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La pagina illustra i principali castelli, torri di avvistamento e fortificazioni della regione Molise, ripartiti nella provincia di Campobasso e nella provincia di Isernia.
Un'antica pergamena risalente al 1375 conferma l'esistenza di un castello nella città già in tale data, ed è la testimonianza più antica al riguardo. Domina la città a circa 790 m s.l.m., quasi cento in più dell'altitudine media del comune. Una preesistente fortificazione sul detto Monte Croce, è da attribuire all'epoca sannitica (IV-II sec. a.C.), poiché sono state rilevate tracce di mura ciclopiche. Nell'epoca longobarda venne eretta la "Torre Jaluongo", la residenza del barone che comandava dall'alto la cittadella di Campobasso.
Dopo il disastroso terremoto del Sannio del 1456, Campobasso e il fortino angioino erano ridotte in macerie, sicché il feudatario Nicola II Monforte, detto "Cola", ricostruì la cittadina più a valle, oltre la chiesa cimiteriale di San Giorgio, e decise di cingerla con nuove mura di fortificazione, inframmezzate da torri e porte di accesso. Il castello fu eretto a pianta quadrata con quattro torrioni angolari cilindrici, e ingresso rivolto a est, si collegava mediante un'altra torre alla chiesetta di Santa Maria del Monte.
L'area circostante è occupata dal parco della via Matris, un percorso naturalistico che snodandosi lungo il pendio della collina ripercorre le tappe della Via Crucis.
Il castello è inciso su una moneta d'argento da cinque euro coniata dalla Zecca dello Stato nel 2012 per la serie "Italia delle Arti" dedicata alla città di Campobasso[1].
La nuova cinta muraria edificata dopo il 1456 da Nicola Monforte, è dotata di torri semicircolari, che partono alla cima del Monte della Croce, dove si trovano il castello e la chiesa: le porte più alte erano due: Porta Fredda, per l'ingresso da viale Rimembranze, e Porta di Torre Terzano, che stava presso la chiesa di San Bartolomeo, per l'ingresso dalla città di Campobasso.
Le altre porte:
Torre Terzano: è la più famosa della cinta muraria, collegata alla salita della chiesa di San Bartolomeo. Risale al XIII secolo, restaurata poi da Cola Monforte, è nota per una leggenda del XVI secolo, che vuole protagoniste due famiglie rivali: i Trinitari e i Crociati, i cui figli si amavano: Delicata Civerra e Fonzo Mastrangelo; ma proprio per la guerra tra le due famiglie, Delicata fu rinchiusa nella torre affinché non fosse rapita; Fonzo fu costretto a partire per il servizio militare, e Delicata morì di disperazione.
Delle antiche porte di accesso al borgo, si conservano: porta Mulino, porta Pie' la Terra, porta Fontana, porta Nuova.
I locali dovevano essere numerosi, divi in due corpi di fabbrica principali, una leggenda vuole che il castello avesse 365 camere, una per ogni giorno dell'anno, oggi a causa dei danni della guerra, e di restauri troppo tardivi, è andata perduta la scalinata monumentale settecentesca di Silvestri da Sepino e le arcate del loggiato interno, anche se negli ultimi anni del Novecento sono stati eseguiti importanti lavorid i recupero per riportare il castello allo splendore, e renderlo visitabile. La storia del castello inizia con Giovanni d'Evoli barone di Frosolone (Isernia), nobile normanno che lo costruì sotto gli Angiò nel 1362 sopra i resti della rocca sannita, anch'essa edificata sopra fortificazioni preistoriche, come dimostrano i frammenti di ceramica rinvenuti. Dopo Giovanni, Andrea d'Evoli consigliere di Alfonso I d'Aragona, ebbe il castello, e fu così importante nel Regno di Napoli che fu autore del De mena pecundum (1447), un trattato di regole per la circolazione delle greggi sui tratturi.
