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matrimonio celebrato nelle forme, liturgiche e sostanziali, previste dal codice di diritto canonico e dalle altre norme della Chiesa cattolica tra un uomo e una donna Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Il matrimonio canonico è il matrimonio celebrato nelle forme, liturgiche e sostanziali, previste dal codice di diritto canonico e dalle altre norme della Chiesa cattolica tra un uomo e una donna. Negozio che la Chiesa considera di diritto naturale, è elevato a sacramento sulla base dell'insegnamento di Gesù Cristo e convogliato nel Codice:
«Il patto matrimoniale [...] è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento»
Il matrimonio canonico di per sé produce effetti solo all'interno dell'ordinamento canonico, e va tenuto distinto dal matrimonio concordatario, di cui invece potrebbe far parte, dal quale la legge degli stati secolari legittima e in certi casi disciplina, il sorgere di effetti civili propri del matrimonio civile.
Il matrimonio ha innanzitutto basi nelle Sacre scritture, ovvero nel diritto divino positivo (o rivelato), a partire dalla Genesi fino a ognuno dei quattro Vangeli[1]. Le Sacre scritture sono completate dalla Traditio orale e scritta dei Padri della Chiesa, e dalle norme di diritto divino naturale che sono valide anche per i non cristiani, secondo l'insegnamento di San Tommaso d'Aquino, dottore della chiesa.
Ovviamente il matrimonio trova numerosi e incisivi richiami nel diritto umano ecclesiastico, specialmente con la redazione del codice di diritto canonico del 1917 e del successivo codice promulgato nel 1983. Se il primo codice non definiva affatto il matrimonio, ritenendo la questione superflua, e si soffermava molto di più sugli aspetti tecnici e giuridici con una impronta fortemente materialistica, di origine medievale, (indice già ne è la collocazione nel codex pio-benedettino dell'istituto matrimoniale, disciplinato, insieme agli altri sacramenti, nel terzo libro, De rebus), la riforma del 1983 ha portato a una riconsiderazione degli aspetti personali e pastorali del matrimonio, definito ora consortium totius vitae, ordinato al bene dei coniugi e della prole, fondato su un foedus, un patto sacro, tra uomo e donna e qualificato necessariamente (per i battezzati) come sacramento.
Per completare il prospetto delle fonti è utile anche ricordare vari provvedimenti papali in materia matrimoniale, quali il decreto Ne Temere (promulgato da papa Pio X il 2 agosto 1907) sull'estensione della forma tridentina; l'enciclica Casti Connubii (opera di Pio XI, pubblicata il 31 dicembre 1930) sulla dignità e gli errori del matrimonio; la costituzione dogmatica Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II; il motu proprio Matrimonia mixta (promulgato da Paolo VI il 31 marzo 1970 riguardo ai matrimoni interconfessionali); l'istruzione Dignitas Connubii (promulgata dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi il 25 gennaio 2005) in materia di processo per nullità matrimoniale.
In sede ecclesiastica, la Conferenza Episcopale Italiana ha provveduto a emanare disposizioni normative di attuazione della disciplina concordataria con il Decreto Generale sul matrimonio canonico[2]. Il Decreto Generale sul matrimonio canonico, promulgato il 5 novembre 1990 si sostituisce integralmente alla precedente istruzione della Congregazione per i sacramenti, emanato il 1º luglio 1929. Il decreto è valido soltanto per i matrimoni celebrati dalla chiesa Cattolica e in territorio italiano, essendo una disposizione attuativa dei Patti Lateranensi.
Dal punto di vista giuridico, come da quello canonico, l'elemento fondamentale del matrimonio è certamente il consenso, ossia l'incontro tra le volontà delle diverse parti, in questo caso dei nubendi. Esso deve essere prestato da soggetti giuridicamente capaci e in assenza di impedimenti, nella forma prescritta ad validitatem dalle norme della Chiesa. Il consenso è elemento imprescindibile e personale, non può essere sostituito né corroborato da alcuna potestà umana (can. 1057). Un consenso mancante, viziato o (in quasi tutti i casi) condizionato determina l'invalidità del negozio.
Il codice presenta il matrimonio come un "contratto consensuale formale"; in passato la definizione però non è sempre stata così pacifica. Si sostiene che il matrimonio sia un negozio che si perfeziona con il semplice consenso, tuttavia v'è un aspetto ulteriore che ricopre una sua propria importanza in materia di indissolubilità del vincolo: la consumazione.
