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film del 1963 diretto da Luciano Salce Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Le ore dell'amore è un film commedia italiano del 1963 diretto da Luciano Salce.
Gianni e Maretta vivono da tre anni una relazione che li vede felicemente innamorati. La decisione di sposarsi cambia radicalmente la loro vita incidendo negativamente sul loro rapporto. La convivenza e la routine quotidiana spengono la passione e limitano la coltivazione dei rispettivi interessi, fatalmente distanti e inconciliabili.
Dopo maldestri tentativi di tradimento, entrambi capiscono che l'amore reciproco non è tramontato, ma è solo soffocato dalla forzata convivenza, e così salvano il loro rapporto ritornando al menage da fidanzati, fatto di incontri amorosi che impreziosiscono le loro vite, vissute però ben distanti, ognuno a casa sua.
La Commissione di revisione rilasciò regolare nulla osta, limitando la visione ai minori di 18 anni: [1]
«Revisionato il film il 19 febbraio 1963, la Sezione 3a della Commissione -tenuto conto che la Ditta produttrice si impegna a presentare apposita lettera per eliminare alcune battute che potrebbero avere un contenuto in certo qual modo offensivo del pudore- esprime parere favorevole per la concessione del nulla osta di proiezione in pubblico a condizione che la visione della pellicola sia vietata ai minori di anni 18, dato che il soggetto per svariate scene non sono adatti alla particolare sensibilità della età evolutiva ed alle esigenze della sua tutela morale (art. 5 della legge 21 aprile 1962 n. 161). Nulla osta per l'esportazione.[2]»
La società di produzione, con lettera del 6 marzo 1963 al Ministero del turismo e dello spettacolo, chiese che il film venisse nuovamente esaminato dalla Commissione di Appello al fine di poter eliminare il divieto ai minori -avendo effettuato tagli (soppressione di scene e modifica di battute dei dialoghi) come da precedente indicazione- ma senza risultato:
«La Commissione di appello, composta dalle Commissioni I e VIII, revisionato il film[3], evidentemente purgato nelle sequenze e nel linguaggio,(...) a maggioranza esprime parere favorevole alla programmazione in pubblico con esclusione dei minori degli anni 14 (quattordici), e ciò per la permanenza di scene e sequenze pregiudizievoli alla sensibilità e all'età dei detti minori. [4]»
«Gianni e Maretta, che come amanti filavano il perfetto amore a ore fisse, si vogliono sposare, incuranti del fatto che non troveranno, l'uno nell'altro, niente di inedito. E avrebbero ragione, se pensassero, come è da pensare, che il matrimonio è un rapporto morale, il cui contenuto e fine non è l'amore, ma l'esercizio della vita stessa. Viceversa, teste piccine, essi s'immaginano che una volta sposati le ore felici moltiplicheranno per modo da riempire tutto il loro tempo, cadendo a un di presso nel medesimo errore di concepimento che è all'origine della prosa poetica, genere falsissimo.
Pertanto i disinganni cominciano subito. Maretta si rivela una moglie sciatterella e spendacciona, la cui gastronomia non va oltre l'uovo al tegamino. Ha gusti, desideri, abitudini sue che non collimano con quelle del marito: le piacciono i concerti, e deve andare alla partita; vorrebbe starsene in casa, e deve uscire o viceversa. Dal suo canto Gianni conserva ancora la piega dello scapolo, occhieggia le belle donne, rimpiange gli allegri bagordi con gli amici. Nella coppia piccolo-borghese, esemplata sul tipo romano, con accesso al «demi-monde» cinematografico e partecipazione a scampoli di «dolce vita», s'instaura un regime di complimenti e di reciproche rinuncie, ossia s'insinua la noia, con una sfumatura di vicendevole compassione («poveretta, com'è cambiata!» , «poveretto com'è cambiato!»).