Nel corso del XV-XVI secolo il castello fu ampliato, divenendo una vera residenza signorile nel 1636, quando era governato da Giambattista D'Evoli, l'interno doveva essere davvero fastoso, ricco di arazzi e tele, che testimoniavano la grandezza economica di questa famiglia, i cui confini territoriali nella Contea Molisana arrivavano sino al confine abruzzese con Capracotta. L'ultimo ampliamento risale al 1683, nel XIX secolo fu venduto, dopo l'eversione dal feudalesimo, ad altre famiglie, che lo spogliarono degli arredi per pagare dei debiti con lo Stato, nei primi anni del Novecento risultava abbandonato, cadde velocemente nel degrado, i bombardamenti della guerra lo danneggiarono, e una parte franò a valle. Di recente, come detto, è stato restaurato, di proprietà della Soprintendenza dei Beni Culturali del Molise.
Al castello è legata alla leggenda dello jus primae noctis: la giovane Fata, di estrazione popolare,appena sposatasi non osò passare la notte di matrimonio col duca, e preferì suicidarsi; oggi a Castropignano, presso il burrone roccioso si trova il cosiddetto "cantone" della Fata, dove la ragazza si sarebbe gettata.
Questo castello esisteva sin dal XII secolo, usato come luogo di guardia dei normanni, a sua volta costruito sopra resti di fortificazioni sannite, nel 1221 fu teatro si scontri tra i Conti di Molise e Federico II di Svevia, che aveva avviato la politica di smantellamento delle piccole baronie e contee normanne, per accentrarle nell'impero. Il conte Tommaso di Celano lasciò la moglie Giuditta, figlia di Ruggero di Bojano, in difesa della rocca, e si recò a Roccamandolfi, ma Federico II fece attaccare la rocca di Civita, prendendola. Tommaso marciò verso Bojano, riprendendosi la moglie, ma venne raggiunto a Roccamandolfi da Tommaso d'Aquino, conte di Acerra e alleato di Federico, che assediò l'altro castello, sicché Tommaso giunse alla resa nel 1223, affidando la sua contea di Celano a Federico, tranne però Rocca di Bojano, ritenuta strategica per la difesa del territorio.
Civita Superiore fu occupata poi dagli Angiò e ricostruita per volere del cadetto Roczolino de Mandroles, poi passò ai Pandone, che tennero il castello per 80 anni circa, dal 1489 al 1519 Silvio Pandone destinò la rocca a residenza estiva, pian piano fuori dal castello si era sviluppato un villaggio, ancora oggi esistente, Civita Superiore, dotato di mura, case e due chiese. Dopo l'abbandono dei Pandone, il castello fu proprietà di altri feudatari, e venne gravemente danneggiato dal terremoto del 1805, cadendo nel degrado e nell'abbandono, sicché oggi ne restano ruderi. Delle strutture della fortificazioni sono evidenti due ampie recinti di mura, un fossato trasversale che sfrutta la naturale conformazione del sito. Su questo si affacciano i resti di un vano a pianta rettangolare, di cui rimane una parte della copertura a volta. Le aperture presentano una forte strombatura interna, il cortile aveva il ruolo di piazza d'armi, delle torri rompitratta si conserva quella dello spigolo occidentale, con i resti di una cisterna.
Non è da escludere che dal castello partisse la cinta muraria che abbracciava il perimetro del villaggio di Civita. L'abitato ha un aspetto vagamente quadrangolare, con degli spuntoni terreni che si affacciano a strapiombo, in modo da creare dei cosiddetti bastioni lanceolati, che forse esistevano. La cinta muraria è stata inglobata nelle case dopo il terremoto del 1805, e solo in parte è visibile, soprattutto per quanto riguarda dei torrioni angolari, che si presentano a pianta cilindrica. Il villaggio è ancora abitato, divenuto negli ultimi anni di grande interesse turistico per la conservazione delle case, ha due chiese, la principale dedicata a San Giovanni Battista. Sulla parte sud-est l'abitato si restringe su un costone roccioso, ed è il sobborgo della Giudice,,a ossia il quartiere popolare degli ebrei.
