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Il quartiere San Giorgio è uno dei quattro rioni storici della città di Teramo, escludendo il Campo Fiera con il santuario della Madonna delle Grazie. Insieme agli altri rioni storici partecipa alla festa tradizionale della Rievocazione dei Trionfi.
Gonfalone roseo bianco, diviso in due colori bianco e rosso, con al centro un drago.[1]La bicromia è data dalla simbologia dello smalto del metallo per il bianco, e il rosso invece per le armi del Romani, essendo il quartiere di origine pretuziana. Il dragone simboleggia il mito di San Giorgio che uccide la bestia.
Quest'area in epoca italica, durante l'esistenza dei Pretuzi, soggiogati poi dai Romani, era poco edificata. Il nucleo principale di Interamnia Praetuttiorum occupava gli attuali rioni di San Leonardo e Santa Maria a Bitetto; questo quartiere, conosciuto anche come "Terranova", si sviluppò al livello edilizio solo nel XVIII-XIX secolo.
Esisteva un grande viale che dall'attuale piazza Orsini conduceva alla periferia, nell'attuale località Cona, dove esisteva una monumentale necropoli lungo la via Cecilia che si ricollegava alla Salaria, per andare verso Roma oppure al mare, a "Castrum Novum" (Giulianova). Tale è la necropoli di Ponte Messato.
Le prime edificazioni, di cui resta traccia tangibile, sono appunto le chiese: il convento di San Benedetto o dei Cappuccini, posto alla biforcazione di piazza Garibaldi-viale Mazzini con Corso di Porta Romana, delle chiesette come quella di San Giorgio, da cui il nome del quartiere, posta nell'attuale via Cerulli-Irelli (demolita nel XIX secolo). Nel 1176 fu avviata la costruzione del nuovo Duomo della Beata Vergine Assunta nella zona di Piazza di Sopra, al confine con il nucleo storico di Interamnia, dove si trovava il teatro romano, e poi l'anfiteatro, che verrà ampiamente utilizzato nel XVII-XVIII secolo per costruire il Seminario diocesano Aprutino.
La planimetria del quartiere, racchiuso originariamente da mura (XIII-XIV secolo), era compresa nel grande quadrilatero che partiva dall'area occidentale di Piazza Garibaldi, difesa da Porta San Giorgio o Due di Coppe, come venne richiamata nel 1829, quando fu ricostruita in forme monumentali, con la gabella del dazio, non avendo ormai più scopo militare; dal Due Di Coppe le mura seguivano il tracciato meridionale di viale Mazzini, piegando per via dei Cappuccini, via Giannina Milli, via Trento e Trieste, risalendo a via Vittorio Veneto (ex via Teatro Vecchio), incrocio con il quartiere Santo Spirito, giungendo a Piazza Martiri della Libertà (precedentemente nota come Piazza di Sopra, poi nel 1860 Piazza Vittorio Emanuele); la strada continuava immettendosi in Piazza della Cittadella (oggi Piazza Martiri Pennesi), fino al termine delle abitazioni sul circuito murario settentrionale, la Circonvallazione Ragusa, al confine con le mura di Porta Melatina (rione San Leonardo); tornando indietro ad ovest, si tornava a Piazza Garibaldi.
Come detto, l'area era pressoché inedificata sino al XVIII secolo, vi erano numerosi orti e giardini di alcuni palazzi nobili, come Casa Delfico (sul corso San Giorgio, da non confondere con Palazzo De Filippis-Delfico), Casa Egidio (corso San Giorgio), il monastero di Sant'Agostino con l'orto murato a nord, il monastero delle Celestine di San Matteo sul corso San Giorgio, demolito nel 1940, la chiesetta di Sant'Anna sul corso (demolita nel XIX secolo), il monastero di San Carlo Borromeo compreso tra via M. Delfico, via Carducci (ex via del Burro), via Vincenzo Comi e via Arco, la chiesa di Santa Lucia, che si trovava lungo viale D'Annunzio, dapprima intitolata alla santa.
La Cittadella era una piccola fortezza che si trovava nell'attuale Piazza Martiri Pennesi, eretta nel XIII secolo come postazione di difesa del Capitano di Giustizia, che esercitava il governo sulla città per conto del re di Napoli. Vi si rifugiava nei momento turbolenti. La Cittadella divenne nota in un singolare episodio di sangue che coinvolse Teramo.
