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pittore italiano (1925-2013) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Enrico Colombotto Rosso (Torino, 7 dicembre 1925 – Casale Monferrato, 16 aprile 2013) è stato un pittore italiano.
«...Il più visionario, il più turbinoso, disperatamente solitario, luciferino, è Enrico Colombotto Rosso, puro spiritualista estraneo a ogni contaminazione con la realtà, in nome di un aristocratico distacco di una pittura dell'anima nella quale, come spiegava Bataille, c'è spazio anche per il male, per gli abissi dove l'uomo rischia di perdersi senza possibilità di riscatto.»
Enrico Colombotto Rosso nasce a Torino (con il fratello gemello Edoardo)[1] il 7 dicembre 1925 da madre toscana e padre ligure. Fin da bambino manifesta la propensione per il disegno e studia da autodidatta le tecniche espressive. Fra i 15 e i 19 anni frequenta una piccola cerchia di poeti e letterati, scrive poesie e segue da vicino l'ambiente artistico e culturale torinese.[senza fonte]
All'età di quindici anni, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, il padre di Enrico Colombotto Rosso decise che il figlio poteva fare l'artista se avesse preso il diploma all'Accademia Albertina. Purtroppo venne bocciato subito all'esame di ammissione.
«Ho provato a sostenere l’esame per entrare all’Accademia, ma Casorati mi ha bocciato in disegno e mio padre, allora, mi ha obbligato a caricare e scaricare sacchi di ferramenta nella fabbrica di famiglia. È un miracolo che io abbia ancora la schiena dritta.»
In seguito alla delusione per il mancato ingresso all'Accademia, iniziò a lavorare nella fabbrica di famiglia, successivamente fece svariati lavori, tra i quali: l'elettricista, il magazziniere, lavorò al tornio, in Fiat e per ultimo in banca. In seguito alla morte del padre ereditò una piccola somma che gli permise di fare della pittura il suo mestiere. Tentò per la seconda volta l'ingresso all'Accademia, ma fu nuovamente bocciato.
«Poi, a vent’otto anni ho deciso che ci avrei riprovato, a fare l’artista. Ritentai all’Accademia. All’esame c’erano una mela e una bottiglia di Barbera vuota da dipingere: un esercizio accademico. Ma io non ho dipinto in modo accademico, il dramma è stato quello: l’ho fatto un po’ da artista. Tutti facevano lo sfumato, ma io disegnavo già, avevo una certa abilità con l’inchiostro, appunto. In commissione c’era Felice Casorati, che io amo e stimo molto. Ma mi bocciarono di nuovo. Poi ho rivisto Casorati, che mi disse che voleva vedere come disegnavo. Sono andato a casa sua con un carnet di miei lavori, e lui mi disse che erano cose straordinarie, e che dovevo illustrare libri. Lui non sapeva che mi aveva bocciato, a quell’esame per l’Accademia, e io sono stato ben zitto: non era il caso che facessi la lagna.»
Diventa uno dei protagonisti di spicco dell'ambiente pittorico torinese. Attraverso un'arte difficile da comprendere, fortemente influenzata dagli ambienti tristi e plumbei della Torino del primo Novecento; neosurrealista, si richiama ad influenze secessioniste e neo-Liberty rifugiandosi nel minuzioso e sontuoso decorativismo che fa da sfondo a figure esili e macabre. I soggetti dei suoi quadri sono pervasi da inquietudine e tensione, da una ricerca tesa verso tematiche di morte che, nella raffigurazione di scheletri, figure esanimi, camere a gas e campi di concentramento, rimanda alla più grande tragedia della storia, seppur mantenendo un accenno di vita, riproposto nei volti infantili di neonati e bambole. Molti dei suoi personaggi appartengono ad un'umanità tetra e deforme, quasi sicuramente provenienti da una realtà disperata quale quella più volte incontrata nei corridoi della Casa d'Accoglienza del Cottolengo di Torino[2] e alle frequenti visite al Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso.