La più antica veduta di Bojano è la pianta dell'abate Giovan Battista Pacichelli, pubblicata nel 1703, e permette di vedere l'antico impianto urbano della città nel XVIII secolo. Due agglomerati muniti di cinta muraria in primis, il borgo di Civita con relativo castello e la città bassa, collegati da una rete di vie lungo il ripido pendio del Monte Crocella. Il disegno è stato giudicato dagli studiosi molto conforme alla realtà e non di fantasia, come era solito dei geografi di quel tempo per località amene e lontane. La collocazione esatta della cattedrale, del Vescovado, delle chiese, delle porte e del castello Pandone, permettono di vedere come fosse la città prima del disastro tellurico del 1805: nella leggenda, la lettera A corrisponde alla cattedrale, è riprodotta la facciata a capanna rivolta ad est e non ad ovest come oggi, ma l'archeologia ha confermato che ciò si tratti di una svista del disegnatore.
Nei pressi si trovava anche il monastero dei Francescani del XIII secolo, distrutto nel 1805, e occupato dal Municipio, detto "Palazzo San Francesco", nella lettera D, la lettera B indica il Vescovado posto in alto, ubicato in via Piagge, e nel XV secolo ubicato da Silvio Pandone presso la chiesa di Sant'Erasmo. La C indica il Palazzo baronale, nella zona elevata ad ovest, oggi noto come Palazzo Ducale o Pandone, del XVI secolo, dimora nel XVII secolo dei baroni Cimaglia e poi di Giulio di Costanzo duca di Bojano nel XVIII secolo; in seguito passò ai Filomarino-Della Torre.
La lettera G indica il fiume Tornariccio, posto a sinistra, mentre il Biferno (h) è ad ovest; sempre fuori dall'abitato si trova la chiesa di Santa Maria di Rivoli, grancia dell'abbazia di Montevergine nel 1724, e citata con una porta omonima, o "della Torre", che permetteva l'accesso a Bojano da ovest, ossia via Erennio Pozio. Altre torri si trovavano a sud in località Cannello, la torre Nord Tramontana, e la torre di via Insorti d'Ungheria
La lettera E indica il castello Pandone, insieme ad F del villaggio di Civita. All'altezza di Corso Pentri, la cinta deviava a nord, e lungo l'asse, includeva con sporgenza la cattedrale e la chiesa di Santa Maria del Parco, proseguendo in via Turno, dove sono visibili contrafforti simili a quelli menzionati, in corrispondenza della chiesa di San Biagio, e ripiegava di nuovo verso la montagna. Di questo tratto si conservano una torre cilindrica oggi usata come casa, resti di una parte più ripida e impervia in declivio. Salendo in via Piaggia, la muratura si allargava per inglobare dei fabbricati, sul lato sud dato l'andamento del terreno accidentato, fu eretta una cortina continua, in raccordo coi dirupi. Le porte erano:
La Porta Santa Maria apriva la strada verso Campobasso e Larino, Porta della Torre serviva per raggiungere Rocca Bojano e Civita, Porta Pasquino apriva la strada per Isernia, e Porta San Biagio portava verso Sepino e Benevento.
Sulla facciata è ancora presente lo stemma di Paolo de Sangro, con i gigli rovesciato; al di sopra dello stemma ci sono dei buchi all'interno dei quali si muovevano le catene del ponte levatoio. Il castello è composto da finestre e altre strutture bucate strette: una volta superato l'ingresso si arriva a una sala trapezoidale, le restanti stanze del castello sono state spogliate degli originari arredi. Sotto la scalinata del cortile si apre un'arcata che permette di accede al piano inferiore, dove sono collocati dei locali, adibiti a stalle o cantine, e dove c'è la possibilità di accedere alle torri. All'interno del cortile vi è un pozzo che riceve l'acqua piovana, con una fontanella abbellita dal fusto con forme antropomorfe e animali, di origine sannitica.
