Upāsaka
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Nel canone buddhista compaiono numerosi discorsi ed eventi intorno alla figura dell'upāsaka (masch., upāsikā femm.) quale laico ideale della comunità buddhista. Si tratta di quel laico che ha inteso di coinvolgersi a tale punto nella propria pratica dal volersi prendere personalmente e direttamente cura della propria comunità monastica locale, soprattutto durante il periodo di ritiro della stagione delle piogge, il vassa, e di ascoltare con assiduità gl'insegnamenti di dottrina (Dhamma) elargiti.
Il termine upāsaka vuol dire in senso letterale 'sedersi dappresso a', e indica un aderente laico, un devoto laico[1], un pio buddhista[2], un seguace laico che ha una profonda fede nel buddhismo ma non è membro del sangha[3] e che ha anche preso rifugio nel Buddha, nella sua dottrina e nella comunità dei suoi nobili discepoli[4]. Scrive Sir Charles Eliot[5]:
«Il termine (ossia upāsaka) può essere tradotto come si conviene con laico, per quanto la distinzione tra il clero e il laicato, com'è inteso nella maggior parte dell'Europa, non corrisponde proprio alla distinzione tra i bhikkhu e gli upāsaka. Il clero europeo è spesso ritenuto essere l'interprete della Divinità, e quando mai ne ha avuto il potere si è di solito arrogato il diritto di fare da supervisore e da controllore dell'amministrazione morale o persino politica del proprio paese. Una cosa simile si può trovare nel lamaismo, ma non trova spazio nell'istituzione originale di Gotama né nella chiesa buddhista com'è dato oggi di conoscere in Birmania, nel Siam e a Ceylon»
(Charles Eliot)
In alcuni templi Tamil dell'India meridionale vi sono iscrizioni che chiamano upāsaka gli attendenti laici dei templi[6], mentre in Sri Lanka sono talvolta così chiamati quegli anziani che si dedicano alla cura del tempio, alla preparazione dei riti o all'assistenza dei monaci o che comunque sono soliti recarsi con regolarità nel tempio del villaggio per partecipare alla sua vita religiosa[6].