Alla morte di Alfonso nel 1458, si riaccese in Giosia Acquaviva la bramosia di riprendersi Teramo con l'aiuto dei Mazzaclocchi. Sulla strada per Penne, Giosia fece trucidare il luogotenente alfonsino Raniero, mentre a Teramo venivano eletti 12 magistrati affinché continuassero ad amministrare la regia demanialità e i privilegi concessi da Alfonso. Tre deputati successivamente furono inviati dal nuove re Ferrante I d'Aragona, che confermò i privilegi. Al giuramenti di tutti i principi e baroni del Regno, si astenne Giovanni Antonio Orsini Principe di Taranto, che si alleò con Giosia Acquaviva, facendo sposare sua figlia con il duca Giuliantonio Acquaviva, con dote delle città di Conversano, Barletta, Bitonto. Nacque così una querela tra il sovrano e l'Orsini, aizzato dall'Acquaviva, che voleva a tutti i costi riprendere il dominio su Teramo. E naturalmente da ciò, scaturirono di nuovo i tumulti tra gli ex Melatino e gli Antonelli (Spennati e Mazzaclocchi).
I teramani di partito angioini si fortificarono nella rocca di Fornarolo insieme agli Acquaviva. La rocca subì un assedio prontamente respinto, sicché rimpatriati in città alcuni dei Mazzaclocchi, costoro elessero come ambasciatore Marco di Cappella, il quale si recò dal Principe di Taranto, e ricordandogli le promesse fatte agli Acquaviva, pretese che la città di Teramo fosse concessa a Giuliantonio.
Il Palma annota che gli Spennati abbandonarono volontariamente Teramo per non subire rappresaglie, e uno di essi trovandosi presso la chiesa di San Pietro ad Azzano, scrisse sul muro che le città di Teramo, Atri, Silvi, nel maggio 1459 erano caduta all'Acquaviva per le pretese del Principe di Taranto su Ferrante I.[2]Il 17 maggio la cerimonia di giuramento alla presenza del viceré di Ferrante: Matteo di Capua, fu celebrata nella chiesa di San Matteo dentro le mura, nel quale Giosia veniva riconosciuto signore di Teramo, in attesa della maturità di Giuliantonio. Gli equilibri furono turbati dalla ribellione dell'Aquila, sotto il governo di Pietro Lalle Camponeschi, di partito angioino, seguace del Principe di Taranto, che fece issare le bandiere di Renato d'Angiò, inducendo alla ribellione varie altre città degli Abruzzi, mentre il Principe scatenava tumulti nella Puglia. Ferrante I mandò l'esercito, mentre il Camponeschi spediva alle porte di Teramo Giacomo Piccinino, che discese da San Benedetto del Tronto lungo la via Flaminia. Il Piccinino, alleato naturalmente di Giosia Acquaviva, di partito filo-angioino, raggiunse San Flaviano, e da lì conquistò le città di Loreto, Penne e Città Sant'Angelo, raggiungendo Chieti per aspettare le truppe di Giulio da Camerino.
Ferrante, grazie alle truppe di papa Pio II, e del Duca Francesco di Milano, comandate da Buoso Sforza, riuscì da nord a togliere i possedimenti a Giosia, iniziando da Castel San Flaviano. La battaglia tra Buoso e il Piccinino fu cruenta, gli eserciti ricacciati al di là del Tordino. Costui tentò un attacco a sorpresa la notte, guadando il fiume, ma il giorno seguente fu respinto dall'accampamento, mentre i campi si popolavano di centinaia di cadaveri. Ritiratosi lo Sforza a Grottammare, il Piccinino ridiscese sotto la Pescara, saccheggiando Chieti, e vari altri feudi. Nella riconciliazione del 1461 di Ferrante con Roberto Sanseverino, indusse il Principe di Taranto a richiamare l'esercito di Matteo di Capua e del Piccinini, evitando altre sciagure nel territorio abruzzese; intanto anche all'Aquila gli animi si calmarono con la tregua siglata da Lalle Camponeschi col Conte di Urbino, capitano generale della coalizione aragonese.
