i partiti, con partecipazione proporzionale ai risultati, non va in porto per il rifiuto del blocco e dei repubblicani a qualsiasi collaborazione con le forze che avevano sostenuto il mantenimento della monarchia (PNM, qualunquisti e liberali). L'alternativa è una maggioranza a guida democristiana con la partecipazione di liberali, monarchici e qualunquisti che l'11 dicembre 1946 elegge sindaco Salvatore Rebecchini, ma i veti contrapposti per le poltrone degli assessori obbligano il neo-eletto alle dimissioni.[9]
Le nuove elezioni sono convocate per l'ottobre del 1947 con due significative novità. Si è consumata la scissione socialista, che ha dato vita al PSDI, e si presenta per la prima volta il MSI, fondato poco meno di un anno prima. Il primo erode al blocco di sinistra il 3,9%, riducendolo ad un complessivo 33,3%, il secondo ottiene il 3,9% e tre consiglieri, in gran parte provenienti da un elettorato che ancora non si era espresso. Nonostante le enunciazioni di De Gasperi sul "partito di centro che guarda a sinistra" la DC romana, che rivendica la guida della maggioranza come partito più votato, sceglie di formare una coalizione di centro-destra che dopo un mese di colloqui rielegge Rebecchini alla guida di una maggioranza formata dalla DC, dall'Uomo Qualunque e dal PLI con l'appogio esterno, e determinante, del Movimento Sociale. All'opposizione, dopo la sconfitta del loro candidato, vanno PCI, PSI, PRI, PSDI. Indipendenti dai due blocchi rimangono i monarchici.
Se Rebecchini può governare per l'intera legislatura l'ottimo risultato delle sinistre e l'agguerrita propaganda nei quartieri periferici e nelle borgate evoca nella gerarchia ecclesiastica lo spettro del possibile ritorno in futuro di giunte capitoline a emulazione del "Blocco del Popolo" di Ernesto Nathan, "tanto rispettabili scrive Andreotti, quanto intrise di anticlericalismo".[10] Ricevendo in udienza il Sindaco e la giunta Pio XII[11] sostiene infatti che
«la speranza, da Noi allora espressa, che tutti i cittadini avrebbero posto il bene comune al disopra delle differenze di opinioni e di tendenze politiche, non si è pur troppo avverata»
Riferendosi all'Anno santo del 1950 il Pontefice si chiede
«come potremmo Noi chiamare ed invitare i fedeli del mondo intiero a visitare piamente questa Nostra città episcopale, — città di Dio, città di un magistero di verità e di santità, se essa desse ancora lo spettacolo di turbamenti, di lotte intestine, di pubblici ed impuniti attacchi ed ingiurie contro la Religione e questa stessa Sede Apostolica?»
La sua preoccupazione per i destini politici italiani, e di Roma in modo particolare, è del resto già emersa negli auguri per il Natale 1946 al popolo romano, laddove sostiene che il risultato delle sinistre espone il volto sacro di Roma ad essere macchiato e coperto di fango.[12]
Non siamo della Democrazia Cristiana perché non accettiamo nessun compromesso con il mondo capitalistico ingiusto ed oppressivo, in un partito in cui convivono ricchi e poveri, capitalisti e lavoratori, sono sempre i poveri ad avere la peggio.
Non siamo Comunisti perché non siamo marxisti o materialisti, perché non vogliamo dittature, né uno Stato padrone delle nostre cose, perché non ammettiamo dipendenze straniere.
Non siamo nel Partito Socialista perché malgrado nuove correnti non si è ancora chiaramente liberato della vecchia mentalità materialistica, perché non ha ancora trovato la sua strada vitale ed autonoma.
Siamo Socialisti Cristiani. Socialismo cristiano non significa socialismo di "destra", significa primato dello spirito, rispetto della persona e dei suoi fini naturali ed eterni, significa assoluta fedeltà ad un programma di radicale rinnovamento politico ed economico.
