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misure cautelari nel diritto italiano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Le misure cautelari sono disciplinate dal Libro IV del codice di procedura penale italiano, e si sostanziano in limitazioni di libertà personale. Sono disposte da un giudice, sia nella fase delle indagini preliminari che nella fase processuale, lasciando un certo margine di discrezionalità, condizionato dalla presenza di presupposti stabiliti dalla legge. Si distinguono in misure cautelari personali e misure cautelari reali.
Personali | Reali | ||
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Coercitive | Interdittive | ||
Obbligatorie | Custodiali | ||
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Disciplinate dal Titolo I del Libro IV del codice di procedura penale, le misure cautelari personali sono istituti processuali che incidono sulla libertà personale dell'imputato. Proprio per tale motivo le garanzie che l'ordinamento prevede sono: la riserva di legge e la riserva di giurisdizione.[1] Tali istituti processuali non possono essere adottati al fine di ottenere dall'imputato una condotta collaborativa, poiché, ai sensi dell'art. 64 comma 3 lettera b) c.p.p., gli è riconosciuto il diritto al silenzio.[2]
Le misure cautelari personali, a loro volta, si suddividono in coercitive e interdittive. La loro applicazione è condizionata alla assenza di una qualunque causa estintiva del reato o causa estintiva della pena, di giustificazione o di non punibilità (art. 273 c.p.p.).[1][3]
Le misure cautelari personali richiedono per la loro applicazione l'esistenza di due ordini di requisiti: la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c. 1 c.p.p.) nonché di esigenze cautelari (art. 274 c.p.p.).[4]
Per esigenze cautelari si intendono:[4]
Per quanto riguarda i criteri di scelta delle misure, il giudice tiene conto dell'idoneità di ciascuna in relazione alle diverse esigenze cautelari da soddisfare, come previsto dal primo comma dell'art. 275 c.p.p.[6] Inoltre, devono essere osservati due principi indicati nel 2° e 3° comma dello stesso articolo:
Inoltre, lo stesso articolo, nel comma 4 e successivi, prevede alcuni casi in cui la custodia cautelare in carcere non può essere disposta:[8][9]
Le misure cautelari personali coercitive comportano una limitazione o privazione della libertà personale.[10] Esse possono essere applicate:
Nel primo caso, ai fini del computo dei limiti temporali previsti non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, eccezion fatta per:[3]
Inoltre, i limiti temporali previsti per la custodia cautelare in carcere non si applicano nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare.[2]
Sono previsti termini di durata: intermedi, massimi, complessivi. I termini intermedi sono quattro. Il termine massimo comprende i termini intermedi. I termini complessivi comprendono anche le sospensioni della misura cautelare. Le misure obbligatorie possono avere durata sino al doppio rispetto a quelle custodiali.[12]
Il termine massimo della custodia cautelare in carcere in attesa di primo giudizio, come pure il termine massimo della custodia cautelare complessiva è in relazione alla pena massima prevista per il delitto (c.p. art. 303) per cui è stata applicata la custodia cautelare. Inizia a decorrere nuovamente in presenza di atti giudiziari relativi allo stesso reato che lo consentano, o di nuovi capi di imputazione anche relativi a fatti materialmente commessi prima dell'inizio della carcerazione preventiva.[2][12]
Le Sezioni Unite Penali della Cassazione, con la sentenza n. 4614 del 5 febbraio 2007, hanno stabilito che il limite massimo della carcerazione preventiva non è un limite perentorio, ed è derogabile da un provvedimento del giudice consentito dalla legge.[13] Non è invece accettabile un meccanismo processuale dal quale derivi che, alle scadenze temporali considerate dalla legge, pur in mancanza di un provvedimento del giudice, la custodia cautelare non debba inderogabilmente cessare.[14] Diversi costituzionalisti ritengono palesemente illegittimo questo orientamento giurisprudenziale che consente una limitazione della libertà personale senza confini temporali, in casi limite di far scontare un ergastolo a persone in attesa di giudizio, con una semplice sequenza di provvedimenti giudiziali che prorogano la custodia cautelare.[15] Il magistrato potrebbe esercitare l'azione penale in modo da non incriminare subito l'imputato con tutti capi di accusa noti, e introdurli "gradualmente" allo scadere dei termini di custodia cautelare, rinnovati ogni volta con accuse nuove.[15]
Sono adottate dal giudice penale, che limitano temporaneamente l'esercizio di determinate facoltà o diritti, in tutto o in parte.
Salvo quanto previsto da disposizioni particolari, tali misure possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni (art. 287 c.p.p.).[2][4]
Appartengono alla categoria:
Sono provvedimenti giudiziali che incidono su beni patrimoniali[16], ossia sul diritto di proprietà garantito dall'art. 42 della Costituzione.
Si distinguono due tipi di misure:
Il loro fine comune è quello di garantire l'esecuzione della sentenza definitiva o impedire che l'uso di una cosa pertinente al reato possa aggravare le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati.[16][17]
I presupposti per la loro applicazione sono: il fumus del reato e il periculum in mora, e si applicano indipendentemente dalla custodia cautelare in carcere.
L'art. 316 del Codice di procedura penale prevede le misure cautelari reali.[2][18]
La disciplina processuale penale precedente alla riforma del 1988 non contemplava espressamente il sequestro preventivo come autonomo istituto. Il vecchio art. 337 prevedeva soltanto che nel corso del procedimento il giudice poteva disporre anche d'ufficio con decreto motivato il sequestro di cose pertinenti al reato, finalizzando l'istituto alle acquisizioni probatorie (l'attuale sequestro probatorio), ma consentendo di fatto anche l'utilizzo dell'istituto del sequestro penale al fine di paralizzare condotte antigiuridiche in itinere, quelle cioè che porterebbero il reato ad "ulteriori conseguenze".[2]
In giurisprudenza si ritiene che il rapporto di strumentalità tra il bene in sequestro ed il suo possibile uso criminoso sia affidato ad una valutazione discrezionale del giudice, il quale deve contemperare gli opposti interessi per evitare il rischio di sfociare in un'indiscriminata compressione dei diritti individuali della proprietà e della libera iniziativa economica privata.[19]
Pertanto, la giurisprudenza si attiene a dei parametri abbastanza precisi:
In particolare, la Corte di cassazione, in un recente caso di sequestro di documentazione relativa ad un procedimento amministrativo, ha chiarito che il sequestro preventivo deve avere ad oggetto "il risultato" di un'attività, e non l'attività stessa. Di conseguenza, è possibile sequestrare la documentazione (per privare l'ente della disponibilità giuridica di essa e renderne impossibile l'uso successivo) ma non anche paralizzare l'iter procedimentale, in quanto il sequestro «non è finalizzato a svolgere un'atipica funzione inibitoria di comportamenti rilevanti sul piano penale.[21]
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