Intanto gli Spennati, vista la buona occasione, si accordarono col viceré di Napoli per riprendersi Teramo, e marciarono sulla città il 17 novembre. Dopo aver preso e saccheggiato San Flaviano, con molte vite uccise per le pretese di potere di questi nobili, l'esercito arrivò in città guadando il fiume Vezzola. Stava per essere aperta Porta Sant'Antonio per fare entrare l'esercito, quando il magistrato impose tre clausole per la capitolazione della città: distruggere la Cittadella una volta presa Teramo, accordare indulti per ogni delitto, conferma dei privilegi concessi da Alfonso. Durante la presa della città, i Mazzaclocchi seppero salvarsi la vita grazie alla fellonia degli stessi, che trovarono rifugio nei conventi e nei cimiteri, mentre le loro donne fingevano di aver sofferto vari soprusi dal governo dell'Acquaviva, in modo da ottenere la clemenza di Ferrante verso i traditori. La Cittadella capitolò l'8 dicembre 1461, il Castellano fu costretto a sloggiare, e venne rimpiazzato da Matteo di Capua con uno nuovo, fedele a Ferrante. Nella descrizione di Niccola Palma doveva essere un robusto maschio, con una torre di controllo in cima, e gli alloggiamenti in basso per le truppe. All'epoca della sua compilazione della Storia ecclesiastica e civile (1832), esistevano ancora frammenti di mura presso Porta San Giorgio. Il torrione era ancora in piedi nel 1792, quando poi la deputazione decise l'abbattimento per migliorare l'ingresso al corso.
Negli anni 1433-35 Francesco Attendolo Sforza, figlio di Muzio Attendolo, conquistò per Filippo Maria Visconti vari territori delle Marche, strappandoli allo Stato della Chiesa. papa Eugenio IV gli propose di tradire il duca di Milano Filippo Maria, per governare i territori marchigiani come "vicario". Francesco accettò, divenendo una minaccia per Visconti, che si alleò con Alfonso d'Aragona e il barone Giosia Acquaviva. Alfonso oppose allo Sforza il condottiero Niccolò Piccino nel 1437, che già aveva operato una decina d'anni prima nella battaglia dell'Aquila con Braccio da Montone.
Il Piccinino si riunì agli ex bracceschi nella campagna di Roma, sollevò contro Eugenio IV la popolazione, il pontefice riuscì a scappare da Roma, mentre Francesco si riuniva con le truppe di Micheletto Attendolo. Nel frattempo in Abruzzo Giosia fu nominato dal Visconti "luogotenente" e lo esortò ad aiutare Niccolò e ad assalire le terre conquistate dallo Sforza; Giosia mirava a conquistare la nemica Ascoli, e così fece, non sapendo però del doppio gioco dello Sforza e del duca di Milano, che voleva ridimensionare l'espansione del genero. Il Visconti infatti nel 1438 si appacificò con lo Sforza, rompendo l'alleanza con Alfonso d'Aragona, e lo spedì addirittura a Napoli in aiuto del nemico giurato degli Aragona: Renato d'Angiò.
Il Visconti inoltre richiamò il Piccinino, temendo un'alleanza con Giosia e Alfonso.
Lo Sforza si vendicò contro Giosia conquistando il castello degli Acquaviva nelle Marche, poi entrò a Teramo, da cui Giosia si era allontanato per chiedere protezione ad Alfonso. I soldati sforzeschi distrussero gli emblemi degli Acquaviva, specialmente quelli della facciata della Cattedrale, le terre dell'agro teramano degli Acquaviva furono confiscate, giungendo sino a Civitella del Tronto. Il Piccinino nel frattempo attaccava l'Umbria per volere del duca di Milano, venendo però sconfitto ad Anghiari da Micheletto Attendolo.
Alfonso nel frattempo riconquistava i territori teramani, entrando nella città si scontrò contro Maarco Raniero, tribuno della plebe, che millantava la libertà della città dal gioco degli Acquaviva; costui parlò pubblicamente ad Alfonso chiedendo la libertà di Teramo, e il permesso fu accordato, non venendo infeudata a Giosia.