«Mio padre andava a caccia, e quando non andava a caccia, andava a trovare un suo amico che il sabato e la domenica era il guardiano del museo Lombroso. Io passavo delle ore lì. Mio padre parlava di caccia, di cose noiosissime; io andavo su e guardavo tutte queste teste mozze, cadaveri... Poi andavo sovente al Cottolengo... L’attrazione era plastica: come vedere dei quadri... Mi sono sempre interessato alle cose che borghesemente si dicono macabre, ma per me non sono macabre: è una realtà. È diverso dal macabro che tu componi, a livello descrittivo. A livello di immagine plastica per me è diverso. Quando disegno un cadavere... per me è come disegnare una figura bellissima... Ho fatto anche della gente abbastanza bella nella pittura, ma sono rarissime, anche perché mi annoia. Ci deve essere una ragione del perché sono attratto da questo. È certamente molto occulta, perché non è nel mio carattere, perché non ho incubi, dormo benissimo, non sono alcolista, non so cos’è la droga se non l’aspirina.»
Nel 1948 incontra Mario Tazzoli, banchiere e appassionato di pittura, col quale stringerà una lunga amicizia e aprirà a Torino la galleria "Galatea" in via Viotti, nei locali dell'antiquario Filippo Giordano delle Lanze, dove verranno trattati artisti come Giacometti, Bacon, Balthus, Klimt, Schiele.[3]
«Un incontro importante, in gioventù, è stato sicuramente quello con Mario Tazzoli. Insieme abbiamo messo su una galleria perché io avevo un po’ di soldi: però lasciai dopo un po’ di anni. È stato comunque un avvenimento, avere insieme quella galleria, perché poi andavamo a Londra e a Parigi a vedere gli artisti. Nel 1962 siamo andati anche a New York. Ricordo che nella 42° strada c’era una galleria che aveva dei disegni di Schiele a cinquanta dollari l’uno, che non era niente. Li abbiamo comperati, ma come galleria. Avrei dovuto comprarne due o tre per me, non tanto per avere uno Schiele, ma perché adesso avrei da vivere senza problemi. Avevo un Klimt, al tempo, ma l’ho dovuto vendere.»
I temi dominanti della sua pittura sono anticipati dalla "Piccola storia per un bambino che aveva grandi orecchi e piccole zampe", scritta in questo periodo che sarà edita da Giorgio Tacchini solo nel 1981 con il titolo di "Storie di Maghe per adulti".
Sul finire degli anni quaranta, Colombotto Rosso inizia a viaggiare e, a Parigi, entra nella cerchia di amicizie di Leonor Fini e Fabrizio Clerici, Max Ernst, Dorothea Tanning, Jacques Audiberti, personaggi padroni già della scena internazionale e molto vicini a lui per la loro espressione artistica; queste amicizie dureranno tutta la vita e in particolare con Leonor Fini che individuando in lui un talento unico lo sprona a dedicarsi esclusivamente all'arte.[4] L'amicizia fra Colombotto Rosso e la Fini durò fino alla morte di lei, ed è testimoniata da un carteggio di circa cinquecento lettere.
«La conobbi per la prima volta nel 1948. Andai a Parigi da lei perché una mia amica le aveva parlato di me dicendole che disegnavo bene (allora non dipingevo). Mi colpì Parigi per la sua vastità e l'appartamento di Leonor che aveva ben cinque gatti persiani in una grande stanza. La sua camera da letto era coperta di bellissimi vestiti, molti dei quali però rovinati dai felini. Ricordo una sera al ritorno dall'Operà che lei si tolse l'abito gettandolo a terra ed il giorno dopo fu ritrovato fatto a brandelli dai gatti: senza irritazione disse alla sua "tata" di gettarlo...»
Negli anni cinquanta lo studio di Leonor Fini, in Rue Payenne, era frequentato dai personaggi più eterogenei, noti e meno noti. Fra questi, oltre al giovane Colombotto Rosso, figurano alcuni talenti, come Stanislao Lepri, romano, diplomatico e pittore surrealista; Constantin Jelenski, di origine polacca, umanista e letterato; Héctor Bianciotti, che fu per molti anni segretario della Fini. Oltre agli abituali contatti parigini, il gruppo trascorreva periodi di vacanze creative a Nonza, in Corsica, alloggiando precariamente in un monastero semi diroccato, in prossimità del mare. La Fini dedicava ai suoi amici ritratti di intensa e affettuosa partecipazione. Colombotto Rosso scattava immagini fotografiche di rara bellezza in cui risaltava tutto il fascino, ombroso ed inquietante, della Fini, nell'incanto del luogo, reso assoluto dalla luce mediterranea. Con il fitto epistolario della pittrice, le istantanee di Enrico Colombotto Rosso sono un documento unico di quelle occasioni magiche, testimonianza di un'epoca felicemente vissuta all'insegna della fantasia.
