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partigiano italiano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Arrigo Diodati (La Spezia, 25 maggio 1926 – Roma, 23 dicembre 2013[1]) è stato un partigiano italiano, comunista, fondatore e presidente onorario dell'ARCI.
Nato in una famiglia di piccoli industriali antifascisti, con i genitori e la sorella Soledad fu costretto a emigrare nel 1937 in Francia,[2] dove prese contatto con i rifugiati antifascisti. Per aiutare economicamente la famiglia, divenne garzone in una pasticceria, addetto alla distribuzione, lavoro che gli permise di muoversi nella capitale francese senza essere notato.[2]
Controllato dall'OVRA, fra il 25 luglio e l'armistizio di Cassibile del 1943 rientrò in Italia, e si iscrisse al Fronte della gioventù il 1º settembre 1943. Proseguì la lotta partigiana a Genova, dove divenne vice commissario politico delle locali Squadre di azione patriottica, con una sede clandestina nella zona di Piazza della Nunziata. Da questa si inviavano gli ordini ai distaccamenti partigiani che operavano in città, nelle fabbriche, nelle università e sugli apennini liguri-piemontesi.[2] La sede fu individuata dalle squadre fasciste, e sul finire del 1944 Diodati vi fu arrestato. Seviziato nei locali della Casa dello studente di Genova e in seguito tradotto nel carcere di Marassi, sottoposto a tortura per più di venti giorni dalla polizia politica, temendo di cedere e non volendo tradire i suoi compagni, cercò di suicidarsi lanciandosi dalle scale interne del quarto piano della questura di Genova, ma fu salvato e nuovamente recluso.[2]
Il 23 marzo 1945, con lo scopo di fucilarlo, fu prelevato dalla sezione IV del carcere e, con altri venti prigionieri politici, tradotto con un convoglio militare fino alla chiesa di Sant'Andrea di Isoverde, e da lì, a piedi, sul lungo sentiero fino al cimitero di Cravasco, nel comune di Campomorone. Si caricò sulle spalle Renato Quartini, costretto a strisciare carponi essendogli stata requisita la stampella con cui si reggeva per l'amputazione di una gamba subita in uno scontro coi fascisti.[2]
Giunto al plotone d'esecuzione, fu l'unico a riuscire a salvarsi all'eccidio di Cravasco. Diodati narrò così i fatti:[3]
«Arriviamo, e, mentre un primo gruppo di compagni viene schierato contro un monticello, noi, che siamo rimasti indietro, assistiamo al loro massacro. [...] Veniamo allineati un po' più lontano. È strano come a due minuti dalla morte, tutto sembri normale e nulla ci impressioni. Son così meravigliato di me stesso che non mi riconosco più. Ed in fondo sono contento d'esser giunto fino a questo punto, perché posso constatare con gioia, che non una esitazione, non una debolezza hanno tradito la mia fede. E l'indifferenza con la quale adesso mi trovo davanti al plotone di esecuzione ne sono una prova. [...] Adesso è finita; ci baciamo uno per uno stringendoci forte, mentre con tutte le nostre forze gridiamo come i nostri Compagni: "Viva l'Italia libera!". Poi, una sparatoria, tutti cadono. Cadono perché solo io sono rimasto in piedi; non sono colpito e quindi attendo; attendo che i nostri carnefici, dopo essersi guardati come per chiedersi chi deve spararmi, si decidano, mi mirino una seconda volta e tirino. Questa volta, colpito al collo, mi accascio infine per terra. Sono immobile tra i compagni che gemono, mentre, la faccia contro terra, mi domando che cosa avviene. Sono sbalordito, non riesco a capire perché ho ancora i sensi, perché non ancora morto, perché ragiono ancora. Ma ecco che i tedeschi si avvicinano per finirci, allora, temendo di non morire subito, chiamo Riso affinché mi dia il colpo di grazia. Lo chiamo due o tre volte ma non sente, forse perché i lamenti dei compagni morenti