Dopo che Alfonso tornò a Napoli, Giosia si vendicò chiamando Francesco Sforza, che assediò Teramo, bloccando gli ingressi delle mura. I teramani iniziarono a patire la fame, cibandosi anche di cani e gatti, successivamente dopo che Teramo fu presa per fame, l'Acquaviva tornò al suo antico possedimento di Atri, assediandola lo stesso. Alfonso inviò per risposta il conte Tagliacozzo Orsini, che si scontrò con le truppe di Giosia a Villa Bozza (1446) presso Atri. L'Orsini fu sconfitto. Alfonso risalì la strada per l'Abruzzo, mise il comando generale a Chieti, pronto a invadere il contado d'Apruzzo, ma la mediazione di Andrea Matteo II Acquaviva, nipote di Giosia, permise la stipula di un accordo il 22 luglio 1446. Andrea Matteo concedeva i suoi possedimenti di San Flaviano, Mosciano, Basciano, Penne, Roseto, Forcella, Canzano, Notaresco, Morro, Tortoreto, Sant'Omero, Ripattoni ecc. allo zio, senza però dare Teramo.
I risentimenti di Giosia verso Alfonso, per la perdita di Teramo, si acuirono sicché alla morte del re di Napoli nel 1458; mentre il sindaco Marco Ranieri si recava a Napoli, Giosia arroccato a Cellino Attanasio si mosse con la complicità dei Mazzaclocchi, e mandò dei sicari alla taverna di Caprafico, uccidendo il Raniero e portando le vesti zuppe di sangue al duca Acquaviva. Teramo rese gli onori al tribuno della plebe, e furono messi 12 uomini a guardia delle porte, temendo l'attacco di Giosia. Il duca approfittò di un'ambasciata mandata dal nuovo re Ferrante d'Aragona per lamentarsi dei cattivi rapporti avuti con Alfonso, facendo intendere all'ambasciatore che avrebbe potuto allearsi con il nuovo papa Callisto III, facendo scoppiare nuove guerre. Alla morte del pontefice, Giosia si alleò con il principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini, che intendeva riportare al potere di Napoli gli Angiò; con l'Orsini Giosia aveva rapporti di parentela stretti: il figlio Giulio Antonio, colui che costruirà daccapo Giulianova, era sposato con la figlia.
A tali minacce, re Ferrante concesse all'Acquaviva Teramo, il duca Giosia entrò trionfalmente in città preceduto da Marco di Cappella dei Mazzaclocchi, nella Cattedrale fu onorato con la concessione delle chiavi della città, e poi si ritirò nella rocca fatta erigere davanti a Porta San Giorgio, nell'attuale Piazza Garibaldi. Nel frattempo re Ferrante fece il doppio gioco, dato che sapeva dell'alleanza dell'Acquaviva con gli Orsini che parteggiavano per gli Angiò, e avendo le carte firmate in precedenza da Giosia alla presenza di Alfonso, ossia che Teramo fosse stata riconosciuta città libera nel regio demanio, progettò una congiura, facendosi aiutare dal partito angioino degli Spennati di Teramo; l'Acaviva presto tradì il re combattendo a favore di Renato d'Angiò, arrivando a minacciare anche i terreni dello Stato della Chiesa.
Re Ferrante richiamò Federico II da Montefeltro insieme a Jacopo Piccinino, figlio di Niccolò; mandò in Abruzzo anche il luogotenente Matteo di Capua, a imporre un blocco nell'Abruzzo Ulteriore, per arginare il comando dell'Acquaviva; sicché il Piccinino tradì il re di Napoli per allearsi con il principe di Taranto. Ferrante mise un blocco a Camerino, pensando che Jacopo avrebbe usato la via d montagna, ma costui preferì la via del mare, per arrivare in Puglia, scendendo da Rimini sino a San Benedetto del Tronto.
Nel 1458 il Piccinino, dopo che era giunto a Colonnella, fece incendiare Castel San Flaviano, residenza estiva del vescovo di Teramo da secoli, di grande importanza per la città aprutina stessa, per il controllo commerciale sul mare. Incendiata la città, il Piccinino scese più a sud in Abruzzo, saccheggiando Città Sant'Angelo e Penne a colpi di bombarda, ma non riuscì a prendere Chieti, ben difesa dall'aragonese Matteo di Capua, che dopo averlo respinto, iniziò a inseguirlo con imboscate sino a San Flaviano, dove l'esercito del Piccinino si asserragliò nella torre quadrata rimasta intatta. La torre fu espugnata da Matteo.