«Quando io l'ho conosciuta, avevo una trentina d'anni e lei ne aveva venti più di me, ma era ancora una bellissima donna. A casa sua passava di tutto: all'una si mangiava e trovavo sempre un milieu di surrealisti e scrittori intorno alla tavola. Mi ricordo Jacques Audiberti, che era di origine piemontese e voleva sempre che parlassi in dialetto, ma poi non era soddisfatto perché diceva che lo parlavo in maniera diversa. Oppure Jean Genet, che era sempre con noi. Era un po' l'enfant terrible dell'epoca ed era molto simpatico, ma litigò duramente con Leonor, perché lui rubava in casa di lei, e per questo un giorno lei lo ha sbattuto fuori. Poi certo, i due fecero pace: come fanno i francesi che hanno la mania di odiarsi e poi si abbracciano e piangono. Vedevamo sovente anche Max Ernst, che veniva con Dorothea Tanning, e altri amici attori. Leonor faceva ritratti a tutti.»
«È la donna più femminile che ho incontrato e l'uomo più intelligente che ho conosciuto... ...Il suo primo amore fu Stanislao Lepri, conosciuto ad un ballo a Montecarlo dove lui era ambasciatore, fu lei a convincerlo a dipingere. Poi incontrò lo scrittore polacco Costantino Jelensky e fu la vera passione. Viveva con entrambi sotto lo stesso tetto ma dormiva solo con il polacco.»
Nell'inverno del 1958, Enrico Colombotto Rosso è a Parigi, ospite di Lepri, nel cui studio, in Rue Vieille-du-Temple, ha occasione di incontrare Jean Genet. Nello stesso periodo, Lepri e Jelenski eseguono a quattro mani un collage in rilievo per farne dono al Colombotto Rosso in occasione dell'imminente compleanno. In una scatola di cartone collocano un frammento di un'antica scultura lignea cerata a simulare le spoglie di una piccola santa martire: una sorta di mummia o di feticcio circondato da un multiforme arredo funebre, composto da conchiglie e altri oggetti di fantasia. La composizione, sebbene si ispiri allo spirito devozionale e macabro dei reliquiari settecenteschi, non manca di humour nero e ostenta una palese intenzione dissacrante. Genet – secondo la testimonianza di Lepri – dimostra curiosità e interesse per l'intelligente invenzione ludica, collabora alla sua esecuzione e conia per la minuscola martire il nome di Sainte Hosmose. Al suo rientro in Italia, Colombotto Rosso porta la “reliquia” nel suo studio torinese e, nell'aprile del 1959, riceve da Lepri il manoscritto con cui Genet narra, divertito, la grottesca vicenda della santa, ispirandosi arbitrariamente alla Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine. Nel 1960-61, Colombotto Rosso – che ha ancora modo di rivedere Genet a Torino, durante un suo breve soggiorno per incontrare l'editore Einaudi – traduce in pittura la “fiaba” concepita dallo scrittore francese. Dipinge tre varianti sul tema che, esposte a Roma, sono acquistate dall'attore cinematografico statunitense E.G. Robinson per la sua collezione. Il testo di Genet rimane inedito fino al 1964, quando viene pubblicato sulla rivista letteraria “Il Delatore” nella traduzione di Stanislao Lepri. Molti anni dopo, nel 1998, da un'idea di Colombotto Rosso, viene pubblicato un volumetto dal nome "Sainte Hosmose", che contiene un testo pressoché inedito di Jean Genet a lui dedicato.