Alla Costituente noi difenderemo con fermezza, accanto agli altri cattolici, i nostri principi cristiani e sosterremo la nostra causa socialista, che è la causa di tutti i lavoratori
L'altra grande preoccupazione che spinge il pontefice a promuovere l'operazione è l'unità politica dei cattolici, messa a dura prova da un pluralismo democratico del tutto inedito per l'Italia.[6] Alla preoccupazione per la propaganda della sinistra vera e propria, infatti, si somma quella per la frammentazione dell'elettorato cattolico progressista in partiti come la Sinistra Cristiana di Franco Rodano (ex Movimento dei Cattolici Comunisti), il Partito Cristiano Sociale di Gerardo Bruni (ex Movimento dei cattolici antifascisti) e il Movimento cristiano per la pace di Guido Miglioli.
Scomparso definitivamente il fascismo con la sconfitta della RSI i cattolici di sinistra sono passati dalla clandestinità partigiana all'organizzazione strutturale dei singoli movimenti. Elemento comune a tutti è sfatare il mito che cattolico debba politicamente significare l'adesione alla Democrazia cristiana e alla sua linea politica, al momento liberista e filo-capitalista. La presenza di molti ex fascisti nelle file democristiane, tollerati in funzione anticomunista, porta all'obiettivo di combattere il possibile sviluppo di movimenti post-fascisti guardando alle forze sociali (classe operaia) e politiche (partito comunista) ritenute capaci di abbattere il fascismo e di impedirne ogni rinascita, eliminando alla radice i meccanismi economici e strutturali che ne hanno a suo tempo reso possibile l’ascesa.[13] Della sinistra, inoltre, condividono le idee relative alla famiglia che stanno prendendo corpo nella Costituzione (divorzio; matrimonio civile ed equiparazione giuridica dei coniugi; contrarietà ai finanziamenti statali alla scuola privata) sostenendo la necessità di non recepire nella Carta fondamentale dello Stato i Patti Lateranensi che hanno già contestato nel 1929.
L'idea di conciliare "i pregiudizi anticlericali da una parte e le remore anticomuniste dall’altra",[14] non incontra il favore di nessuno dei due elettorati. Democrazia Cristiana e Partito Comunista rappresentano infatti il punto di riferimento sia degli elettori dei due schieramenti, sia di chi vota per Fede o meno, e alle combattute elezioni del 1948 nessuno dei partiti della sinistra cattolica riesce a superare l'1% dei voti e la conquista di seggi parlamentari.
«Sembra che l’onorevole De Gasperi abbia fino a questo momento sempre guidato vittoriosamente la lotta al comunismo in Italia. Perché mai non gli si dovrebbe far credito in questi frangenti, quasi sentisse meno di altri la preminente esigenza di una difesa gelosa della città di Roma, sede episcopale del papa?»
Nel 1951 la Democrazia Cristiana e il governo devono affrontare la prima verifica elettorale dal 1948. Una verifica politicamente significativa perché, per la prima volta dal 1928, si torna a votare anche per i consigli provinciali.[15] Una parte degli elettori, equamente distribuiti tra nord e sud del paese, non gradisce le riforme portate avanti da De Gasperi, tra le quali la legge agraria (latifondi frazionati e dati ai contadini; giusta causa per il licenziamento di fittavoli e mezzadri), l'istituzione della Cassa del Mezzogiorno e il mantenimento delle aziende di stato di epoca fascista. Il governo è quindi attaccato da sinistra come sostenitore della borghesia e del capitalismo e dal fronte moderato - non solo cattolico - per la mancata repressione degli estremismi rappresentati da comunisti, socialisti e missini. Le elezioni mantengono la maggioranza relativa alla DC, seppure ridimensionata nel totale dei voti, ma al contempo vedono una crescita significativa del Fronte popolare. La riforma in senso maggioritario del sistema elettorale, che nei comuni sopra i 10.000 abitanti introduce le coalizioni fra i partiti e il premio di maggioranza per l'alleanza più votata,[16] viene vista come un possibile strumento di vittoria delle sinistre a Roma, dove la giunta clericale di Stefano Rebecchini, che si regge anche grazie al sostegno del Movimento Sociale Italiano, è nell'occhio del ciclone per la speculazione edilizia e gli alti livelli di corruzione.[17]
