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tragedia di Euripide Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Le Baccanti (in greco antico: Βάκχαι?, Bákchai) è una tragedia di Euripide, scritta mentre l'autore era alla corte di Archelao, re di Macedonia, tra il 407 e il 406 a.C. Euripide morì pochi mesi dopo averla completata.[1]
Le Baccanti | |
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Tragedia | |
William-Adolphe Bouguereau - La giovinezza di Bacco (1884) | |
Autore | Euripide |
Titolo originale | Βάκχαι |
Lingua originale | |
Genere | Tragedia greca |
Ambientazione | Tebe, Grecia |
Composto nel | 407 - 406 a.C. |
Prima assoluta | 405 a.C.[Nota 1][Nota 2] Teatro di Dioniso, Atene[Nota 1] |
Premi | Vittoria alle Grandi Dionisie del 405 a.C.[Nota 2] |
Personaggi | |
Trasposizioni operistiche | Le Bassaridi (Die Bassariden) (1966) di Hans Werner Henze |
Riduzioni cinematografiche | Le Baccanti (1961) di Giorgio Ferroni |
«Anche se non lo vuole, questa città imparerà a conoscere i riti segreti di Bacco»
L'opera fu rappresentata ad Atene pochi anni dopo, probabilmente nel 405 a.C.,[Nota 2] sotto la direzione del figlio (o nipote) dell'autore, chiamato anch'egli Euripide. Venne messa in scena nell'ambito di una trilogia che comprendeva anche Alcmeone a Corinto (oggi perduta) e Ifigenia in Aulide. Tale trilogia di opere fruttò all'autore una vittoria postuma alle Grandi Dionisie di quell'anno.[2]
Dioniso, dio del vino, del teatro e del piacere fisico e mentale in genere, era nato dall'unione tra Zeus e Semele, donna mortale. Tuttavia le sorelle della donna e il nipote Penteo (re di Tebe) per invidia sparsero la voce che Dioniso in realtà non era nato da Zeus, ma da una relazione tra Semele e un uomo mortale, e che la storia del rapporto con Zeus era solo uno stratagemma per mascherare la "scappatella". In sostanza, quindi, essi negavano la natura divina di Dioniso, considerandolo un comune mortale.
Nel prologo della tragedia, Dioniso afferma di essere sceso tra gli uomini per convincere tutta Tebe di essere un dio e non un uomo. A tale scopo per prima cosa ha indotto un germe di follia in tutte le donne tebane, che sono dunque fuggite sul monte Citerone a celebrare riti in onore di Dioniso stesso (diventando quindi Baccanti, ossia donne che celebrano i riti di Bacco, altro nome di Dioniso).
Questo fatto però non convince Penteo: egli rifiuta pervicacemente di riconoscere un dio in Dioniso, e lo considera solo una sorta di demone che ha ideato una trappola per adescare le donne. Invano Cadmo (nonno di Penteo) e Tiresia (indovino cieco) tentano di dissuaderlo dalla sua convinzione. Il re di Tebe fa allora arrestare lo stesso Dioniso (che si lascia catturare volutamente) per imprigionarlo, ma il dio scatena un terremoto che gli permette di liberarsi immediatamente.
Nel frattempo dal monte Citerone giungono notizie inquietanti: le donne che compiono i riti sono in grado di far sgorgare vino, latte e miele dalla roccia, e in un momento di furore dionisiaco si sono avventate su una mandria di mucche, squartandole vive con forza sovrumana. Hanno poi invaso alcuni villaggi, devastando tutto, rapendo bambini e mettendo in fuga la popolazione. Dioniso, parlando con Penteo, riesce allora a convincerlo a mascherarsi da donna per poter spiare di nascosto le Baccanti. Una volta che i due sono giunti sul Citerone, però, il dio aizza le Baccanti contro Penteo. Esse sradicano l'albero sul quale il re si era nascosto, si avventano su di lui e lo fanno a pezzi. Non solo: la prima ad infierire su Penteo, spezzandogli un braccio, è sua madre Agave.