L'interno si presenta come una pregevole pinacoteca abbellita da affreschi di Donato da Caopertino nel 1550, su commissione di Vincenzo Di Capua, duca di Termoli e conte di Gambatesa. Gli affreschi sono l'espressione massima del manierismo molisano, il ciclo raffigura paesaggi, tendaggi, finte colonne e scene mitologiche che celebrano il potere della famiglia, alla stessa maniera della Camera degli sposi del Mantegna per i Gonzaga.
Oggi è museo e municipio. Ha tre livelli nella pianta rettangolare, con ingresso principale ad arco a tutto sesto. Sulla facciata è presente una torre circolare che è adibita a residenza privata. Di interesse la struttura esterna fortificata con base a scarpa, e la torre medievale a pianta cilindrica, con una monumentale finestra.
La struttura di fortezza rimase sino alla metà del XVII secolo, quando la famiglia De Sangro nel 1683 la trasformò in palazzo gentilizio. La fa,iglia De Sangro sia a Larino che presso il palazzo è documentata anche attraverso degli stemmi, uno è in vico Brencola, seconda traversa di via Leone, sulla destra della Cattedrale. Si tratta di un concio di chiave di un arco acuto alla gotica, che reco lo scudo con le insegne della famiglia. Secondo l'archeologo Franco Valente lo stemma sarebbe stato asportato da un altro luogo, e forse apparteneva proprio al castello, negli anni in cui si voleva perpetrare una damnatio memoriae contro i Sangro. Lo stemma appartiene a Tommasa de Sangro, feudataria di Larino. Nel XIV secolo il castello era di proprietà di Ugone di Soliaco, che lo rifortificò nel 1340.
Un altro stemma rinvenuto che ha lo scudo dei Sangro, con una dedica, come quello precedente, mostra come a Larino sia stata importante la figura di Tommasa e di suo figlio Ugolino, ancora minorenne; Tommasa sua madre governò in sua vece per vari anni[1], durante il baliato. Dallo stemma, con le insegne dei Pignatelli, si può immaginare che fosse avvenuta anche un'unione matrimoniale e politica tra le due casate, anche se nei documenti il castello è sempre citato come proprietà dei Sangro.
Nell'800 il palazzo venne acquistato dalla Municipalità di Larino, nel 1888 fu costruita un'altra facciata orientata su Piazza Vittorio Emanuele (oggi Piazza Roma), incompiuta. Ospita ancora la sede del Comune di Larino, ma è anche un'attrazione turistica, sede del museo civico archeologico.
Il castello è un grande mastio a pianta quadrata, provvisto di una torretta angolare, simile al castello svevo di Termoli, e sorge nel centro del paese, nel punto più alto: fu costruito dai Longobardi, e rimodellato nel Quattrocento. I proprietari principali furono i Carafa. Ha pianta pentagonale, da cui si accede mediante un portale. Originariamente il castello era a due livelli: oggi resta solo il livello di base, mentre il palazzo fortificazione contiene ancora la struttura antica e due torri circolari.
Le notizie più remote del borgo medievale si hanno intorno al XIV secolo, quando il castello in centro al paese fu degli Evoli di Castropignano, poi degli Stendardo, che lo inserirono nella Contea di Montagano fino al 1477, quando Morì Giacomo da Montagano. Nell'anno seguente il feudo fu di Giovannella di Molisio, consorte di Alberico Carafa, famiglia che ebbe Molise sino al 1547. Dopo varie vicende il feudo fu tenuto da Giangiacomo Coscia, poi Gincenzo del Tufo, Prospero De Attelis, Giovanni Maeia di Blasio. Nel XVII secolo fu dei Della Posta, che tennero il castello sino al 1806, anno dell'eversione dal feudalismo: ultimo titolare fu Filippo Della Posta, vissuto durante la restaurazione borbonica e il periodo del brigantaggio. La famiglia continuò tuttavia ad abitare nel castello, e si estinse nel 1945 con la morte di Camilla Della Posta, nominata ancora "Baronessina di Molise"
La seconda porzione, più moderna, detta "Terranova", è delimitata dagli assi di via Roma e viale Marconi, l'organizzazione planimetrica è più regolare, rispetto al rione medievale, con assi ortogonali che si sviluppano attorno all'area del Municipio, ricavato dall'ex convento dell'Immacolata Concezione, dietro cui si trova il giardino del piazzale quadrangolare dedicato, a Umberto I di Savoia. Da via Garibaldi, in direzione ovest, si accede a nuovi quartieri residenziali, non ancora pienamente sviluppati, che sorgono nell'area del cimitero, dove si trova la chiesa del Carmine.