Il re chiamò gli altri luogotenenti Federico da Montefeltro e Alessandro Sforza per unirsi a Matteo nella guerra contro il Piccinino: il duca di Urbino si accampò alle spalle di Teramo per sorvegliare il fiume Tordino, e venne raggiunto dal capitano Bosio Sforza, una postazione protetta dal fosso Mustaccio. Il contingente del Piccinino, accresciutosi con aiuti provenienti dalle Marche e dalla Romagna, e dai fuoriusciti Caldoreschi, si acquartierò su Colle Bozzino, a destra del Tordino (contrada Cologna). Non ci fu un vero scontro, almeno all'inizio, ma solo duelli e scaramucce; Federico da Montefeltro fu ferito. La sera del 22 luglio 1460 un ufficiale del Piccino: Saccagnino compì un'incursione vera e propria contro l'esercito aragonese, combattendo presso il Tordino; sicché Alessandro Sforza mandò un drappello, rimanendo però prigioniero in un mulino. La battaglia fu sanguinosa, ma non si risolse, dacché il Piccino fu richiamato in Puglia dal principe di Taranto.
Matteo di Capua si vendicò degli attacchi subiti, da Chieti si diresse verso Teramo; dal canto loro, gli Spennati ordirono una congiura contro l'Acquaviva e i Mazzaclocchi, inviarono un'ambasciata a Matteo, proponendogli di conquistare la città e di dare a loro il potere. Il punto di riunione degli eserciti di Castel San Flaviano, che venne nuovamente depredato, stavolta peggio dell'assedio del Piccinino, le case e le torri furono demolite. Giosia dovette fuggire da Teramo, vinse una battaglia nella vicina campagna di Baciano, sicché il duca dovette rifugiarsi a Cellino, morendo di peste nel 1462. In quest'occasione la Rocca Acquaviva fuori Porta San Giorgio fu presa da'assalto dagli Spennati e demolita, anche se nelle cronache del primo Ottocento, soprattutto dai volumi del Palma, si apprende che all'epoca della dominazione francese resisteva ancora una porzione di torrione.
I ruderi furono demoliti per l'edificazione di una casa di tal Vincenzo Coppa, il torrione fu definitivamente distrutto nella prima metà dell'Ottocento, e con ulteriori lavori di sopraelevazione dell'originario piano di calpestio alla fine dell'Ottocento, quando fu realizzata Piazza Garibaldi, i resti della casa del Coppa furono sommersi. Oggi una parte di muro è visibile proprio percorrendo il sottopassaggio della piazza, per raggiungere il Corso San Giorgio da viale Bovio.
Come detto, molti furono i cambiamenti che interessarono la città di Teramo nel tardo Ottocento, ma soprattutto nella seconda metà del Novecento. Il Corso San Giorgio, costituito da abitazioni patrizie, e soprattutto da sedi amministrative di pregio, come la Prefettura, si andò costituendo nell'assetto attuale nel XIX secolo. Esisteva ancora il monastero di San Matteo, principale parrocchia di questo quartiere, accanto nel 1868 fu realizzato il teatro comunale, che poi verrà barbaramente demolito nel 1959 durante l'amministrazione Carino Gambacorta.
Altre zone abitative sette-ottocentesche si erano costituite lungo gli assi viari settentrionali di via Duca d'Aosta, via Vinciguerra, via Filippi Pepe, via Capuani, via Cesare Battisti, via Nazario Sauro.
Nel 1929 viene demolita la porta Due Di Coppe, principale ingresso al corso San Giorgio, per permettere l'accesso delle automobili. Nel 1940-41 viene demolito il convento di San Matteo sul corso, per realizzare una piazzetta da dove acclamare Benito Mussolini, che avrebbe dovuto affacciarsi dal balcone della Prefettura.
