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tecnica psicoterapeutica per la risocializzazione e la riabilitazione dei disagiati psichici o sociali Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La comunità terapeutica nasce, sin dalle origini, come aperta critica all'istituzione totale ed è configurabile come un'organizzazione la cui principale finalità è la modificazione del comportamento e il recupero di persone deviate dalle norme sociali.
L'espressione comunità terapeutica viene riferita a Thomas Main che, nel 1946, descrivendo il lavoro degli psichiatri britannici di Northfield (Inghilterra), si riferì all'ospedale in cui operavano, con il termine “comunità terapeutica”.[1] Tale vocabolo fu ufficializzato nel 1953 dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), in uno studio sulle organizzazioni psichiatriche internazionali, in cui si suggeriva l'opportunità di trasformare gli ospedali psichiatrici in "comunità terapeutiche".[2]
La prima comunità terapeutica fu creata nel 1952, in Inghilterra, dallo psichiatra Maxwell Jones, con l'obiettivo di far partecipare i pazienti, e quindi responsabilizzarli, nella gestione dell'istituzione psichiatrica in cui erano ospitati.[3]
L'idea era quella di trasformare una rigida organizzazione gerarchica, in cui i rapporti erano di tipo “verticale”, in una organizzazione “orizzontale” con un rapporto paritario fra gli utenti e gli operatori sanitari.
Una delle prime sperimentazioni di comunità terapeutica in Italia, fu attivata da Franco Basaglia nei primi anni sessanta nell'ospedale psichiatrico di Gorizia.[4][5][6] Il concetto di questo psichiatra, per l'epoca innovativo, era il rifiuto dell'istituzionalizzazione come unico metodo di cura e di recupero del malato psichiatrico.
Dall'esperimento iniziato da Basaglia nel 1962 si arrivò, circa 15 anni dopo, alla legge 180/78 (detta anche Legge Basaglia) che prevedeva la trasformazione dei cosiddetti "manicomi" in luoghi di cura non più reclusivi.[7]
Dopo la Legge 180/78 le comunità terapeutiche si sono moltiplicate su tutto il territorio italiano, operando non solo nell'ambito psichiatrico, ma anche nei settori della devianza, della tossicodipendenza e del disagio sociale.[8]
Un elemento essenziale del metodo di cura è lo stretto rapporto che si stabilisce fra il personale e gli utenti che partecipano al lavoro e alle attività della comunità, contribuendo inoltre alle decisioni che li riguardano. L'aspetto caratteristico di questo metodo è il tentativo di creare e di mantenere il senso della comunità fra gli utenti e il personale. Altri aspetti del metodo sono rivolti alla psicoterapia individuale, alla terapia di gruppo e a tutte le altre attività relative al gruppo.
Luigi Cancrini, dissertando in materia di “catena terapeutica”, giunge alla seguente conclusione:
«Se i percorsi per arrivare alla droga sono diversi, diversi risultano i percorsi per uscirne».[9]
La comunità induce nella persona un modo di “agire” diverso, ciò al fine di far accettare, in seguito, il sistema di convinzioni e di valori entro cui le sue azioni si esplicano e si riflettono.
Il comportamento degli utenti più anziani e degli operatori, spinge in modo intensivo il nuovo arrivato nel gruppo a:
Il cambiamento di atteggiamento, da solo, non è un indice di trasformazione della persona ma conduce il soggetto nella giusta direzione di un processo sociale e di una cultura della comunità.
Lo stile di apertura sociale della comunità prevede che le persone:
Di fronte al comportamento problematico della persona che lo sta esprimendo, la cultura della comunità motiva, guida e richiede agli utenti e agli operatori, di esporsi e di assumere di fronte ad esso un atteggiamento finalizzato a produrre un cambiamento.
Nella comunità si possono rinvenire tre gruppi di atteggiamenti:
I modelli che caratterizzano la vita di comunità, possono essere esemplificati in alcune modalità che comportano:
Le aspettative di chi entra in comunità sono costituite principalmente dalla ricerca di una esperienza che possa permettere di sentirsi nuovamente "padroni di se stessi", a volte anche dubitando fortemente che ciò sia possibile.
L'iter prevede che l'aspettativa dell'utente si confronti con le aspettative degli altri ospiti e degli operatori, ciò dovrebbe consentire al soggetto di poter difendere il sentimento di identità personale e di stabilire fra sé e gli altri, quindi tra interno ed esterno, una linea di confine.
Nello stesso tempo, però, entrare in relazione con gli altri comporta una rinuncia a quello che Donald Winnicott chiama il controllo onnipotente sulla paura di dissolversi e l'angoscia di rimanere frammentati o scissi, nel tentativo di includere altre realtà nel proprio mondo inconscio.
In questa continua tensione e lotta interiore, il gruppo può svolgere una funzione di mediazione tra il sistema di valori ideali che la collettività avanza nei confronti del singolo e costituirsi come filtro tra le norme della collettività e l'elaborazione che il singolo può realizzare nella sua vita quotidiana.
I principi fondamentali della comunità terapeutica sono basati sui rapporti di:
La comunità terapeutica implica la definizione di alcuni aspetti comuni fra utenti ed operatori:
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