Il castello fu costruito dagli Angioini: nel 1285 Bartolomeo di Capua lo dette a Carlo d'Angiò, dipendente dal centro di Gambatesa. Nel 1400 fu abitato da Costanza Chiaramonte, ex contessa di Modica, ex Regina di Napoli, in quanto sposa nel 1389 di Re Ladislao I di Napoli D'Angiò, poi ripudiata tre anni dopo. Andata nel 1395 in seconde nozze con Andrea Di Capua conte d'Altavilla, primogenito del Principe di Riccia, Luigi di Capua, venne a vivere appunto a Riccia, dove morì nel 1423. Sia Costanza Chiaramonte, che il marito Andrea ed il suocero Luigi di Capua sono sepolti a Riccia in una cappella gentilizia, all'interno della Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Nel '500 passò a Bartolomeo III che lo trasformò in vera roccaforte militare. Però nel 1799 una sollevazione popolare distrusse la facciata del castello.
Il castello oggi è conservato in forma non integra: mancano alcune parti del recinto fortificato e alcune torri. Il cortile è ben conservato, così come il torrione e il palazzo ducale, che oggi ospita il Museo delle Arti.
Il castello aveva pianta a recinto triangolare.
Si trova in cima a Colle Ciglione, in alto sopra il borgo, dove fu costruita la prima torre longobarda del IX secolo. Nel XIII secolo fu fortificato come vero castello dagli Angioini. Nel XV secolo fu ampliato dagli aragonesi e successivamente passò a vari baroni tra i quali i Carafa e i Caracciolo, passando in seguito alla famiglia Ciamarra. Il castello ha forma di un palazzo gentilizio di pianta rettangolare irregolare, con muratura in mattoni. Le tre torri angolari superstiti appartengono al periodo aragonese, di forma circolare, e con sommità decorata da merlature e cappuccio a cono per tetto. La proprietà del Castello è rivendicata da due rami della famiglia Ciamarra, tra cui è tuttora in corso una causa giudiziaria su questo tema. Parte del castello ospita oggi un museo dedicato alla pittrice Elena Ciamarra.
Isernia non è stata mai dotata di un castello, piuttosto di una cinta muraria ancora oggi in parte individuabile nel centro antico. La sopraelevazione naturale dell'abitato sulla collina, rendeva già dal XII secolo Isernia una città ben protetta. Per quanto riguarda la precedente era romana, gli elementi arrivati sino ad oggi riguardanti la muratura, a grossi blocchi trachinici parallelepipedi, oggi ne sono visibili delle tracce sulla parte orientale. Il foro romano era l'attuale Piazza Andrea d'Isernia o piazza del Mercato, dove il duomo di San Pietro fu eretto sopra il tempio di Giove. Il decumanus maximus coincideva con l'andamento del corso Marcelli; nella ripetizione regolare dei vicoli a questo ortogonali, unica eccezione il vico Storto del Castello, si riconosce una teoria di cardines.