Altre modifiche vengono effettuale l'ungo l'ex via del Burro, rinominata poi via Carducci, viene costruita la Scuola femminile "Giannina Milli". Negli anni 60 vengono definitivamente demoliti i giardini pensili, collegati da un ponte in pietra, della famiglia Delfico, erano collegati direttamente al Palazzo De Filippis-Delfico su via M. Delfico mediante via Carducci. Vi si trovava anche la monumentale Fontana delle Piccine, con un'elegante scultura di fauno che fuoriesce da una conchiglia centrale, opera di Luigi Cavacchioli. Altre demolizioni di costruzioni storiche riguardano il Cineteatro Apollo in stile eclettico, con sala a ferro di cavallo, l'ex palazzo delle Poste e Telegrafi del tardo Ottocento, su piazza Sant'Agostino, poiché negli anni '30 fu costruito il nuovo palazzo delle Poste nel rione Santo Spirito, in via G. Paladini. Sempre alla fine dell'Ottocento e nei primi anni del Novecento, veniva completato al confine con il rione Santo Spirito, il palazzo del Governo e della Provincia, in via G. Milli.
Ulteriori sventramenti drastici vengono apportati all'Albergo del Sole, che sorgeva su piazza della Cittadella, per lasciar posto a un condominio anonimo e alla nuova sede dell'INPS. Cambia così irrimediabilmente il volto dell'elegante piazzetta, rinominata Piazza dei Martiri Pennesi. Anche in Piazza Mercato, poi Piazza E. Orsini, viene demolito l'antico Palazzetto del Credito Abruzzese, realizzato nel 1925 in stile neogotico da Alfonso De Albentiis, per una moderna e anonima palazzina.
Quest'area sino agli anni '50 rimase pressoché inedificata, vi sorgeva solo la nuova piazza Dante, con la nuova costruzione del 1934 del Regio Convitto nazionale "Melchiorre Delfico", specializzato in studi umanistici e scientifici.
Nel corso degli ultimi anni, negli anni '60 viene costruito il nuovo Cineteatro comunale con la galleria dell'Oviesse, al posto del teatro comunale sul corso San Giorgio, nel 2016-18 viene rifatta la pavimentazione dell'intero corso. Da notare anche che l'antica Piazza Vittorio Emanuele, così come era stata chiama dopo l'unità d'Italia, in alcune fotografie prima degli anni '60 appariva occupata da una fila orizzontale di piccole case, che occultavano il secondo ingresso del Duomo di Santa Maria Assunta.
Già con i lavori degli anni '30, per l'istituzione del Banco di Napoli all'ultimo palazzo dei portici del corso San Giorgio, coevo di Palazzo Pompetti, situato più a nord del corso sulla piazza, il secondo palazzo cambiò stile, da elegante struttura eclettica, tra liberty e neoclassico, divenne un edificio piuttosto anonimo in stile monumentalista, che tende al razionalismo; con i lavori di intervento al Duomo da parte del sovrintendente Mario Moretti, viene demolito l'arco del Monsignione, realizzato nella metà del Settecento come ingresso sia carrabile che pedonale (un passaggio coperto simile al Corridoio vasariano) dal Palazzo Arcivescovile alla sagrestia del Duomo, e le casette di piazza Vittorio Emanuele vengono demolite per lasciare spazio al secondo ingresso di facciata del Duomo, la stessa piazza cambia nome: Largo Martiri della Libertà, in ricordo dei patrioti del Risorgimento, in occasione dei 100 anni dell'Unità.
Il quartiere confina ad Ovest con la zona di Castello, oggi zona residenziale occupata dalla chiesa del Cuore Immacolato di Maria. Sicuramente era di origine romana, e fu colonizzato nel Medioevo dai Longobardi e poi Normanni, che edificarono nuove strutture. Il quartiere ha cambiato diverse volte il suo aspetto, specialmente a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando furono demolite varie strutture, tra le quali le chiese storiche della città, come quelle di San Giorgio e San Matteo, per la costruzione di nuovi imponenti palazzi, come la Prefettura, l'Ufficio del Genio Civile, il Palazzo delle Poste. Altre demolizioni furono apportate negli anni '60, durante il governo democristiano, alcune molto gravi, con la ricostruzione di edifici in uno stile anonimo, come la nuova sede del Teatro comunale sopra la storica struttura tardo-ottocentesca.