La sua irrequietezza ed il desiderio di conoscenza lo conducono attraverso l'Europa, da Madrid a Vienna a Londra a Stoccolma fino agli Stati Uniti, a New York, dove ha occasione di conoscere e stringere nuove importanti amicizie nell'ambiente artistico che si chiamavano John Huston, Eugène Jonesco, Andy Warhol, Albrecht Becker, Federico Fellini, Anna Magnani.[5]
Considerato tra i Maestri del Surfanta, un movimento artistico torinese “Surrealismo e Fantasia” nato nel 1964 dall'idea del pittore surrealista Lorenzo Alessandri[6] di riunire, per fronteggiare la paura e il vuoto culturale determinati dalla guerra, pittori ed amanti dell'arte attorno ad un luogo simbolico e di lavoro denominato Soffitta Macabra. Che vede coinvolti artisti come Abacuc (Silvano Gilardi), Lamberto Camerini, Giovanni Macciotta, Mario Molinari e Raffaele Pontecorvo e pensatori come Gianluigi Marianini, Alberto Cesare Ambesi e Peter Kolosimo. La nascita del periodico omonimo permise al gruppo la pubblicazione degli scritti e, soprattutto, delle opere grafiche degli artisti coinvolti. In questo periodo, inoltre vengono organizzate esposizioni degli artisti del gruppo in Europa e negli Stati Uniti come testimonianza di una maggiore apertura verso le esperienze surreali e fantastiche europee, con artisti olandesi, francesi e dell'Europa orientale. Il movimento si scioglierà nel 1972.[7]
Nel frattempo espone, con mostre personali, nelle più prestigiose sedi pubbliche e private. È regolarmente presente con le sue opere agli appuntamenti d'arte più noti, sia in Italia che in altri Paesi europei e negli Stati Uniti. All'estero la sua arte è molto apprezzata, espone a Sydney in occasione dell'"Italian Parade", a Parigi, presso la Galerie de Seine, ad Amburgo per il "Kongress Für die Freiheit der Kultur", a Madrid, presso la Sala de Exposiciones de la Dirección General de Bellas Artes, a Londra per la Seven Arts Gallery, a Tokyo per il "3rd International Young Artists Exibition" e a Zurigo, presso la Galleria Alessandro Roesle.[2]
La sua «corte dei miracoli», il suo «mondo stravolto», come li definisce Testori, affascinano il pubblico e la critica. Quello del Maestro è un universo caratterizzato da un onirismo grottesco, drammatico e sensuale. Elementi macabri e visionari si ritrovano anche nelle scenografie teatrali, realizzate per "Le jeu du massacre" di E. Jonesco, per "Salomè" di O. Wilde e per la "Danza di morte' di A. Strindberg: qui la vena decorativa e neosecessionista dell'artista ha modo di esprimersi in realizzazioni in cui la decadenza e la morte si trasfigurano nel segno di una preziosa raffinatezza.[8]
Tra il 1969 e il 1970 riscuotono grande interesse le scenografie e i costumi curati dal Maestro per "Il gioco dell'epidemia" di Jonesco,[9] e "La gallinella acquatica" di Witkiewicz,[10] in scena al teatro Gobetti di Torino.
«Un artista vero, che non ha tradito la propria vocazione vendendosi al mercato e assumendo l’obbligo periodico e vincolante di creare squallidi prodotti commerciali. Quindi, anche per questo, un diverso, un anticonformista, un ribelle. E si sa che la... folla solitaria che si esprime nel collezionismo di massa non ama la devianza, ma l’uniformità, l’omologazione collettiva, la firma, solamente la firma. Enrico Colombotto Rosso, che io deliberatamente voglio oggi qui tirar fuori dall’oblio nel quale è tenuto in Italia, non è mai stato indulgente con questo tipo facile di collezionismo.»
Nel 1991 lascia Torino per stabilirsi definitivamente a Camino, in provincia di Alessandria, dove inizia una nuova vita di intenso lavoro artistico, mentre si occupa meno del mercato e dell'attività espositiva. Crea le sue opere nella misteriosa ed affascinante casa tra le splendide colline del Monferrato, coltivando il suo fantastico giardino sempre colmo di fiori bianchi e nuove piante, cimitero di ricordi e di gatti che lo hanno accompagnato nell'arte e nella vita quotidiana, celebri i suoi gatti disegnati a china.[11] Il poeta e amico Raffaele Carrieri la definì "un bordello di lusso, ma senza puttane". La casa di Camino è diventata un museo visitabile grazie alla Fondazione Enrico Colombotto Rosso.[12]
«Se frequenti le persone giuste la vita non ti angoscia, ma l'angoscia ce l'hai per la realtà fuori di qui. Io ho fatto una scorza attorno a me che può sembrare anche di cattivo gusto. È questa casa, che ho comprato quando è morto mio nonno, e che non ho mai toccato: l'ho lasciata com'era. Qui c'è una vera ossessione per gli oggetti: forse dovrei farmi una casa diversa e togliere tante porcherie, ma non ce la faccio. Ho anche creato un museo di giocattoli, perché avevo una camera e un solaio con i bauli pieni di bambole dell'Ottocento. Questo posto è una difesa, credo: ma non tanto per il modo di vivere, quanto per il silenzio. Ti puoi concentrare qui.»