Oltre alla forma ordinaria pubblica del matrimonio, il codice di diritto canonico del 1917 prevedeva tre possibili deroghe:
Secondo la Chiesa non può esistere, fra battezzati, un contratto matrimoniale canonico senza che esso sia sacramento (can. 1055). Il matrimonio è stato elevato a sacramento dallo stesso Gesù Cristo, come unione lecita e qualificante, tesa al raggiungimento della grazia divina. L'errore sulla sacramentalità del matrimonio, o la sua volontaria esclusione determinano l'invalidità del negozio stesso. Alla natura sacramentale del matrimonio è legata la sua indissolubilità e l'indisponibilità dei suoi contenuti; tuttavia, riguardo all'indissolubilità è bene notare che solo il matrimonio contratto validamente e consumato secondo natura (ratum et consummatum) raggiunge la pienezza del sacramento ed è realmente indissolubile. In mancanza della consumazione infatti è possibile ottenere, a precise norme di legge, la dispensa dal vincolo.
I requisiti per contrarre matrimonio nel diritto canonico sono tre:
Il soggetto capace, che esprime un consenso valido nella forma stabilita dalla legge canonica[3] lo fa validamente. Per la validità dell'atto è necessario che entrambi i nubenti pronuncino il loro consenso in costanza di questi tre elementi; se così è l'atto è valido e produttivo dei suoi effetti giuridici secondo il canone 1134. Altrimenti la validità è solo apparente e può essere travolta ex tunc dal Tribunale ecclesiastico con una sentenza di nullità.
Per fini[4] si intendono gli scopi basilari che l'ordinamento canonico prevede per il negozio; l'esclusione di essi provoca invalidità per difetto o vizio del consenso. Nel codice del 1917 i fini considerati erano tre, uno primario, il bonum prolis (la procreazione e educazione dei figli), e due secondari, il mutuum adiutorium (sostegno morale) e il remedium concupiscentiae (rimedio alla concupiscenza). Nel codice del 1983 questa gerarchia dei fini è stata abolita; esso riporta come fini del matrimonio il bonum prolis e il bonum coniugum (rispetto e sostegno del coniuge nei confronti dell'altro).
I fini si distinguono dalle mere finalità[4] (ovvero i motivi ulteriori che spingono i due soggetti a sposarsi), dato che i nubendi possono tranquillamente celebrare un matrimonio totalmente valido anche se spinti da motivazioni differenti da quelle ispirate dalla Chiesa. È sufficiente, allo scopo di contrarre matrimonio validamente, che essi non siano disposti, almeno implicitamente, a discostarsi dal modello matrimoniale proposto dalla Chiesa.
Proprietà inderogabili del matrimonio sono, secondo il canone 1056, l'unità e l'indissolubilità. L'unità corrisponde all'esclusività del vincolo matrimoniale; sono perciò proibite tutte le forme di poligamia e poliandria. Nel caso in cui un infedele poligamo si converta al cattolicesimo la legge canonica consente che scelga una delle sue mogli, congedando le altre (alle quali deve però sempre il sostentamento). L'indissolubilità consiste nell'unità perpetuata fino alla morte, senza la possibilità che il vincolo sia sciolto per volontà dei coniugi o dell'autorità umana.
Unità e indissolubilità sono conseguenze dirette della sacramentalità del negozio; esso è unico e indissolubile per diritto divino e umano. Ne deriva che, non essendo il matrimonio tra infedeli un sacramento, il loro vincolo è unico e indissolubile nei soli limiti del diritto naturale e di quello civile. Il rapporto tra fedeli acattolici è regolato dal diritto delle Chiese Cristiane Orientali.
Ogni matrimonio celebrato nelle forme previste si considera valido fino a prova contraria. Tale prova (che deve essere certa e tale da cancellare ogni dubbio) è un onere di colui che intende dimostrare la nullità del vincolo (can. 1060). Questa presunzione domina l'intero diritto matrimoniale canonico; a essa si affiancano la presunzione di consumazione in presenza della convivenza dei coniugi (can. 1061 par. 2) e la presunzione che il "consenso interno" equivale a quello manifestato (can. 1101). Queste presunzioni, unitamente ai canoni 1085 par. 2 e 1100, costituiscono lo scheletro del "favor matrimonii", sistema che per agire necessita solo che il matrimonio esista almeno come fatto giuridico; in tale caso esso si applica ai matrimoni di tutti i cristiani e non cristiani.
Il favor matrimonii è una presunzione di validità juris tantum, ovvero valida fino a prova contraria. È tuttavia molto rigoroso e prevale su ogni altra presunzione che lo contrasti; l'unico caso in cui soccombe riguarda lo scioglimento del vincolo in favore della fede, o per privilegio paolino o privilegio petrino, nei matrimoni tra infedeli (allorquando uno dei due intenda convertirsi, can. 1180).