soffocano la mia voce. Ed allora attendo che mi si colpisca; ed attendendo odo delle vociferazioni tedesche, poi un tedesco che parla italiano gridare accanendosi contro di noi: "Farabutti, adesso non griderete più viva l'Italia ed abbasso il fascismo!" - ed odo dei colpi a destra ed a sinistra, proprio vicino a me, credendo sempre che siano per me, mentre invece niente, sempre niente. Io non vedo niente di ciò che accade poiché sono colla faccia contro terra, ma ad ogni minuto che passa riesco sempre meno a capire perché sono ancora in vita. Penso che fra poco saremo gettati in una fossa comune, mi dico che forse allora, avvedendosi che non sono ancora morto, mi finiranno. Ed attendo quindi, ma nulla avviene. Sento voci e passi che si allontanano, poi un colpo di fischietto. Faccio il conto di quando siamo partiti da Marassi ed allora penso che può essere mezzogiorno, e che quindi i tedeschi saranno partiti per mangiare allo scopo di sotterrarci dopo, nel pomeriggio. Comunque, temendo che a poca distanza vi sia una sorveglianza pronta a reagire al minimo movimento, non mi muovo. Passano le ore e uno dopo l'altro sento tutti i compagni morire; Campi, che è vicino a me, è stato l'ultimo. Sono in un lago di sangue e non mi posso muovere. Devo aver perso molto sangue, e, constatando che non articolo più la gamba destra, sto convincendomi che sto morendo dissanguato, quando mi accorgo che la gamba è semplicemente addormentata essendo da ore ed ore nella stessa posizione. Ma ad un tratto, notando che getto sangue dalla bocca, sto per riprendere speranza nella prossima fine, quando ancora una volta devo constatare che è assurdo e che il sangue non proviene che dalla ferita che ho al collo. Mentre rifletto, d'un tratto odo dei passi e delle voci di tedeschi che si avvicinano. In fretta allora cerco di nascondermi un po' meglio dissimulandomi sotto i corpi dei compagni. Sono minuti terribili ed interminabili: li odo avvicinarsi ancora, poi, proprio alla mia altezza, fermarsi. Sono in due e penso che forse cominceranno a gettarci nella fossa. Ma invece no, si chinano, ma solo per toglier gli scarponi ad un compagno, e poi ripartono. Allora mi dico che ormai non ci interreranno che a sera, quando, improvvisamente riflettendo a ciò, per la prima volta mi balena nel cervello la speranza di una possibile salvezza. Infatti, tremando dall'emozione, penso che, se riuscissi ad attendere la notte, forse sarei salvo. Sempre immobile quindi continuo ad attendere; saranno già tre o quattro ore che sono così. Dopo un po' di tempo però, non udendo più nulla, mi azzardo per la prima volta, a guardarmi intorno per rendermi conto della situazione. E ciò che constato è che non vi sono più tedeschi, ma solo dei compagni selvaggiamente trucidati. Vedo pure lì vicino il cimitero e quattro grandi cipressi che ne adornano l'entrata. Ad un tratto, pensando che forse i tedeschi potrebbero ritornare, decido di nascondermi. Trascinandomi per terra mi porto verso uno dei cipressi e, con uno sforzo di volontà, riesco ad arrampicarmici sopra. Lì forse potrò attendere la notte e forse, cosa incredibile, sarò salvo...»
Si ricongiunse poi con le Brigate Partigiane operanti nelle zone vicine a Voltaggio, confluendo nella Brigata Pio , divisione Mingo, e fu uno dei protagonisti della Liberazione di Genova.
Sulla base dell'esperienza francese, in collaborazione con Enrico Berlinguer,[2] nel 1948 fondò l'Unione Italiana Sport per Tutti e il 26 maggio 1957 l'Associazione Ricreativa Culturale Italiana, della quale fu presidente onorario e della quale si occupò attivamente per il resto della vita.[2]
Il 16 maggio 2007 ricevette dal sindaco di Genova Giuseppe Pericu il Grifo d'Oro.[4]
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