Eremo di Sant'Alberto di Butrio
edificio religioso di Ponte Nizza Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
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L'eremo di Sant'Alberto di Butrio, sorge fra primi rilievi dell'Appennino ligure, nella valle Staffora dell'Oltrepò Pavese, in provincia di Pavia, in frazione Abbadia Sant'Alberto del comune di Ponte Nizza, a 687 metri s.l.m., isolato in una chiostra di monti, tra verdi pascoli, castagni, querce e abeti.
Eremo di Sant'Alberto di Butrio | |
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Veduta | |
Stato | Italia |
Regione | Lombardia |
Località | Ponte Nizza |
Indirizzo | 1A050-00207 |
Coordinate | 44°51′18.17″N 9°08′58.23″E |
Religione | cattolica |
Diocesi | Tortona |
Stile architettonico | romanico |
Inizio costruzione | 1030 |
Sito web | www.eremosantalbertodonorione.it |
La costruzione dell'eremo venne iniziata da Alberto di Butrio[1] (santo di cui si hanno scarsissime notizie)[2], forse del casato degli Obertenghi, che nel 1030 andò ad abitare in solitudine nella vicina valletta del Borrione, ove tuttora vi è una piccola cappelletta a lui dedicata.
Avendo guarito miracolosamente un figlioletto muto del marchese di Casalasco (della dinastia obertenga), questi in segno di riconoscenza gli edificò una chiesa romanica dedicata alla Madonna in cui sant'Alberto ed i suoi seguaci eremiti potessero celebrare l'Ufficio divino. Costituitisi in comunità, gli eremiti edificarono il monastero di cui rimane attualmente un'ala: il cosiddetto chiostrino (XII secolo[1]) ed il pozzo.
A capo della comunità venne eletto sant'Alberto, che rimase abate fino al 1073, anno della sua morte.[1] Nel frattempo l'eremo, alle dirette dipendenze del Papa Gregorio VII (tramite una bolla datata 1074[1]), era assurto a grande potenza sia spirituale che temporale. Molte erano le celle e le dipendenze dell'eremo, situate nelle attuali province di Piacenza, Pavia, Alessandria e Genova.
Dopo la morte di sant'Alberto, l'eremo crebbe ancora in potenza e numero di monaci tanto da divenire un centro spirituale di una vastissima zona. Ospitò illustri personaggi ecclesiastici e laici tra cui il fuggiasco re d'Inghilterra Edoardo II Plantageneto che ancor prima si era nascosto nel Castello di Melazzo vicino ad Acqui Terme, e benché un documento del 1887 sostenga che il re morisse e fosse sepolto inizialmente in questo Eremo, altre fonti storiche, e la maggior parte degli studiosi, sostengono che Edoardo II venisse assassinato nel castello di Berkeley, in Inghilterra. Si ritiene inoltre che vi abbiano soggiornato anche Federico Barbarossa e Dante Alighieri.
I monaci seguivano la regola benedettina, secondo la riforma di Cluny o la revisione bobbiense, mantenendo tuttavia sempre viva l'antica vocazione eremitica.
Nel XV secolo, il soffitto a capriate che fino ad allora copriva la chiesa eretta da sant'Alberto fu sostituito da una serie di volte a crociera scandite da archi in sasso.[1] Verso la metà dello stesso secolo, con l'avvento degli abati commendatari, l'eremo incominciò il periodo di decadenza.
Nel 1516 papa Leone X unì l'abbazia a quella di San Bartolomeo in Strada di Pavia.
Nel 1543 gli ultimi monaci (olivetani) lasciarono l'eremo per trasferirsi nell'Abbazia di San Pietro di Breme da dove l'anno precedente vi erano giunti i pochi monaci benedettini. Vi rimase solo un sacerdote addetto alla cura delle anime. Nel 1595 la chiesa di Sant'Alberto fu eretta a parrocchia. Seguirono tre secoli di quasi abbandono totale, durante i quali il monastero e parte della torre furono distrutti. Con l'avvento delle leggi napoleoniche, nel 1810, l'eremo fu soppresso e requisito dal governo.
Nel 1900, anno in cui avvenne la riesumazione dei resti mortali di sant'Alberto, deposti poi entro una statua di cera che si può vedere nella chiesa di Sant'Alberto, la cura dell'eremo fu affidata a don Orione.
Nel 1921 don Orione ripopolò l'eremo collocandovi gli Eremiti della Divina Provvidenza e con loro anche un sacerdote in qualità di parroco.
Tra di essi, il più conosciuto è frate Ave Maria (al secolo Cesare Pisano), che visse nell'eremo dal 1923 al 1964 conducendo una vita di santità, preghiera e penitenza.
La chiesa di Santa Maria è stata restaurata, riportandola all'aspetto primitivo, nel 1973, in occasione del nono centenario della morte di sant'Alberto. Il restauro comportò, tra l'altro, la riapertura delle monofore dell'abside.[1] Nello stesso anno sono state eseguite le scalinate nel sagrato dell'eremo ed altri lavori.
Abati regolari
Abati commendatari
Parroci
Parroci appartenenti alla Piccola Opera della Divina Provvidenza
Il complesso del fabbricato dell'eremo si compone di: chiesa parrocchiale di Santa Maria, che è quella originaria edificata da sant'Alberto, e di tre oratori adiacenti e comunicanti: quello di sant'Antonio di forma trapezoidale, situato appena dentro la porta d'ingresso, che appare tutto affrescato, la cappella del SS.mo che si identifica come navata di sinistra per chi guarda l'altare, e infine il mausoleo di Sant'Alberto sulla destra; la torre campanaria e la struttura conventuale.