Questi fatti vengono narrati a Cadmo da un messaggero che è tornato a Tebe dopo aver assistito alla scena. Poco dopo arriva anche Agave, munita di un bastone sulla cui sommità è attaccata la testa di Penteo che lei, nel suo delirio di Baccante, crede essere una testa di leone. Cadmo, sconvolto di fronte a quello spettacolo, riesce pian piano a far rinsavire Agave, che infine si accorge con orrore di ciò che ha fatto. A quel punto riappare Dioniso ex machina, che spiega di aver architettato questo piano per punire chi non credeva nella sua natura divina, e condanna Cadmo e Agave a essere esiliati in terre lontane. Con l'immagine di Cadmo e Agave che, commossi, si dicono addio, si conclude la vicenda.[3][4]
Le Baccanti è considerata una delle più grandi opere teatrali di tutti i tempi.[2] In apparenza, il suo messaggio è un monito a tutti gli uomini ad adorare sempre gli dei e a non mettersi contro di essi, e in effetti tradizionalmente quest'opera era sempre stata considerata un'opera religiosa, ossia la riscoperta della religione da parte di un autore che per tutta la vita era stato sempre considerato un laico.[5] La tragedia tuttavia rivela forti ambiguità, rilevate soprattutto dalla critica degli ultimi decenni.
Innanzitutto è da notare che le virtù che all'inizio dell'opera vengono attribuite al dio (capacità di alleviare le tensioni e le sofferenze degli uomini grazie al vino e ai piaceri fisici e mentali) vengono mostrate poco: Dioniso si dimostra una divinità assolutamente spietata nel punire chi non aveva creduto in lui, al punto di sterminare i suoi stessi parenti (Penteo era infatti cugino del dio, in quanto figlio di Echione e di Agave, sorella della madre di Dioniso, Semele), ed esiliare i sopravvissuti.[Nota 3] Tutto questo per pura e semplice vendetta. Inoltre le stesse Baccanti appaiono molto più intente a compiere azioni violente (invadere villaggi, squartare mandrie di mucche e lo stesso Penteo) che non a celebrare la gioia dei riti di Dioniso. La stessa Agave, dopo essere stata Baccante, si allontana gettando a terra i paramenti del dio e augurandosi di non vedere mai più il Citerone.
Se Euripide avesse voluto mettere in scena un'opera religiosa, forse non avrebbe messo così in evidenza gli aspetti più sconcertanti del dionisismo, ma avrebbe probabilmente posto maggiormente l'attenzione sui lati positivi (che comunque ci sono, ma solo in alcuni canti corali). Per questo motivo alcuni studiosi arrivano a interpretare l'opera in senso del tutto opposto, considerandola non una riscoperta della religione, ma anzi una forte invettiva antireligiosa. E lo dimostrerebbe la critica che Cadmo rivolge a Dioniso verso la fine dell'opera: «Non è bene che gli dei rivaleggino nell'ira con gli uomini»,[6] critica cui il dio non dà alcuna risposta, limitandosi a ribattere che questa è da sempre la volontà di Zeus. La tragedia insomma si chiude con molti interrogativi e nessuna risposta, mentre una sola cosa svetta con evidenza su tutte: la spietata vendetta del dio Dioniso.[7][8]
L'opera è quasi completamente imperniata attorno allo scontro tra Penteo e Dioniso, ma nessuno di loro può essere definito un personaggio positivo. Il dio, infatti, come appena visto, è privo di qualsiasi scrupolo e pietà verso gli uomini, mentre il re Penteo non appare come una persona dall'atteggiamento fortemente razionale (cosa che ci si aspetterebbe da chi rifiuta di avere fede in un dio), bensì come un uomo tirannico, irascibile, chiuso nelle proprie convinzioni e non disposto a rimetterle in discussione. In questo senso Penteo rappresenta in effetti l'opposto di quella razionalità che dovrebbe almeno in teoria essere il suo punto di forza.[7] I due personaggi di Dioniso e di Penteo non sono dunque realmente in contrasto l'uno con l'altro, ma speculari, al punto da arrivare ad assomigliare l'uno all'altro verso la fine dell'opera: Penteo travestendosi da Baccante, Dioniso assumendo l'atteggiamento del despota spietato.[9]