L'asse longitudinale principale è il Corso San Giorgio che da Piazza Garibaldi verso Est sfocia in Piazza Martiri della Libertà, dove si trova la facciata minore del Duomo di Santa Maria Assunta. Altre vie parallele al corso sono a Sud, via Delfico, via D'Annunzio, via Paladini, via Vincenzo Comi, via Giovanni Milli, via Luigi Brigiotti. A Nord del corso invece ci sono via Capuani, via Nazario Sauro e via Cesare Battisti, mentre gli assi perpendicolari sono via Vincenzo Cerulli, via Campana, via Filippi Pepe, via Duca d'Aosta, via del Tribunale, via Carlo Forti, via Vittorio Veneto, via Oberdan, via Vincenzo Irelli, via della Banca, via della Verdura e via Mercato.
Il fulcro del quartiere, che confina con il Corso Cerulli, e dunque con il quartiere di San Leonardo (o Sant'Anna), è la Piazza Orsini con l'imponente Duomo, altri slarghi sono Piazza Martiri Pennesi (zona mercato coperto), la Piazza Martiri della Libertà, che è l'opposto di Piazza Orsini, Piazza Garibaldi e Piazza Sant'Agostino.
Il quartiere ha un aspetto quadrangolare, occupando la zona Ovest del centro storico, delimitato nel perimetro dalla Circonvallazione Ragusa a Nord, da Piazza Garibaldi ad Ovest e dal viale Mazzini, che lo collega con Piazza Dante, dove inizia il quartiere Santo Spirito.
Nel XVI secolo si procedette con i lavori degli interni; da uno strumento del 1541 si apprende che il cimitero confinava a levante col coro; i canonici si ostinavano a voler vantare però i divini uffici nella sacrestia nuova. La posizione defilata consentì al coro di superare indenne la "normalizzazione" della chiesa promossa nel 1566 dal vescovo Giacomo Saverio Piccolomini, allineandosi ad una pratica che investì l'architettura delle chiese mendicanti. Il Piccolomini eliminò alcuni altari, incluse alcune sepolture sotto il pavimento della cattedrale, segnalate da lapidi con i volti dei defunti.
Nel Seicento-Settecento presso il Duomo furono eseguiti dei lavori barocchi d'impronta lombarda, napoletana e romana. Nel 1605 iniziarono i lavori della grande cappella del Sacramento. Eretta in uno spazio separato da quello delle navate, definita architettonicamente all'interno e all'esterno da un proprio volume e da una caratteristica copertura, fu voluta dal vescovo Montesanto. Ha pianta centrale a croce greca, le quattro absidi rettangolari contrapposte voltate a botte e inglobate infatti sono in parte nella muratura perimetrale della cattedrale, si aprono su uno spazio centrale quadrato non perfettamente regolare, sormontato da cupola ottagonale. La cappella conserva il bellissimo Polittico di Jacobello del Fiore, in precedenza conservato nella chiesa di Sant'Agostino. Nel 1739 il vescovo Tommaso Alessio de Rossi decise di adeguare la cattedrale al gusto barocco, le colonne e le sei campate romaniche furono sostituite da due cupole sostenute da pilastri, la copertura delle navate laterali fu elevata riducendo a due sole falde il tetto, fu stesa una decorazione a stucco, a sottolineare la maggiore uniformità tra il nucleo più antico e quello arcioniano. Accanto a quello principale furono aperti portali minori e fu costruita la cappella di San Berardo, unico elemento oggi sopravvissuto del barocco nel Duomo, in seguito ai lavori di restauro tendenti al medievalismo. Negli anni '30 del Novecento la cattedrale è stata riportata all'aspetto sobrio romanico, con la scoperta delle grandi arcate della navata superiore (1926), mentre fino al 1972 si protrassero dei lavori di demolizione di edifici civili che si erano addossati alla Cattedrale stessa, e tra queste distruzioni ci fu l'Arco di Monsignore, cinquecentesco, che permetteva il collegamento mediante corridoio dal Duomo al Vescovado.
L'interno attuale è in tre navate, con grandi arcate a tutto sesto poggianti su pilastri quadrati, la copertura è a capriate lignee, il presbiterio è preceduto da un grande arco trionfale in pietra con due putti che sorreggono lo stemma civico di Teramo. Il presbiterio è rialzato, e presso l'altare si trova il famoso Paliotto di Nicola da Guardiagrele in oro smaltato e lavorato.
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