Realizza opere molto grandi, come il disegno intitolato "Ossessione" iniziato nel 1992 e terminato nel giro di un anno, alto due metri e lungo un chilometro. È in questo momento che si libera totalmente dalle esigenze del mercato ed ha così la possibilità di creare solo opere di carattere museale, non solo per le grandi dimensioni, ma soprattutto perché sono totalmente e autenticamente quelle che la sua immaginazione crea senza condizioni: sono immagini molto forti e spesso crude, se non violente per i colori, gli accostamenti (rossi sanguinei, neri, argenti) e le espressioni delle figure che "urlano" tutto il dramma interiore inconfessato dell'umanità.
Nel 2000 la Regione Piemonte organizza una sua grande mostra antologica a Torino, presso la Sala Bolaffi. Nel 2002 è invitato da Vittorio Sgarbi a partecipare alla mostra Surrealismo padano - Da De Chirico a Foppiani, 1915-1986. Nel 2003 un'altra importante antologica ordinata presso il Panorama Museum a Bad Frankenhausen in Germania. Nel 2005 partecipa alla mostra Il Male - Esercizi di pittura crudele, curata da Vittorio Sgarbi presso la Palazzina di caccia di Stupinigi.
È morto il 16 aprile 2013, all'età di 87 anni, all'ospedale Santo Spirito, di Casale Monferrato dove era stato ricoverato per disturbi cardiaci. I funerali si sono celebrati, presso la chiesa parrocchiale di Camino, nel paese in cui da anni risiedeva, nel cui cimitero il corpo è stato tumulato.[13]
«La vita è quello che hai quando non pensi alla morte. La morte è la soluzione di tutto quello che hai fatto e lasci agli altri. Se non lasci nulla vuol dire che non hai fatto nulla. Per un artista produrre è come allargare la propria famiglia, il mondo che non c’è.»
Innumerevoli i critici e letterati che fin dagli anni cinquanta hanno scritto pagine poetiche su Enrico Colombotto Rosso e sul mistero che si cela dietro la sua opera, quel realismo visionario che sprofonda l'osservatore in un tuffo verso l'ignoto. Tra i tanti ricordiamo Libero De Libero, Alain Jouffroy, Luigi Carluccio, Guido Ceronetti, Giovanni Testori, Carlo Munari, Rossana Bossaglia, Janus.
«Ho utilizzato tutte le tecniche, meno il pastello; tempera, olio, e anche molti disegni e incisioni che però in Italia vengono apprezzati solo quando sei morto. Il tema invece è sempre il mio; mi interessano i volti e mi attraggono quelli che esprimono angoscia. Andavo spesso a osservare i ricoverati nei manicomi; però ritrarre visi drammatici è per me un processo ipnotico, quasi automatico, che non corrisponde alla mia interiorità. In questo ho parenti illustri, nella pittura classica, che rappresentano la mia famiglia ideale.»
Numerose sue opere si trovano esposte a Villa Vidua di Conzano, nella sala consigliare del comune di Camino e al Deposito Museale di Pontestura dove ha lasciato più di 150 opere storiche che formano una collezione museale unica.[13] Nel 2012 Colombotto Rosso aveva proposto di trasferire la sua fondazione (con oltre 100 dipinti e varie sue opere) nel comune di Mathi (TO). Ma il Consiglio Comunale declinò la proposta con una delibera in cui viene evidenziata la causa del rifiuto per "La crisi economica che ha avuto ripercussioni negative sul bilancio comunale".[14]
Colombotto Rosso era cittadino onorario di Traversella[15] e di Conzano[16].
Tra le opere più famose del maestro si possono elencare:
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