In questo clima il 5 dicembre 1951 De Gasperi si incontra con mons. Pietro Pavan, incaricato dalla Segreteria di Stato di riferire che Pio XII ritiene l'azione del governo poco o nulla decisa a contrastare l'estrema sinistra. Lo statista trentino risponde che il Papa è stato male informato sul lavoro dell'esecutivo e, in particolare, sullo "sforzo continuo, intenso, logorante, sostenuto per procedere nell’opera di ricostruzione, in un contesto di avversione di uomini e di partiti, pochezza di mezzi, necessità di armamenti, disastri imprevisti come le alluvioni".[18] Risponde inoltre che non è possibile adottare contro il social-comunismo norme simili a quelle che hanno messo fuori legge il fascismo, in quanto i due partiti rappresentano tra il 35 e il 40% dell'elettorato e una qualsiasi censura provocherebbe conseguenze imprevedibili.[19]
La determinazione a seguire la linea politica del "partito di centro che guarda a sinistra" è all'origine del tentativo di alleanza tra centro e destra. La prima proposta viene spesso attribuita a mons. Roberto Ronca, già rettore del Pontificio Seminario Romano Maggiore e fondatore del movimento politico cattolico Civiltà Italica[6] che persegue l'intangibilità del Concordato, da inserire nella Costituzione, "l'indissolubilità della famiglia e l'integrità del diritto dei genitori ad educare la prole" e una "funzione sociale della proprietà" che coniughi la libertà individuale con la solidarietà sociale".[20][N 2] Altre fonti attribuiscono la primogenitura del progetto a Luigi Gedda, fondatore dei Comitati civici e presidente dell'Azione cattolica, che la propone a un Pio XII fortemente preoccupato per la linea politica indipendente dalla gerarchia ecclesiastica seguita da Alcide De Gasperi e condivisa da una buona parte del partito.[21] Altri ancora sostengono che l'idea sia partita dal papa in persona dopo aver consultato gli appunti trasmessi da mons. Pavan attraverso mons. Domenico Tardini.[18] che avrebbe poi conferito l'incarico a Gedda e Lombardi.
Per certo si sa che ad accelerare i tempi sia stato il parere espresso dal segretario democristiano Guido Gonella,[N 3] che alla domanda se vi fosse il rischio di un sindaco comunista per Roma ha risposto che in tutte le libere elezioni, in quanto tali, non si possono escludere rischi.[18] Nella stessa intervista Gonella, informato delle manovre tra destra democristiana e Vaticano, indica in don Luigi Sturzo la personalità più indicata da contrapporre a quella di Francesco Saverio Nitti, capolista del Blocco del popolo.[22] Al contrario di altre personalità del mondo cattolico, prive di meriti antifascisti se non compromesse col cessato regime, Sturzo è infatti un antifascista della prima ora che si è opposto nel 1922 al sostegno al Governo Mussolini (nel quale il PPI ha ottenuto i ministeri del Tesoro e del Lavoro e previdenza sociale) e ai compromessi tra Vaticano e governo fascista che hanno portato alla conciliazione del 1929. Costretto a dimettersi da segretario del Partito Popolare dal card. Pietro Gasparri ed esule negli Stati Uniti per una convergenza di interessi di Mussolini e Pio XI, dopo essere rimasto in sottordine nella politica del dopoguerra si vede imporre da Pio XII la scelta di rappresentare una lista civica unitaria, senza simboli di partito, composta da DC, PSDI, PRI e PLI e allargata al Partito Nazionale Monarchico e al Movimento Sociale Italiano.
«La ragione avrebbe suggerito di opporre al fronte dei comunisti l'unione di tutti coloro che nel metodo democratico vedono il mezzo necessario per il progresso, ma poiché non è avvenuto è chiaro che per i cattolici esiste l'assoluto dovere di convergere sulla lista che anche in passato raccolse la grande maggioranza dei loro voti.»
