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politico e giornalista italiano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Carlo Scorza (Paola, 15 giugno 1897 – San Godenzo, 23 dicembre 1988) è stato un politico e giornalista italiano. Luogotenente generale della MVSN, fu l'ultimo Segretario del Partito Nazionale Fascista.
Carlo Scorza | |
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Carlo Scorza inquadrato nella 4ª Divisione fanteria "Littorio" | |
Deputato del Regno d'Italia | |
Legislatura | XXVII, XXVIII, XXIX |
Sito istituzionale | |
Consigliere nazionale del Regno d'Italia | |
Legislatura | XXX |
Gruppo parlamentare | Corporazione della Chimica |
Segretario del Partito Nazionale Fascista | |
Durata mandato | 19 aprile 1943 – 25 luglio 1943 |
Predecessore | Aldo Vidussoni |
Successore | Nessuno (Carica abolita) |
Dati generali | |
Partito politico | Fasci Italiani di Combattimento (1920-21) Partito Nazionale Fascista (1921-1943) |
Professione | politico e giornalista |
Nel 1912, insieme alla famiglia, si trasferisce dalla Calabria a Lucca, dove si diplomerà in ragioneria. Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola come volontario nei Bersaglieri, e poi nei Reparti d'Assalto, gli Arditi, raggiungendo nel corso del conflitto il grado di tenente e meritando tre medaglie di Bronzo al Valor Militare. Il 14 dicembre 1920 si iscrive ai Fasci di Combattimento che poi si trasformeranno nel Partito Nazionale Fascista (PNF). Nello stesso anno, diventa giornalista professionista.
Dirige le squadre d'azione lucchesi ed è organizzatore della spedizione di Valdottavo (frazione di Borgo a Mozzano), conclusasi il 22 maggio 1921 con la morte di due squadristi e il ferimento di numerosi altri che viaggiavano a bordo del camion caduto in una scarpata a causa dei massi fatti precipitare, stando alla versione di Scorza, dagli antifascisti. Indagini successive, tuttavia, collegate anche alla contemporanea uccisione del casellante Porciani di Ponte a Moriano, testimone dei fatti, indicano che il mandante dell'eccidio (e dell'omicidio) fu proprio Scorza, assieme a Lorenzo Grossi e Andrea Ballerini[1]
Prende parte alla Marcia su Roma dell'ottobre 1922, come Comandante delle tre legioni della Lucchesia, confluite a Civitavecchia, ed è Segretario Federale di Lucca del PNF dal 1921 al 1929. È eletto deputato alla Camera nel 1924.
Controverso appare il ruolo giocato dal "Federale" lucchese nella vicenda dell'aggressione di tipo squadristico subita da Giovanni Amendola il 20 luglio 1925 nei pressi di Pieve a Nievole. Il giorno precedente il deputato liberale era giunto a Montecatini Terme per la cura delle acque; sparsasi la voce del suo arrivo, sin dal mattino del 20 davanti all'albergo nel quale alloggiava (l'Hotel La Pace) si formò un assembramento di facinorosi intenti a contestarne la presenza. Facendosi la dimostrazione sempre più minacciosa e trascorrendo la giornata senza che dal Comando di Lucca giungessero i rinforzi richiesti dai carabinieri locali, si temeva che la folla tumultuante accalcata dinanzi all'ingresso principale penetrasse nell'albergo e mettesse le mani sul parlamentare antifascista. I dirigenti del Fascio montecatinese informarono della situazione Scorza, il quale, giunto tempestivamente dal capoluogo e preoccupato di scongiurare una replica del delitto Matteotti (che l'anno prima aveva posto Mussolini in grave difficoltà), si premurò di tutelare l'incolumità di Amendola facendolo fuggire di nascosto, ricorrendo a tale scopo a un escamotage.