Nelle'poca medievale longobardo-normanna, la cattedrale di Isernia, l'episcopio e il territorio attorno al foro vennero a costituire un polo di carattere religioso nella parte topograficamente più elevata della semidistrutta città romana; un altro polo di carattere civile si formò secondo Franco Valente, più tardi in età longobarda (X secolo), cioè fuori dalle mura a nord, quando venne istituita la Contea d'Isernia, sarebbe stata eretta una fortezza nell'area sud, tra via Occidentale e Largo Purgatorio, oggi scomparsa, di cui però rimangono i toponimi di via Castello, vico Porta Castello.
Nell'847 un terremoto distrusse Isernia, altri danni furono arrecati dai Normanni, sicché la contea passò nella Contea di Boiano, o di Molise. Nel 1223 l'imperatore Federico II, lottando contro il conte Tommaso di Celano dei Marsi, ordinò l'abbattimento delle mura isernine. Così queste lentamente nei secoli seguenti vennero a fondersi con le case civili, complici altre distruzioni arrecate dai terremoti del 1456 e del 1805. Nel 1703 l'abate Giovan Battista Pacichelli realizzò una pianta della città di Isernia come si presentava all'epoca, nella legenda della carta geografica, con lettere dell'alfabeto, sono riportati i monumenti principali:
Le lettere E - F - H - N riportano degli edifici scomparsi: la chiesa di Sant'Onofrio, di San Vincenzo, dell'Annunziata, e di Santa Lucia. La cinta muraria orientale, benché in rovina, serviva come camminamento di ronda. Tre sono i fornici di accesso, il primo dalla chiesa di Santa Maria delle Monache, il secondo all'altezza della cattedrale, dalla porta del campanile di San Pietro, e il terzo al di sotto della chiesa di Santa Chiara, mediante Porta Fonticella.
Nei pressi di Piazza Purgatorio, dove sorgeva la chiesa, distrutta nel bombardamento del 1943, pare che manchi un tratto della cortina muraria, forse crollato già col terremoto del 1805, si nota una rientranza, un declivio con un terreno senza costruzioni. Sul lato meridionale la muratura mostra un avancorpo, una torre circolare e Porta da Piedi, con un ponte che scavalcava un fossato; quest'ultimo sembra generato dal fiume Carpino. Probabilmente venne realizzato un canale artificiale a protezione dell'accesso alle mura, all'inizio del corso Marcelli. Il lato nord delle mura appare caratterizzato da una serie di massicci contrafforti che fanno supporre l'ampio riutilizzo dei resti delle mura sannitiche; manca l'ingresso da nord, detto Porta Maggiore, che accoglieva i mercanti e i pellegrini dalla strada degli Abruzzi e di Bojano, Campobasso, e vi si trovava la chiesa dell'Immacolata Concezione.
Il disegno di Pacichelli non fornisce informazioni sul versante occidentali, opposto al punto di vista della città, una pianta del XIX realizzata dal geografo Tommaso Zampi, custodita nella Biblioteca nazionale "Vittorio Emanuele III" di Napoli, mostra com'era la pianta muraria di questa porzione, dall'andamento a cortina. Oggi però in più punti il tratto di via Occidentale è stato rimaneggiato dalla presenza di abitazioni.
Il fronte occidentale presentava tre torri circolari, individuabili facilmente tra le case, e 4 porte di accesso: Porta Castello, Porta di Giobbe, vicino al vicolo Castello, e Porta Mercatello, che esiste ancora oggi, e introduce a Piazza Andrea d'Isernia; poi ancora Porta San Bartolomeo, che si trovava vicino alla chiesa omonima oggi distrutta, la porta è ancora esistente, si trova in Largo Ciarlante.