In obbedienza al volere del papa, l'anziano prelato, ormai ottantenne, prepara un appello in cui auspica "una lista unica che raccolga le migliori competenze amministrative, dia motivo ai partiti di rinunziare a presentare le proprie liste e faccia convergere su di essa i voti degli elettori che sentano di essere veramente romani".[23] La bozza prende corpo il 21 febbraio, nelle stesse ore in cui sulla stampa viene annunciato l'accordo per l'apparentamento a quattro tra democristiani, repubblicani, socialdemocratici e liberali,[24] e viene inviata ai segretari dei partiti coinvolti nell'operazione.
Nel MSI la disponibilità della segreteria nazionale (Augusto De Marsanich, Arturo Michelini) è contestata dalla sinistra interna guidata da Giorgio Almirante[N 4] che persegue l'obiettivo di un accordo coi monarchici per la conquista delle amministrazioni del meridione. "In tutta la vicenda" scrive Antonio Parlato,[25] "si innestarono questioni più ampie, come la legge Scelba, in quel momento in discussione in Parlamento, la sorte di Trieste, contesa tra Italia e Jugoslavia, e la proposta di un Fronte Nazionale, l’idea cioè che le forze di destra (compresi i qualunquisti) si unissero al di là dei singoli partiti in una nuova formazione più ampia e in grado di entrare nel gioco politico".
Più complicata è la situazione nel Partito Nazionale Monarchico, dove l'operazione è sostenuta principalmente da Achille Lauro, che vuole sfruttarne l'effetto propagandistico per la sua candidatura a sindaco di Napoli. Per forzare la mano verso la scelta della lista civica, decide di rivelare il piano ai giornali, mettendo la Democrazia Cristiana e il Vaticano in grande imbarazzo.[26] L'imprudente rivelazione porta ad un acutizzarsi dei contrasti interni con Alfredo Covelli, che persegue un accordo col MSI in luogo di un'alleanza con la DC, tensione che sfocia, di lì a poco, nella fondazione da parte di Lauro del Partito Monarchico Popolare, che si accorda con la DC per avere mano libera a Napoli in cambio della rinuncia ad un ruolo di opposizione nazionale.[27]
Nei partiti di governo la situazione è grossomodo la stessa. L'opposizione interna socialdemocratica, rappresentata dall'on. Carlo Andreoni, presenta al segretario Giuseppe Romita un ordine del giorno per invalidare la decisione della direzione nazionale sull'apparentamento. La proposta viene respinta dall'esecutivo nazionale, dal quale Andreoni si dimette, con l'ammonizione ai dissidenti che una eventuale lista che vada a contrapporsi a quella ufficiale del partito, che si concretizza nel raggruppamento dei "Socialdemocratici laburisti", porterebbe all'immediata espulsione dei promotori;[28]Dal Partito repubblicano la risposta è affidata a un comunicato della direzione nazionale, nel quale è detto che "[lo schieramento centrista] è il solo capace, nella situazione attuale, di respingere l'assalto dell'antidemocrazia comunista e fascista.[14]
In questa situazione, con l'iniziativa che viene dichiarata fallita il 22 aprile[N 5][29] - ovvero nel giorno in cui Don Sturzo avrebbe dovuto diffondere l'appello - Alcide De Gasperi, supportato da mons. Montini,[30] riesce ad unire la maggioranza della Democrazia Cristiana agitando lo spettro di un secondo partito conservatore e confessionale, che dalla Santa Sede è visto di buon occhio da mons. Domenico Tardini,[23][22] ma che infrangerebbe l'unità politica dei cattolici e frazionerebbe l'elettorato a tutto vantaggio della sinistra che si pretende di combattere.[N 6] L'opposizione del Presidente del Consiglio[30] si somma alla richiesta di negoziati da parte di MSI e monarchici, definiti da Guido Gonella "incompatibili con l’urgenza della cosa [...] non si doveva portare sul terreno delle trattative fra partiti, ma, al contrario, si doveva concretare in una rinuncia dei partiti a presentare loro liste".[23][22]