Mentre nella camera da lui occupata veniva posto un dipendente dell'albergo, accanto alla finestra in modo da far credere ai manifestanti che vi fosse ancora presente il politico campano, questi fu fatto uscire dall'ingresso secondario e fatto salire sull'automobile (una Fiat 501, messa a disposizione assieme all'autista dal Garage Morescalchi) che avrebbe dovuto condurlo alla stazione ferroviaria di Pistoia, donde sarebbe rientrato a Roma fruendo di uno scompartimento riservato e per di più protetto da un tenente della Milizia con due militi. Non essendo alle 19 ancora giunto il contingente di carabinieri che avrebbe dovuto scortare Amendola lungo il tragitto stradale, Scorza dispose che ad accompagnarlo fossero tre giovani militanti fascisti locali, due dei quali presero posto nella vettura mentre il terzo, salito sul predellino, ne discese all'uscita dalla cittadina termale. Ma una volta superata Pieve a Nievole, poco oltre l'incrocio della Colonna di Monsummano la macchina fu costretta a fermarsi a causa di un tronco d'albero che ostruiva la strada: sceso per rimuoverlo, uno degli accompagnatori del parlamentare fu ripetutamente colpito con un bastone da un individuo apparso all'improvviso.
Al contempo, sia dal fosso di fianco alla carreggiata che da una stradina adiacente sbucarono altri aggressori, uno dei quali, armato anch'egli di bastone, raggiunto il lato destro dell'auto ne sfondò il finestrino posteriore, in corrispondenza del posto occupato da Amendola, il quale fu investito dai frantumi. L'agguato era evidentemente finalizzato a dare una lezione all'esponente antifascista; ma gli assalitori - con ogni probabilità squadristi monsummanesi - furono impediti nel loro intento delittuoso da due imprevisti verificatisi in rapida successione. Il secondo accompagnatore onorò fino in fondo il proprio ruolo di guardia del corpo, scendendo a sua volta dalla macchina ed esplodendo dei colpi di pistola in aria, a scopo intimidatorio; mentre sulla strada sopraggiunsero una dopo l'altra due automobili, inducendo definitivamente i criminali a rinunciare ai loro truci propositi e a fuggire. Al pronto soccorso dell'ospedale di Pistoia furono medicati sia Amendola, cui le schegge del vetro avevano provocato delle lesioni alla parte destra del capo, che quello dei suoi accompagnatori colpito dalle bastonate. Dopodiché il deputato poté finalmente raggiungere la stazione: ove, prima di salire sul treno, ringraziò calorosamente i due giovani montecatinesi che con il coraggioso atteggiamento assunto a sua difesa lo avevano salvato[2].
La giustizia di regime non poté esimersi dall'aprire sull'attentato un procedimento d'ufficio, per quanto rivolto contro ignoti e destinato a finire rapidamente archiviato. L'indagine fu tuttavia riaperta nel 1945, risentendo inevitabilmente del particolare clima politico dell'immediato dopoguerra: essendosi avuta nel 1926 la morte di Amendola, essa veniva dal nuovo impianto accusatorio ricondotta alle percosse da lui presuntivamente subite nel corso dell'aggressione. Il capo d'imputazione era omicidio premeditato, il mandante del delitto veniva identificato nello stesso Scorza e i suoi esecutori individuati negli esponenti del Fascio montecatinese - a cominciare dall'ex podestà - compresi i tre accompagnatori del parlamentare e a prescindere dal ruolo da ciascuno effettivamente assunto nella vicenda. Grazie a testimonianze emerse a distanza di 20 anni dai fatti venivano così messi sotto accusa non i responsabili dell'agguato (del resto mai identificati) bensì coloro che si erano adoperati per la salvezza di Amendola; con Scorza giudicato in contumacia essendo nel frattempo riparato in Argentina. Pur essendo l'episodio avvenuto in territorio all'epoca lucchese, il procedimento si tenne presso il tribunale di Pistoia (dal 1927 capoluogo di provincia), andando avanti per tre anni e non modificando il proprio orientamento neppure dopo l'amnistia Togliatti del 1946, finalizzata a risolvere casi di questo genere nel segno della pacificazione nazionale.