Monumento principale del paese, è questo castello, risalente forse all'VIII secolo, quando i Longobardi eressero un piccolo fortino, con la cappella di San Michele, loro patrono, oggi parrocchiale del paese. Documenti che citano il feudo risalgono ad Enrico VI, quando Bertoldo di Kunsberg alla testa di soldati tedeschi e fiorentini, assalì il castello nel 1193, posseduto da Tancredi. Nella Cronaca di Riccardo da San Germano, il castello è descritto come uno dei più fortificati della zona del Matese. Dall'esame dell'impianto murario si può ritenere che il nucleo più antico della rocca corrisponda al complesso di costruzioni che sovrastano la cosiddetta "porta falsa", dove ancora si trovano segni di una torre quadrata, sicuramente di epoca anteriore alla dominazione angioina. La torre era collegata a delle case di legno, e alla cinta muraria del borgo, di cui sono visibili resti presso la cinta di recinzione del giardino interno.
il castello fu modificato nel XIV secolo durante il governo degli Angiò, dotato di torri di controllo angolari, piccoli baluardi e feritoie, aggiunte dopo il 1503, quando Monteroduni passò a Ludovico d'Afflitto, i cui familiari lo tennero sino al 1668 quando passò ai Principi Pignatelli. Cessata la funzione difensiva, e stabilita la pianta quadrata del maniero con le torri angolari, il castello passò ai Pignatelli nel XVII secolo, che lo trasformarono in residenza gentilizia, costruirono nel Settecento il grande salone col soffitto ligneo dipinto da 190 tavole di querciolo, oggi riportato all'antico splendore dal restauro. L'esterno, benché di carattere medievale, è frutto di un corposo rifacimento ottocentesco, in quel periodo in cui andava di moda il revival neogotico, di interesse i portali in breccia rossa del Matese, la cui esecuzione risale al XVIII secolo, forse vennero assunti i fratelli romani Geremia e Domenico Ferretti, i quali realizzarono anche il battistero di San Michele.
Lo scalone monumentale è del XVI secolo, del 1752 è la grande tavola lapidea con la pandetta dei pedaggi che si pagavano per passare la Lorda, murata nel 1890 all'ingresso del giardino, dopo il portale con il grande stemma dei Pignatelli. All'esterno, si ha una decorazione della sommità dei quattro lati da merlature pseudo quattrocentesche, così anche le quattro torri circolari, decorate anche da beccatelli allo stile aragonese. Il castello dal 1064 al 1268 fu dei Conti di Molise, poi sotto gli Angiò sino al 1278 andò ad Eustachio d'Ardicourt, nel 1281 fu feudo del Marchese d'Evoli, dei conti di Trivento, nel 1326 passò ai De Sus, nel 133 fu direttamente possedimento di re Roberto d'Angiò, e della regina Sancia, poi fu conteso dai d'Evoli e i Trinci, nel 1441 passò ai Gaetani e agli Afflitto, sino ai Pignatelli, quando nel primo Novecento lo cedettero al Comune, ch vi trasferì gli uffici, rendendo tuttavia il castello fruibile al pubblico.
La torre Marchesani: sorge sulla roccia di Pietrabbondante, si presenta come una costruzione quadrangolare alta 20 metri, e con 5 metri di larghezza. Risalente al XIII secolo circa, è in blocchi di pietra squadrati, con ordine regolare di piccole feritoie, e comunicava con altre tre torri, demolita nell'Ottocento perché pericolanti. La torre attuale è stata tagliata e restaurata dal barone Donato Giovanni nel XVII secolo, l'accesso originario era dato da un sistema di scale mobili retrattili, l'ingresso infatti è sopraelevato di 3 metri rispetto al piano di calpestio
L'andamento orizzontale è spezzato visivamente dalle torri, che danno un senso di verticalità alle mura: queste torri in precedenza forse erano più alte, per poter consentire l'avvistamento; oggi vi sono tre torri, una di queste è rompitratta, le altre sono angolari, ossia il torrione di Casa De Dominicis, e quella a presidio della porta di accesso, a base poligonale; di pensa che possa essere del XVI secolo. Mancano torri nel lato del castello che guarda verso il paese, questo poiché dato lo strapiombo del costone roccioso, era difficile che il castello potesse subire attacchi dai paesani. Le feritoie sono numerose all'interno del castello, dove dovevano servire a difendere l'ingresso; il castello come porta di accesso al borgo, si assicurava la difesa dai banditi e il controllo dei viandanti. Sono visibili i cardini dell'arco maggiore della porta, sulla porta che guarda verso il territorio rurale sono collocati gli stemmi nobiliari e un'iscrizione celebrativa della famiglia Petra, che nel XVII secolo trasformò il complesso edilizio.