«Esprimo la certezza che i cittadini romani, esercitando compatti il loro diritto di voto, garantiranno contro ogni insidia gli eterni valori di Roma»
Secondo un dettagliato resoconto de l'Unità,[31] il fallimento dell'operazione va ricercato nella posizione espressa da Luigi Gedda ("se la DC non si allea con la destra, l'Azione cattolica le negherà il suo appoggio") e nell'aver messo le direzioni di PSDI, PRI e PLI di fronte a una decisione in luogo di una proposta. Randolfo Pacciardi e Ugo La Malfa minacciano l'uscita del PRI dalla maggioranza di governo qualora la DC dia seguito alla richiesta del Movimento Sociale di ritirare la legge per la repressione del neofascismo (per difendere la quale Mario Scelba è pronto alle dimissioni). Viene inoltre precisato che la direzione nazionale democristiana si è spaccata a metà, respingendo per un solo voto un ordine del giorno contrario (presentato dal vicesegretario Domenico Ravaglioli, e che il comitato romano del partito ha preso posizione contro l'iniziativa.
Nello stesso giorno il quotidiano democristiano Il Popolo[29] smentisce la contrarietà del comitato romano del partito, giustificando la notizia con un rinvio della decisione ufficiale, e dà notizia di una riunione dei partiti della maggioranza allargata al PLI (che al momento non ne fa parte) dove si sono confermati gli accordi già presi per l'apparentamento. Nonostante le prese di posizione di Luigi Gedda (che il 21 aprile ha minacciato di ritirarli dalla lista della DC) viene anche confermata la presenza dei 15 esponenti dell'Azione Cattolica, a conferma del rientro di qualsiasi contrasto, anche se la ricomposizione fa perdere il posto di presidente del movimento giovanile dell'associazione a Mario Rossi, da sempre schierato contro la determinazione del presidente a considerare l'associazione per il numero di persone che poteva schierare in funzione elettorale.[32]
L'esito del voto da ragione alle previsioni che Andreotti ha inviato a Pio XII ("Nelle elezioni i partiti apparentati conquistarono le maggioranza nel comune di Roma. Come volevasi dimostrare.")[22] Il 24 e 25 maggio 1952 le urne romane danno i seguenti risultati:[33]
«Dura lotta elettorale contro totalitarismi è conclusa con vittoriosa affermazione democristiana. Vittoria democratica Roma garantisce tradizioni cattoliche civili città eterna. Partito plaude suo animatore ed infaticabile combattente vittoriosa battaglia che assicura consolidamento e progresso istituzioni democratiche.»
La campagna elettorale - e non solo a Roma - viene combattuta senza esclusione di colpi. Parlando a Reggio Calabria De Gasperi afferma che "ogni voto dato al Movimento sociale italiano è un voto perduto; quanto alla monarchia, non bisogna dimenticare che oggi si tratta di eleggere il sindaco e non il re. Noi vogliamo la pacificazione ma non si pretenda che noi ci assoggettiamo alla politica di isolamento internazionale e di avventure dei fascisti, politica che porterebbe di nuovo il Paese alla rovina". Poche ore dopo il ministro degli Interni, Mario Scelba, destituisce il questore che non ha saputo impedire le contestazioni al comizio del leader democristiano.[34] Il direttore de l'Osservatore Romano invita i cattolici a non disertare le urne, perché l’astenersi dal voto sarebbe un doppio peccato mortale verso Dio, la Chiesa e la Patria, e invita a votare per la DC.[34] A scaldare ulteriormente il dibattito politico è l'inizio della discussione alla Camera della legge Scelba, contro la quale il Movimento Sociale Italiano - respinte le eccezioni di costituzionalità presentate - ricorda che i democristiani "oggi si scagliano contro il MSI, mentre alla vigilia del 25 maggio ricercarono un’alleanza"» e che "in molti comuni al DC si è apparentata con il MSI e ancora ne cerca l’appoggio per la formazioni di amministrazioni comunali e provinciali «contro i partiti di sinistra".[35][N 7]