Latitando non solo le prove, ma pure gli indizi, decisiva ai fini dell'esito del processo risultò la testimonianza dell'autista: il quale dichiarò che a costringerlo a fermarsi nel luogo in cui avvenne l'imboscata era stato l'accompagnatore seduto davanti (ossia quello colpito dal primo degli aggressori), puntandogli contro la pistola per poi immediatamente iniziare a percuotere Amendola con un bastone. Sennonché in un'udienza successiva il medesimo teste, incalzato dalle domande degli avvocati difensori, cadde in contraddizione sia rispetto alle dichiarazioni rilasciate in istruttoria che a quanto affermato in precedenza un'aula, al punto di essere incriminato dal presidente della corte per falsa testimonianza; sull'attendibilità della sua deposizione gravò inoltre il fatto di non aver saputo rendere conto del motivo per cui egli avesse modificato a propria discrezione il percorso di fuga dall'albergo rispetto a quello indicatogli da un commissario di polizia[3]. Nel tentativo di difendersi l'autista sarebbe giunto a sostenere di essere stato costretto a dichiarare il falso dalle minacce ricevute da parte di tre individui penetratigli in casa la notte precedente la sua testimonianza allo scopo di imporgli la versione da sostenere in aula, terrorizzando sia lui che i familiari per mezzo delle armi impugnate.
Nemmeno tale incidente valse tuttavia a modificare il convincimento dei giudici pistoiesi, i quali riconobbero la colpevolezza di tutti gli imputati condannandoli a 30 anni di reclusione per concorso in omicidio premeditato, a piena conferma della tesi accusatoria che voleva un collegamento tra l'aggressione patita e il decesso di Amendola. Secondo la sentenza, Scorza, di concerto con i dirigenti del Fascio montecatinese, avrebbe tratto volutamente in inganno il leader dell'opposizione, mostrandoglisi preoccupato per la gravità della situazione ma al solo scopo di farlo cadere nel tranello architettato. Nelle motivazioni non venivano tuttavia spiegati diversi punti cruciali: a cominciare dall'aggravante della premeditazione, che se risultava giustificata nei confronti di chi avrebbe organizzato l'attentato appariva meno applicabile a chi, ingaggiato all'ultimo momento per un incarico del tutto inatteso, era rimasto vittima egli stesso della violenza degli aggressori.
L'incongruenza delle conclusioni della corte d'assise rispetto a quanto emerso in dibattimento indusse la Cassazione ad accogliere parzialmente il ricorso presentato dalla difesa degli imputati, rinviando il processo dinanzi alla corte d'appello di Perugia: la quale rimediò alle forzature dei giudici di primo grado sia sottoponendo le testimonianze utilizzate a supporto della sentenza di condanna a un esame più scrupoloso, sia attribuendo la giusta rilevanza al referto del pronto soccorso pistoiese. Quest'ultimo infatti limitando i danni riportati da Amendola alle ferite causate dai vetri escludeva che egli fosse stato colpito con corpi contundenti non solo e non tanto dagli ignoti autori dell'aggressione, quanto dall'accompagnatore accusato di averlo percosso. A conferma del fatto che il parlamentare avesse riportato lesioni cutanee e non interne abbiamo inoltre la testimonianza del figlio Pietro, a detta del quale il 30 agosto 1925 il padre si trovava in una clinica francese, "dove è andato a sottoporsi a un trattamento chirurgico che limiti i danni riportati al volto e alla testa nell'aggressione subita a Montecatini (...). Gli hanno rasato i capelli perché si possa lavorare alle ferite"; dalla degenza Amendola aveva difatti inviato alla famiglia una foto che lo ritraeva con la testa rasata[4]. La vicenda giudiziaria giunse a conclusione nell'ottobre 1950, con l'assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove[5].
Scorza diviene direttore de L'Intrepido, settimanale dei fasci di combattimento di Lucca e Pisa. È tra i fondatori del giornale Il Popolo Toscano e, dal 1931, è direttore di Gioventù Fascista. Nel 1928 diviene Presidente della F.N.A.I. (Federazione Nazionale Arditi d'Italia). Nel 1928-1929 Scorza è anche Commissario straordinario del partito per la Federazione di Forlì.
È riconfermato deputato nel 1929 e nel 1934[6] fu membro del Direttorio Nazionale del PNF (1929-1931), nel dicembre del 1932 viene censurato da Mussolini per aver ecceduto nella polemica contro le organizzazioni cattoliche.