Il filosofo Platone, nel Fedro, afferma che la follia è superiore alla sapienza, poiché quest'ultima è di origine umana, mentre la prima è di origine divina.[10] Uno dei tipi di follia individuati da Platone è appunto quella iniziatica, riconducibile al dio Dioniso.[Nota 4] Nelle Baccanti Euripide si dilunga non poco nel descriverne gli effetti, costruendo nell'opera due tipi diversi di tale follia: da una parte il delirio pazzo e sanguinario delle Baccanti quando compiono le azioni violente, dall'altra il comportamento più misurato e tranquillo durante i momenti di riposo ed i riti di adorazione di Dioniso (in particolare nei canti corali). Il primo tipo di follia è rivolto a chi non riconosce il culto di Dioniso e viene perciò punito con la violenza; il secondo è invece quello tipico di chi, accettati i culti dionisiaci, ne riceve i benefici.[11]
Nel primo caso, le Baccanti sono animate da forza sovrumana e bestiale, come quando assalgono paesi o squartano vivi uomini e animali. Nel secondo caso, invece, esse appaiono come portatrici di un tipo di società alternativo a quello civilizzato della moderna Tebe, una società a diretto contatto con la natura, in cui la donna dimentica la sua vita cittadina, arrivando ad allattare cuccioli di animali. Qui la follia diventa un mezzo per uscire dagli schemi, raggiungere la conoscenza diretta del dio nel proprio corpo, e, quindi, una maggiore consapevolezza di sé.[7][8]
«Beato chi, protetto dagli dei, conoscendo i misteri divini conduce una vita pura e confonde nel tiaso l'anima, posseduto da Bacco sui monti tra sacre cerimonie.»
«Non è sapienza il sapere, l'avere pensieri superiori all'umano. Breve è la vita, chi insegue troppo grandi destini non gode il momento presente. Costumi stolti di uomini dissennati stiano lontani da me.»
Nell'opera è in effetti presente una netta differenziazione tra i termini sophòn e sophía: il primo è il sapere, ossia la conoscenza di nozioni e di fatti. La seconda è invece la sapienza, nel senso di saggezza, ossia la capacità di discernere cosa sia davvero importante e di conseguenza quale sia il miglior modo di vivere. Secondo il coro delle Baccanti, possedere il primo non significa necessariamente possedere anche la seconda.[12]
Una caratteristica tipica della tragedia greca in generale è che il protagonista viene colpito sì da grandi disgrazie, ma non perde mai la propria dignità. Anche personaggi disprezzati da tutti, come Edipo, non vengono mai ridicolizzati o sbeffeggiati. Dioniso invece fa vestire Penteo da donna, e non si fa scrupoli a prenderlo in giro, mettendogli persino a posto i riccioli. In questo modo, per la prima volta un eroe tragico perde la propria dignità e si trasforma in una figura grottesca e quasi comica: una figura assolutamente sconosciuta alla tragedia classica, che sembra così rinnovarsi verso forme nuove di teatro.[13][14]
Le azioni e i rituali descritti nell'opera non sono un'invenzione dell'autore, ma si rifanno fin nei particolari a usanze effettivamente diffuse ai tempi di Euripide. Era infatti reale che un certo numero di donne (dette Baccanti, Menadi o Bassaridi), riunite in gruppi (detti tiasi), ad anni alterni si appartassero sulle montagne per celebrare i riti di Dioniso, e lì compissero azioni quali ridurre a brani un animale con le mani e mangiarne le carni crude. Tali forme di culto non si praticavano certamente più ad Atene nel V secolo a.C., ma erano ancora in uso in zone meno civilizzate del mondo greco. La follia era considerata come indotta dal dio, ma in realtà era stimolata dalla situazione insolita, dal contatto con la natura, dalle danze e dalla musica di sistri e tamburelli. Non è un caso che tali rituali fossero soprattutto femminili: emarginate dalla vita politica e sociale delle poleis, spesso confinate in casa, le donne potevano in questo modo recuperare la loro autonomia, per quanto temporanea e fittizia.[15]
I misteri bacchici e le figure delle Baccanti si rifanno a una lunga tradizione letteraria greca, che poi è riverberata durante il Rinascimento italiano e oltre in varie opere, tra cui si possono ricordare:
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