Alla direzione nazionale del PCI Palmiro Togliatti afferma che "Sarebbe un errore dire che oggi il pericolo principale è il fascismo. Il nemico principale è invece la DC, che ha mantenuto solide posizioni come forza della conservazione e della reazione. I clerico fascisti vorrebbero una trasformazione reazionaria violenta [...] La DC cercherà di condurre l’azione repressiva senza ricorrere a forme reazionarie aperte. Sulle sue scelte influiranno molti elementi imprevedibili. Cercare nuove alleanze sul terreno antifascista, ma non dimenticare mai che il nemico principale è la DC. Sarebbe uno dei più grossi errori che si possono commettere".[34]
La voce riferita da De Gasperi a Scelba sull'intenzione del Vaticano di creare un nuovo partito cattolico, perché crede che la democrazia sia troppo debole per resistere alle forze di sinistra, porta al primo annuncio di una modifica della legge elettorale per le elezioni politiche fatto da Guido Gonella a una riunione del gruppo parlamentare democristiano alla Camera e confermato il 18 giugno alla riunione del Consiglio Nazionale di Anzio; contro l'introduzione del maggioritario, confermata da De Gasperi, si pronunciano sia la sinistra (Giovanni Gronchi) che la destra (Carmine De Martino) mentre si dichiara favorevole il centro di Attilio Piccioni e Giulio Andreotti.[36] De Gasperi parla di "democrazia protetta"[37] sostenuto in questo dai gesuiti (la Compagnia di Gesù e notoriamente la portavoce ufficiosa dell'opinione del Papa) che, per bocca di don Angelo Brucculeri, affermano che "la ragione che spinge la DC a riformare la legge elettorale è che intende ben prepararsi al prossimo cimento delle consultazioni politiche e trionfare sulle schiere ubriache di miti totalitari che hanno per emblema la falce e il martello o il malfamato fascio littorio".
Il mancato scatto del premio di maggioranza della nuova legge per soli 54.000 voti[38] ha come conseguenza la prima sfiducia a un governo appena formato. L'esecutivo monocolore, l'ultimo presieduto da De Gasperi ottiene 282 voti contro 263 a favore e 37 astensioni; al Senato, sulla base del voto negativo della Camera, la discussione non ha luogo e nella seduta del 28 luglio, prevista per l’inizio del dibattito, Attilio Piccioni si limita ad annunciare le dimissioni dell'esecutivo.[39][40] Mentre De Gasperi si ritira dalla scena politica [N 8][N 9] il centrismo sopravvive al suo fondatore in maniera sempre più instabile. I successivi governi Pella, Fanfani (anch'esso respinto), Scelba, Segni e Zoli si rivelano deboli nell'iniziativa legislativa e nell'azione politica, anche a causa del progressivo allentarsi dell'alleanza tra comunisti e socialisti (che iniziano ad avvicinarsi all'area di governo) e dalla tendenza sempre più conservatrice dei liberali dopo l'elezione a segretario di Giovanni Malagodi.[41]
Il doppio tentativo di istituire un premio di maggioranza per la coalizione centrista finisce col creare le condizioni per l'avvicinamento e l'ingresso nella maggioranza di governo ai socialisti,[42] soluzione contro cui la Chiesa si batte fino al nuovo corso di Giovanni XXIII, non pregiudizialmente ostile alla partecipazione socialista agli esecutivi di centro-sinistra presieduti da due cattolici progressisti come Aldo Moro e Mariano Rumor. Governi che ottengono anche il sostegno di un'Azione cattolica che nel frattempo, sotto la presidenza di Vittorio Bachelet, ha compiuto una scelta esclusivamente religiosa, non più collaterale (almeno ufficialmente) a nessun partito politico.
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