Partecipa come Ufficiale alla Guerra d'Etiopia, nella Divisione CC.NN. "1° Febbraio", venendo decorato con due Medaglie d'Argento e una di Bronzo al Valor Militare successivamente come partecipa come Volontario alla Guerra civile spagnola, in seno alla Divisione d'Assalto "Littorio", ottenendo una Medaglia d'Argento e una di Bronzo al Valor Militare. Durante gli anni della segreteria di Achille Starace rimane sostanzialmente in ombra e in posizione polemica contro la burocratizzazione del Partito e dello Stato. La fine della segreteria Starace coincide con la rinascita politica di Scorza: è Consigliere Nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (1939 - 1943), membro della Corporazione della Chimica (1938-1941) e della Corporazione della Siderurgia e Metallurgia (1941-1942), presidente dell'Ente della Stampa (1940-1943) e Vicesegretario nazionale del PNF dal dicembre 1942.
Il 19 aprile 1943 viene nominato Segretario del Partito Nazionale Fascista, con il rango di ministro, carica che mantiene fino al 25 luglio 1943.
È il primo a informare Mussolini del contenuto dell'Ordine del giorno che Grandi avrebbe presentato alla seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 24 luglio 1943, quindi concorda con il Duce un Ordine del giorno del PNF che poi sarebbe stato messo ai voti subito dopo quello di Grandi (nei confronti del quale Scorza esprime voto contrario). Ma dopo la votazione sull'O.d.g. Grandi (che raccolse solo sette voti contrari tra cui il suo), non fu votato alcun altro Ordine del giorno. Nella confusione politica seguita alla destituzione e all'arresto di Mussolini, prima si nasconde, sottraendosi alla cattura, poi si offre di collaborare al governo di Pietro Badoglio e resta indisturbato fino all'8 settembre.
Per tale motivo, dopo la nascita della Repubblica Sociale Italiana, verrà arrestato con l'accusa di tradimento. Compare come testimone al processo di Verona contro Galeazzo Ciano e gli altri gerarchi. Processato a Parma nell'aprile del 1944 e difeso dall'avvocato Paolo Toffanin (1890-1971), fratello del più noto Giuseppe Toffanin, viene liberato per intervento diretto del Duce.[7] Si trasferirà, successivamente, a Cortina d'Ampezzo (BL).
Al termine della seconda guerra mondiale si rifugia a Gallarate (Varese). Scoperto e arrestato nell'agosto del 1945, riesce a evadere riparando in Argentina. Rientrato in Italia nel 1969, si trasferisce in un piccolo comune vicino a Firenze, dove muore nel 1988. Ha scritto un memoriale sulla seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 24 luglio 1943
La posizione autorevole raggiunta da Scorza nel corso degli anni '30 gli permise di dedicarsi all'eliminazione di personaggi a lui sgraditi nel territorio della Provincia di Lucca. Le sue azioni furono dirette sia contro gli oppositori interni al partito (fra cui Oscar Galleni di Pietrasanta, e i fratelli Pennacchi di Castelnuovo), sia contro l'ex deputato demosociale Tullio Benedetti[8], da tempo nel mirino di Scorza e del fratello Giuseppe per un accertamento fiscale (probabilmente opera dello stesso G.S.); Benedetti fu quindi costretto al confino, poi, a seguito di indagini da parte di un inviato di Mussolini, gli fu permesso il rientro a Lucca, a condizione che finanziasse la Banca di Lucca (amministrata da Giuseppe Scorza)[8]. La volontà di Benedetti nel rimodulare l'importo da versare nella Banca (in grave dissesto finanziario e in procinto di essere rilevata dalla Banca Nazionale del Lavoro) fece sì che, al termine dell'assemblea dei soci, l'ex deputato fosse picchiato[9].
Un accanimento, quello degli Scorza, probabilmente dovuto alla presunta pericolosità di Benedetti, "[...] ben addentro alla storia della cancrena politico-affaristica del fascismo dei primi anni Venti connessa con il delitto Matteotti e aveva dimestichezza con le vicende dei memoriali e dei dossier che facevano risalire a Mussolini e ai vertici del partito la responsabilità del deputato socialista"[10].
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