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Commentario biblico, opera di papa Gregorio I Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
I Moralia in Iob o Moralia sive Expositio in Iob[1] sono un imponente scritto di commento al Libro di Giobbe composto da papa Gregorio Magno.
Moralia in Iob (o Moralia sive Expositio in Iob) | |
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Autore | Gregorio Magno |
Periodo | 579-600 circa |
Genere | Esegesi biblica |
Lingua originale | latino |
All’interno della produzione di Gregorio, rappresentano l’opera di maggior impegno ed estensione. I Moralia si compongono di 35 libri, nei quali vengono commentati, in ordine dal primo all’ultimo, i 42 capitoli del testo veterotestamentario, con anche l’inserimento di ampie digressioni, osservazioni, ammonimenti morali e interpretazioni spirituali. Lo scritto riscosse immediatamente un’enorme fortuna in tutta Europa, che mantenne inalterata per i secoli successivi.
Sono note informazioni molto precise sulle circostanze e le modalità di composizione dei Moralia[2]. Mentre Gregorio si trovava presso la corte di Costantinopoli in qualità di apocrisario, venne esortato dai confratelli lì presenti – sollecitati anche da Leandro di Siviglia, futuro dedicatario dell’opera, anch’egli allora a Costantinopoli – ad intraprendere un’opera di commento al Libro di Giobbe. Dopo alcune iniziali ritrosie, dovute alla quantità e alla difficoltà del lavoro, verso il 579 Gregorio si accinse ad intraprendere il grande sforzo esegetico, che si sarebbe concluso negli anni 585-586 al momento della partenza da Costantinopoli. L’opera, tuttavia, durante gli anni successivi andò incontro a diverse e importanti riscritture. Nell’aprile del 591, quando Leandro di Siviglia ne chiese l’invio, i Moralia erano stati completati, ma non erano ancora pronti per la diffusione[3]. La revisione doveva essere ormai stata terminata nel luglio del 595, quando Gregorio inviò a Leandro parte dei Moralia in Iob insieme alla Regula pastoralis[4]. Ciò non impedì però al pontefice di porre nuovamente mano all’opera: dopo il 596, ad esempio, venne inserito un riferimento all’evangelizzazione e conversione degli Angli, che avvenne in quegli anni ad opera di Agostino di Canterbury[5]. Come sembra di capire da un’epistola, nel luglio del 600 l’opera doveva essere definitivamente conclusa e quindi pronta per essere copiata e diffusa[6].
Nell’epistola introduttiva ai Moralia, Gregorio ripercorre il lungo processo compositivo che ha portato all’opera. Inizialmente, egli si limitò a commentare a voce passi che i suoi ascoltatori avevano sottomano, poi passò a dettare il commento di ulteriori passaggi. Successivamente, quando ebbe a disposizione maggior tempo, rielaborò il testo, lasciando alcune parti identiche, aggiungendone altre e togliendone poche altre ancora, preoccupandosi soprattutto di controllare e correggere le note che erano state apposte durante il suo primo commento a voce. Infine, quando dettò gli ultimi capitoli, fece in modo che si adattassero allo stile di quelli già composti. Si riscontra quindi da parte di Gregorio un’intensa attività di correzione e rielaborazione, finalizzata soprattutto a rendere i Moralia un testo omogeneo.
Oltre alla ragione esterna rappresentata dalla richiesta di Leandro e dei confratelli, a spingere Gregorio a comporre i Moralia in Iob potrebbero essere state anche motivazioni più profonde. Secondo Paolo Siniscalco[7], una prima motivazione risiederebbe nel fatto che Gregorio – allora preda di gravi sofferenze, fisiche, ma legate soprattutto all’allontanamento forzato dalla vita monastica e contemplativa – avrebbe colto alcune corrispondenze fra la propria vicenda e quella di Giobbe, uomo giusto tuttavia duramente colpito da Dio. Una seconda motivazione sarebbe di carattere ecclesiologico e risiederebbe nella possibilità di leggere nella vicenda di Giobbe una prefigurazione di Cristo e della Chiesa: i dolori patiti da Giobbe sono paragonabili a quelli di Cristo, ma anche alle traversie vissute dalla Chiesa; gli amici che prima insultano Giobbe e poi si riconciliano con lui rappresenterebbero gli eretici, che talvolta possono rientrare in seno alla Chiesa, e così via. Un terzo motivo consisterebbe nella lettura del Libro di Giobbe, da parte di Gregorio, come rappresentazione dell’intera vicenda umana, intesa sia come dramma dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo che si interroga sulla sofferenza propria o altrui nell’assenza di colpa, sia come storia profonda dell’umanità.
Nel commentare il Libro di Giobbe, Gregorio parte sempre dall’interpretazione letterale del testo, per poi passare al significato allegorico e giungere infine al senso morale in esso contenuto[8]. Per assolvere all’intento di edificare moralmente i lettori, considerato il vero compito dell’esegeta[9], Gregorio dedica uno spazio e una cura maggiori agli ultimi due procedimenti interpretativi, quello allegorico e quello morale. È Gregorio stesso a spiegare come l’andamento del discorso non debba mai essere univoco, ma debba al contrario adattarsi di volta in volta alla situazione e al passo biblico preso in questione, e come l’esegeta non debba trattenersi dalle digressioni finalizzate all’edificazione morale del lettore[10]. Anche i tre piani interpretativi, di conseguenza, non ricorrono in maniera identica: in alcuni casi, tutti e tre i sensi vengono ricercati, mentre in altri l’interpretazione letterale viene trascurata o del tutto ignorata; in rari casi, infine, un genere di interpretazione viene interdetto, in quanto risulterebbe fuorviante per il lettore e non permetterebbe di cogliere il vero significato della parola divina[11].
A partire dal VII secolo, i Moralia in Iob si diffusero con rapidità in tutta Europa, dove divennero una delle opere maggiormente lette[12]. A testimoniare la grande fortuna dell’opera concorrono diversi fattori: il grande numero di manoscritti che hanno conservato il testo, circa 1500[13]; i volgarizzamenti in antico tedesco (X secolo), in spagnolo (XI secolo), in italiano (XIV secolo) e in francese (XVII secolo); i numerosi florilegi e riduzioni dell’opera; le citazioni e i rimandi frequenti all’opera da parte degli autori successivi, fra i quali Beda, Alcuino, Rabano Mauro, Tommaso d’Aquino e moltissimi altri[14].
Argomento collegato al successo e alla diffusione dell’opera è il pubblico per cui essa era stata pensata. Gregorio, infatti, considerava i Moralia un’opera difficile e non popolare, che avrebbe potuto causare più danni che vantaggi spirituali al pubblico incolto che l’avesse ascoltata e fraintesa[15]. Nelle intenzioni dell’autore, l’opera è anzitutto rivolta ai monaci, ai quali vuole offrire un modello perfetto di vita cristiana, e i pastori, ai quali vuole dimostrare gli strumenti e le condizioni per una predicazione efficace. L’opera, tuttavia, al di là delle parole di Gregorio, si rivolge anche a un pubblico più vasto, in cui sono compresi quanti cerchino Dio nelle traversie spesso dolorose e assurde della vita umana. Da questo punto di vista, quindi, i Moralia si prestano a diventare patrimonio popolare, in quanto basati sulla Bibbia messa alla portata degli intellettuali, degli spirituali, ma anche dei semplici[16].
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