romanzo di Massimo d'Azeglio Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta è un romanzo storico di Massimo d'Azeglio, pubblicato nel 1833.
Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta | |
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Autore | Massimo d'Azeglio |
1ª ed. originale | 1833 |
Genere | romanzo |
Sottogenere | romanzo storico |
Lingua originale | italiano |
Ambientazione | 1503 |
Protagonisti | Ettore Fieramosca |
D'Azeglio ebbe l'idea per un romanzo storico sui fatti della disfida di Barletta nel 1830 mentre dipingeva, a Torino, un omonimo quadro sul leggendario scontro tra francesi e italiani. Lesse i primi brani dell'opera al cugino Cesare Balbo, ottenendo l'incoraggiamento a continuare. Proseguì la scrittura del romanzo durante il suo soggiorno a Milano, iniziato nello stesso anno, nella convinzione che le iniziative della Giovine Italia o di altre organizzazioni indipendentiste non fossero adeguate a mobilitare il popolo italiano contro l'Austria e che la cultura e l'arte, al contrario, potessero contribuire a formare una coscienza nazionale italiana attraverso l'esaltazione di episodi di orgoglio nazionale quale, ad esempio, la disfida di Barletta. In quell'anno, infatti, d'Azeglio espose a Brera una serie di quadri con soggetti patriottici, tra cui il già citato La disfida di Barletta e La battaglia di Legnano. Durante la sua stesura, l'autore fece leggere la bozza del romanzo all'amico Tommaso Grossi e al suocero Alessandro Manzoni, ottenendo da entrambi un giudizio positivo; forte di tali incoraggiamenti, una volta terminata l'opera, d'Azeglio la fece stampare presso una tipografia di via San Pietro all'Orto, gestita da un giacobino di nome Ferrario. La vendita della prima edizione andò abbastanza bene, garantendo all'autore un primo guadagno di 5000 franchi, oltre al compenso dovuto alla stamperia. Nei mesi successivi il romanzo ebbe un enorme successo, tanto che alcuni giornali insinuarono che si trattasse di opera del Manzoni, e ne furono pubblicate altre ristampe.[1]
Il romanzo dovette essere sottoposto al giudizio preventivo della censura: l'incarico fu affidato da un religioso, l'abate Bellisomi, che non capì l'intento patriottico dello scritto e ne autorizzò la pubblicazione senza richiederne revisioni. Il governo austriaco, al contrario, ebbe da ridire sul tema del romanzo e su molti passaggi esplicitamente indipendentisti, ma era troppo tardi: il libro era oramai diffusissimo. Inutile fu la difesa del censore ("Si tratta di un documento storico, e come volete proibirlo?"), che fu rimosso dall'incarico.[1]
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