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L'eccidio dei conti Manzoni fu l'omicidio, compiuto da alcuni ex partigiani comunisti nella notte tra il 7 e l'8 luglio 1945, di quattro appartenenti alla famiglia Manzoni Ansidei e della loro domestica. Dopo l'omicidio i cadaveri furono occultati e la villa di famiglia saccheggiata[3].
Eccidio dei conti Manzoni | |
---|---|
La contessa Beatrice Manzoni Ansidei | |
Tipo | omicidio |
Data | 7-8 luglio 1945 |
Luogo | Lugo |
Stato | Italia |
Responsabili | Silvio Pasi ed altri dodici ex partigiani comunisti dei GAP[1] |
Motivazione | Episodi di violenza post-bellica e rapina |
Conseguenze | |
Morti | 5 componenti della famiglia Manzoni [2] |
La notte tra 7 e 8 luglio, un gruppo di ex partigiani comunisti si recò a bordo di due automezzi in località Frascata, nel comune di Lugo. L'obiettivo era la villa[4] dei conti Manzoni Ansidei. Circondato l'edificio, il gruppo sequestrò le cinque persone presenti: la contessa Beatrice Manzoni, i tre figli (Giacomo, Luigi e Reginaldo), la domestica della casa, Francesca Anconelli, ed il cane di famiglia[1][5]. Di questi solo Giacomo e Luigi avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana prendendo la tessera del Partito Fascista Repubblicano e Giacomo era stato vicesegretario del PFR di Lavezzola[3] senza che però nei confronti d'entrambi potesse essere mosso alcun addebito[3].
Inoltre Luigi era appena rientrato da Salò dove era stato per breve periodo addetto al ministero degli Esteri con un salvacondotto del CLN che attestava che non aveva "esplicato attività politica"[6]. La contessa in particolare era stata criticata per la partecipazione al funerale del segretario del PFR di Lavezzola ucciso dai partigiani[6]. Si ritiene che anche il rifiuto ottenuto dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro nell'immediato dopoguerra di ridiscutere le ripartizioni dei prodotti della terra con i mezzadri abbia attirato l'odio degli ex partigiani[7]. In una lettera del giugno 1945 scritta dalla contessa al figlio Luigi è riportato: "La campagna va male, le popolazioni sono turbolente. Reginaldo è sospeso dall'Università di Bologna e sta subendo un giudizio. I contadini hanno preteso di imporre patti per noi assai gravosi: Giacomo non ha accettato"[7].
I cinque prigionieri, più il cane, un setter di nome Lilla, furono condotti nei pressi dell'azienda agricola "La pianta", nel comune di Alfonsine, dove uno dopo l'altro furono uccisi. Per ultima fu uccisa a bastonate la contessa Manzoni che morendo gridò ai propri aguzzini: "Io vi perdono"[8]. Poi i partigiani occultarono i cadaveri seppellendoli. Quindi la villa dei Manzoni fu saccheggiata[9]. Dagli stessi ex partigiani, nei tre anni successivi, fu fatta circolare la voce che i membri della famiglia fossero riparati in America.[1][9].
Nel 1948 i carabinieri iniziarono ad indagare sui fatti e nelle case di alcuni ex partigiani scoprirono effetti personali della famiglia Manzoni tra cui anche mobilio.[1] Uno di questi confessò il delitto ed indicò il luogo in cui i cadaveri erano stati seppelliti, gli stessi furono riesumati il 4 agosto 1948. Insieme ai cinque scomparsi fu rinvenuto anche il cane, ucciso perché non facilitasse il ritrovamento dei corpi.[12] Fu indagato l'ex partigiano comunista Silvio Pasi, responsabile dei Gruppi di Azione Patriottica della zona 3 (Lavezzola) e conosciuto come "comandante Elic", membro effettivo del PCI e dirigente della Camera del Lavoro di Faenza, e dodici altri ex partigiani comunisti.
In sede processuale gli imputati si dichiararono innocenti e per giustificare il proprio operato lanciarono false accuse ai conti Manzoni smontate dai giudici di Macerata che accusarono gli ex partigiani di tenere "un contegno abominevole, coprendo di veleno e di fango i vivi e i morti"[8]. Nel 1953 furono tutti e tredici condannati all'ergastolo. La condanna per effetto dell'amnistia Togliatti fu ridotta a 19 anni dei quali solo 5 furono realmente scontati.[1] Nel corso del processo sette ex partigiani comunisti che erano fuggiti in Cecoslovacchia si dichiararono responsabili degli omicidi in luogo degli accusati[5] ed inviarono alla Corte le proprie carte d'identità[13]. In istruttoria le confessioni dei sette furono considerate false[1] ed essi furono poi assolti per insufficienza di prove dalla Corte di Assise di Appello di Ancona[14].
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