«Tutti possono contrarre il matrimonio, se non ne hanno la proibizione dal diritto. (can 1058)»
A norma del canone 1058 chiunque può contrarre matrimonio a meno che non lo vieti il diritto. Questo canone sancisce un vero diritto soggettivo al matrimonio, giustificabile sotto tre diversi profili:
Il diritto si presume iuris tantum; vi sono limiti, tuttavia, all'esercizio dello stesso, quali l'incapacità (can. 1095, che richiede una sanità mentale sufficiente anche solo a comprendere gli obblighi e i diritti derivanti dal vincolo) e gli impedimenti (ora solo dirimenti, cann. 1083 e seguenti). Altri divieti (tranne quelli contenuti in clausole irritanti di sentenze dei Tribunali Apostolici) rendono il matrimonio solamente illecito.
«L'impedimento dirimente rende la persona inabile a contrarre validamente il matrimonio. (can. 1073)»
A norma di diritto, l'impedimento è una circostanza di fatto riguardante un nubente, formalmente recepita in norma giuridica di diritto divino od umano, che impedisce la valida celebrazione del matrimonio. Più propriamente l'impedimento è una legge che vieta in particolari fattispecie la celebrazione del matrimonio. Tale legge è una legge inabilitante, cioè una legge che pone un divieto personale incidendo sulla capacità giuridica del soggetto; si distingue dalla legge irritante la quale, pur avendo anch'essa come risultato la nullità dell'atto, non si riferisce alla persona ma all'atto giuridico stesso, sancendone la contrarietà al diritto.
Dall'interpretazione combinata dei ricordati canoni 1058 e 1073 risulta che il diritto al matrimonio è la regola, l'impedimento ne è l'eccezione. Inoltre, dal combinato dei canoni 1075 e 1076, risulta che compete solo alla "suprema autorità della Chiesa" disporre gli impedimenti matrimoniali per i battezzati attraverso la legge e che è "riprovata la consuetudine che introduca un nuovo impedimento o sia contraria a uno esistente".
Nel codice giovanneo-paolino l'impedimento è concepito come causa di inabilità a contrarre; è cioè una circostanza indipendente, diversa e pregressa alla capacità di intendere e di volere del nubente, che non rende, come invece fa l'assenza di discretio judicii, incapace il nubente. A rendere invalido il matrimonio è sufficiente che anche uno solo dei nubenti sia inabile a causa di un impedimento.
In passato, nella vigenza del codice pio-benedettino, due erano i tipi di impedimenti possibili rispetto al loro effetto: gli impedimenti dirimenti e gli impedimenti impedienti; i primi, che producono l'invalidità del negozio, si sono conservati e hanno ricevuto una più attenta trattazione nel nuovo codice del 1983, i secondi, che producevano invece solo l'illegittimità del negozio riversando sul soggetto considerato autore dell'illecito le sanzioni penali previste dal codice, sono scomparsi dopo la riforma.
Oltre che rispetto agli effetti gli impedimenti si suddividono in relazione:
Sono dodici:
Non costituiscono impedimento altre circostanze che ostacolano la celebrazione del matrimonio quali il tempo feriato, il divieto temporaneo stabilito per giusta causa dall'Ordinario del luogo e il mancato espletamento delle "sollecitudini prematrimoniali".
Il consenso è uno degli elementi essenziali del matrimonio canonico, e deve essere prestato da entrambi i connubendi con piena capacità. Sebbene possa essere prestato per procura, il consenso originale è insostituibile e deve essere espresso direttamente dalla persona interessata.
Il difetto del consenso si verifica qualora uno dei soggetti abbia manifestato durante la celebrazione del matrimonio una volontà che in realtà interiormente non aveva. In questo caso si verifica l'invalidità del matrimonio.
La discrasia tra volontà e manifestazione può avvenire in situazioni e casi diversi. Si ha una differenza tra estrinseco e intrinseco involontaria quando:
La situazione di differenza tra manifestazione e volontà è volontaria per:
A volte il matrimonio è comunque invalido, sebbene il consenso ci sia, ma sia influenzato o sviato da alcuni vizi. Il consenso è viziato in tre occasioni:
Se nel diritto civile il matrimonio non può essere sottoposto a condizione (in caso contrario la clausola si considera come non apposta), nel diritto canonico è invece prevista un'ipotesi di condizione. Questa è ammissibile solamente per situazioni assolutamente incerte e relative al passato o al presente, a patto che non siano situazioni future (pena l'invalidità). Nell'ipotesi di condizione concernente il passato o presente è nullo il matrimonio se non esiste il fatto o la qualità o l'oggetto dedotto in condizione.