La più antica di queste chiese è quella di Santa Maria, edificata da sant'Alberto[1] con l'aiuto del Marchese Malaspina, verso l'anno 1050.
Contemporanea a questa dovrebbe essere quella chiamata recentemente Cappella del Santissimo. Nel Trecento[1] sorse poi la chiesetta di Sant'Antonio, forse al posto di una tettoia o pronao. Così, pure nel 1300, cioè nel periodo di maggior potenza e fulgore dell'eremo, venne costruita la torre, ora mozza,[1] della quale sono ancora visibili parte degli scalini scavati direttamente nel muro[1].
La cappella di Sant'Alberto ospita la sepoltura dello stesso santo, del quale vi si conservano tuttora le sue due tombe (delle quali la primitiva fuscavata direttamente nella roccia[1]) e le sue ossa. La cappella fu costruita dai monaci dopo la morte dello stesso santo[1] e vi sono stati eseguiti i più pregevoli affreschi dell'eremo.
La base della torre campanaria, edificata in pietra arenaria squadrata su base quadrangolare[1], è attribuibile all'opera dei maestri comacini[1] della seconda metà del XII secolo o all'inizio del XIII.[3] Sulla parte superiore, andata persa, è stata costruita nel corso del XIX secolo l'attuale cella campanaria.[3]
Tutti gli affreschi sono del 1484, dipinti da luglio a settembre, e non recano firma. Fino a tempi recenti furono attribuiti alla scuola dei fratelli Manfredino e Franceschino Boxilio di Castelnuovo Scrivia. Ora vi è la tendenza di ritenere l'esecuzione mano di un monaco pittore che per umiltà avrebbe voluto conservare l'anonimato. Si suppone che molti affreschi, specialmente nella chiesa di Santa Maria, siano andati perduti nel corso dei secoli a causa di improvvidi restauri. Per le caratteristiche simili che si ripetono in altri dipinti contemporanei dell'Oltrepò, si è iniziato a pensare che esistesse una scuola di pittura locale, che non si sia limitata a Sant'Alberto, ma anche alle chiese dei paesi vicini e forse perfino anche a Voghera, come nei frammenti di affreschi della chiesa Rossa.
L'oratorio di sant'Antonio funge da ingresso e da accesso agli altri spazi, è completamente affrescato e in ottimo stato di conservazione. Ha forma trapezoidale con un pilastro centrale a base cruciforme, che sorregge tutta la struttura, e risale al XIV o XV secolo. Le campate sono quattro, con volte a crociera completamente affrescate, tre con piccole stelle su fondo bianco e sole raggiato centrale con stemma, la quarta con i simboli degli evangelisti. Il capitello centrale e quelli laterali sono in stile romanico, probabilmente un riutilizzo di vestigia precedenti, rappresentano dei leoni che si affrontano e altri animali. Nell'intradosso di ogni arco troviamo i ritratti dei profeti maggiori e minori: abbiamo la certezza che queste figure rappresentano profeti dalla mancanza dell'aureola che contraddistingue i santi. Dal confronto emergono alcune caratteristiche del loro aspetto: la testa è inclinata alternativamente a sinistra e a destra, e i colori dei capelli biondo e bianco, si ripetono alternati. Possiamo leggere il nome dei profeti grazie a delle strisce che tengono in mano sulle quali sono scritti in caratteri gotici i loro nomi.
Ha il ciclo più complesso, è interamente dedicata a Santa Caterina d'Alessandria, le epigrafi che descrivono le scene sono state realizzate in grafia gotica, quasi come in un fumetto. La lunetta è divisa in due sezioni, la fascia sottostante in tre.
L'imperatore è denotato dall'abbigliamento con la veste corta, dalla spada e la sfera, il mondo sormontato da una croce l’emblema di Costantino, e la corona.
Presenta una sola campata, la seconda è occupata dall'accesso alla chiesa di Santa Maria.
L'affresco a sinistra rappresenta Maria con il bambino, circondata da santa Lucia, santa Apollonia, sant'Antonio Abate[1] e l'offerente inginocchiato, il marchese Bertramino, sulla cornice è dipinta la data !484, in basso lo stemma del Bertramino e della casata dei Malaspina,
L’affresco a destra rappresenta il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino,[1] compiuta da Sant’Alberto durante un banchetto. Il Santo, vestito di nero, ha il bastone pastorale e benedice con due dita alzate. Al tavolo sono seduti tre cardinali e papa Alessandro II, due valletti servono il vino mentre un terzo la attinge da un pozzo.[4].
Tutti mantengono caratteristiche comuni, nella forma degli occhi, del viso, e della barba, inoltre tutti gli sfondi sono caratterizzati da un cromatismo molto forte, a discapito del realismo della rappresentazione.
Gli affreschi hanno uno sfondo piatto simile ad una parete, ad eccezione di alcuni, come la vita di Santa Lucia, dove compare una sorta di esterno, ma la prevalenza del fondo giallo rimane. Questo richiama la tradizione bizantina dello sfondo oro che si ripeterà non solo in tutto l'Eremo, ma anche in altri dipinti della zona. Questi sfondi con l'accenno di un prato in primo piano, si discostano dai normali dipinti del Gotico Internazionale, e qui si risentono le nuove tendenze quattrocentesche.
In tutti gli spazi vuoti delle arcate troviamo stelle, stranamente colorate di rosso su uno sfondo argenteo: probabilmente per richiamare i colori dello stemma di uno dei committenti. I quattro evangelisti sono raffigurati in una delle volte, e riprendono anch'essi alcune caratteristiche bizantine, come il prato verde ai piedi dei loro simboli, già presente in Sant'Apollinare, e le ali dell'aquila, quasi a forma di spade, che si ripresentano in affreschi più tardi di altre zone d'Italia.
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