Situato ai limiti nord-occidentali della Venafro romana, trae origine da una fortificazione megalitica trasformata successivamente nel mastio quadrato longobardo. Tale trasformazione avvenne quando il conte Paldefrido vi pose la sua sede X secolo. Nel XIV secolo, al mastio quadrato, furono aggiunte tre torri circolari e la braga merlata. Fu trasformato completamente nel XV secolo dai Pandone, signori di Venafro; era difeso su tre lati da un grande fossato alla cui realizzazione fu coinvolta l'intera popolazione. Il fossato non venne mai del tutto completato per via di una rivolta popolare che reclamava le cattive condizioni in cui era costretta a lavorare.
Al castello si accedeva attraverso un ponte levatoio ad ovest e una postierla ad est. Postierla che permetteva l'accesso di un cavaliere alla volta e pertanto poteva essere controllata da una sola guardia. Enrico Pandone lo trasformò in residenza rinascimentale aggiungendovi un giardino all'italiana, un arioso loggiato e facendolo affrescare con le immagini dei suoi poderosi cavalli. I cavalli per il conte rappresentavano la sua attività principale.
Ancora oggi i ritratti di cavalli in grandezza naturale, in numero di ventisei e realizzati in leggero rilievo, decorano tutto il piano nobile e costituiscono un'esclusiva per il castello di Venafro. Nella sala dei cavalli da guerra primeggia la sagoma del cavallo San Giorgio, donato da Enrico a Carlo V.
Enrico rimase sempre devoto a Carlo V fino alla discesa di Lotrec dalla Francia. Carlo V ebbe la meglio sul francese e il tradimento costò ad Enrico la decapitazione in Napoli. Al di sotto del piano di ronda un camminamento con feritoie permetteva il controllo del maniero dal piano del fossato. Il camminamento è interamente percorribile. Nel XVII secolo il Castello, dopo essere stato della famiglia vicereale dei Lannoy, passò ai Peretti-Savelli, familiari di Sisto V, e nel secolo successivo alla potente famiglia dei di Capua. Giovanni di Capua lo trasformò nella sua residenza in vista del matrimonio che avrebbe dovuto contrarre con Maria Vittoria Piccolomini, agli inizi del Settecento. Grandi lavori furono intrapresi tra cui la rimozione di gran parte dei cavalli fatti realizzare da Enrico Pandone.
Matrimonio che rimase un sogno per l'immatura scomparsa di Giovanni. Lo stato avanzato dei preparativi per tale evento aveva portato a concretizzarlo nel grande stemma, che è ancora nel salone, dove l'unione dei blasoni delle due casate ricorda un avvenimento che non è mai accaduto. Dopo anni di lavori di restauro, che come tutti gli interventi ha momenti felici e meno felici, il Castello di Venafro ospita convegni e mostre e può essere visitato ogni giorno. Dal 2013 il Castello è sede del Museo Nazionale del Molise, con una ricca Pinacoteca di testimonianze artistiche molisane, confrontate con altre di proprietà statale, provenienti dai depositi dei Musei di Capodimonte e San Martino di Napoli, della Galleria Nazionale d'Arte Antica di Roma e del Palazzo Reale di Caserta. Il percorso è diviso in due sezioni: il castello, “museo di se stesso”, con le sue valenze urbanistiche, architettoniche e decorative, e l'esposizione al secondo piano di affreschi, sculture, tele, disegni e stampe, in un itinerario che documenta la cronologia – dal Medioevo al Barocco – e i diversi orientamenti culturali di committenti e artisti in Molise.
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