L'amore coniugale autentico è dono reciproco, totale, unico, fedele e indissolubile (Vangelo di Marco 10,6-9.11-12). I cristiani si sposano "nel Signore" (Prima lettera ai Corinzi 7,39), come sue membra, e il loro matrimonio è elevato a sacramento, segno efficace che contiene e manifesta la nuova alleanza, l'unione di Cristo e della Chiesa. San Paolo, dopo aver intuito che i rapporti fra Cristo e la Chiesa erano rapporti sponsali, come e più di quelli tra Jahvé e Israele (Seconda lettera ai Corinzi 11,2), giunge alla conclusione che l'unione tra gli sposi cristiani si deve considerare come immagine e, più ancora, come partecipazione dell'unione sponsale Cristo-Chiesa (Lettera agli Efesini 5,22-32). Riflettendo su queste affermazioni, la Chiesa nel Medioevo enumera il matrimonio fra i sette sacramenti e giunge, nel Concilio di Trento, a dichiararlo con infallibilità come Sacramento della Nuova Legge (cfr. D.S. 1801). L'amore umano è simbolo di quello di Cristo; l'amore di Cristo è modello e sostegno di quello umano. La comunione tra gli sposi è sì un vincolo, ma un vincolo d'amore e quindi un vincolo che scaturisce dalla libertà ed è legato ai princìpi ad validitatem e ad liceitatem.[7] Con il matrimonio gli sposi sono partecipi dell'amore di Cristo e l'alleanza sponsale è un'espressione della comunione d'amore tra Dio e gli uomini. Per questo la parola centrale della Rivelazione, "Dio ama il suo popolo", viene pronunciata attraverso le parole vive e concrete con cui l'uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale. Il loro vincolo di amore diventa l'immagine e il simbolo dell'Alleanza che unisce Dio e il suo popolo (Libro di Osea 2,21; Libro di Geremia 3,6-13; Libro di Isaia 54). E lo stesso peccato, che può ferire il patto coniugale diventa immagine dell'infedeltà del popolo al suo Dio: l'idolatria e prostituzione (Libro di Ezechiele 16,25), l'infedeltà è adulterio, la disobbedienza alla legge e abbandono dell'amore sponsale del Signore. Ma l'infedeltà di Israele non distrugge la fedeltà eterna del Signore e, pertanto, l'amore sempre fedele di Dio si pone come esemplare delle relazioni di amore fedele che devono esistere tra gli sposi (Libro di Osea, 3).
L'apologeta Tertulliano scrisse: "Come sarò capace di esporre la felicità di quel matrimonio che la Chiesa unisce, l'offerta eucaristica conferma, la benedizione suggella, gli angeli annunciano e il Padre ratifica?....Quale giogo quello dei due fedeli uniti in un'unica speranza, in un'unica osservanza, in un'unica servitù! Sono tutt'e due fratelli e tutt'e due servono insieme, non vi è nessuna divisione quanto allo spirito e quanto alla carne. Anzi sono veramente due in una sola carne e dove la carne è unica, unico è lo spirito". (Tertulliano Ad uxorem, II; VIII, 6-8: CCL I, 393). Mediante il battesimo, l'uomo e la donna sono definitivamente inseriti nella Nuova ed Eterna Alleanza, nell'Alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa. Ed è in ragione di questo indistruttibile inserimento che l'intima comunità di vita e di amore coniugale fondata dal Creatore (cfr. Gaudium et Spes, 48) viene elevata e assunta nella carità sponsale del Cristo, sostenuta e arricchita dalla sua forza redentrice.
Il fuoco del Sacramento del matrimonio va tenuto acceso e il Catechismo della Chiesa cattolica scrive a questo proposito (1642):"Cristo è la sorgente di questa grazia. Egli rimane con loro, dà loro la forza di seguirlo prendendo su di sé la propria croce, di rialzarsi dopo le loro cadute, di perdonarsi vicendevolmente, di portare gli uni il peso degli altri, di essere sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo (Lettera agli Efesini 5, 21) e di amarsi di un amore soprannaturale tenero e fecondo". Tutti gli individui e così pure le coppie sono chiamati alla preghiera per sviluppare una comunione con Dio (Prima Lettera ai Corinzi 1, 9). La preghiera è espressione della comunione spirituale tra gli sposi, indica e mantiene vivo il cammino comune.
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