Una crisi strappa Gianni al giogo, restituendolo per una notte alla libertà dello scapolo; ma la bocca gli s'è sciupata, il gusto non è più quello, e dopo aver conosciuto le miserie dell'altro versante (sbronze vergognose, letti disfatti, buchi nei calzini), torna alla regola con un senso di totale fallimento. Allora Maretta piglia un partito talmente ragionevole da riuscire paradossale: si sopprime come moglie e torna ad essere la deliziosa amante di prima. Uno si domanda se può esserci un film che più di questo porti tanti luoghi comuni sullo stato libero e lo stato matrimoniale, cominciando da quello, che dà il tono a tutti, del matrimonio «come tomba dell'amore».
Eppure con siffatta materia da giornalino umoristico (manca la «suocera» a compiere il quadro), Luciano Salce ci ha dato un'operetta assai garbata e divertente,
un saggio felice di «commedia all'italiana», brulicante di osservazioni e di macchiette colte dal vero. Se si toglie l'episodio del «sogno», stanco tributo alla moda, la fattura di Le ore dell'amore è scintillante; quì veramente, meglio che nella Cuccagna Salce ha riscattato il soggetto sfilacciato e aneddotico con gli estri particolari di un satirico del costume. E ha avuto due preziosi collaboratori negli interpreti: Emmanuelle Riva che ha dato al personaggio della moglie lo stacco spiritoso d'un gioco e un Tognazzi d'una sobrietà ammirevole, ferreo di contorni e ormai attore compiuto. Gustosi anche gli altri, Umberto D'Orsi, Barbara Steele, Mara Berni e lo sceneggiatore Brunello Rondi.»
«Con mano molto leggera, ma non per questo meno acuta e disarmante, Salce ci racconta attraverso le sue tappe cruciali la nascita, la vita, la consumazione e la morte, oltre che di un "menage", dello stesso sentimento che lo anima. Questi di Salce, sono due personaggi tipici del nostro tempo, i quali accettano talune fondamentali condizioni della nostra società adattandole al proprio stato di coniugi perchè in esse identificano i modi convenzionali, forse, ma giusti e conformi ad una prassi comune che regola e regge non solo l'istituto matrimoniale, il "menage a deux", ma gli stessi affetti di coloro che lo vivificano, gli sposi.
A poco a poco, la noia invade le serate dei due sposini; e proprio in questa loro passività nell'accettare una condizione comune a molte coppie apparentemente felici, Salce individua il logorio che nulla può impedire. Quella dei due sposini è una noia fatta di piccoli gesti sempre uguali, una noia non imputabile a niente se non alle strutture stesse su cui si poggia la vita in due: logorio delle cose, delle parole, dei sentimenti. Salce ha voluto appositamente generalizzare il suo discorso, non limitandolo quindi ad una situazione particolare, costruendo forse un cliché, ma non sottacendo mai le ragioni morali e sociali che sono alla base della incomunicabilità che sopraggiunge nella vita matrimoniale, pure se a un certo momento, prima o dopo.
Analizzando il tema attraverso il diario di due sposi, Salce mette in evidenza la povertà dei sentimenti, quasi la paura che molti di noi sentiamo nel solo enunciarli. E, al di fuori di ogni convenzionalismo, nel suo distaccato finale il film contiene una conclusione sincera e auspicabile, cioè che è meglio dividersi piuttosto che continuare un matrimonio fondandolo sull'ipocrisia.»
La critica è generalmente generosa nel giudizio riguardo l'ironico ritratto dell'Italia gaudente della generazione del boom economico, i brillanti dialoghi e le innumerevoli situazioni quotidiane di vita di coppia descritte con mirabile leggerezza. Il regista risulta meno convincente sul terreno dell'ideologia quando il tocco si fa pesante.[5]
Alcuni critici lo considerano il miglior film di Salce. Tra questi Paolo Mereghetti che nel 1993 scriveva: «Forse il miglior film di Salce, un acidulo spaccato di vita borghese nell'Italia del boom economico. Tognazzi è al suo meglio, in equilibrio tra dramma e farsa. Ma anche la sensibile Riva è ben valorizzata, mentre la Steele, reduce da 8½, introduce un tocco felliniano.»
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