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teologo e oratore britanno Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Pelagio, nome ellenizzato del celtico Morgan (uomo del mare) (Britannia, 360 – Palestina, 420), è stato un monaco cristiano, teologo e oratore britanno o irlandese di lingua latina.
Grande e corpulento, con ampie spalle, fronte prominente, collo taurino e andatura da tartaruga, almeno secondo le descrizioni di Girolamo e di Marius Mercator[senza fonte], visse a Roma verso il 384, dove strinse amicizia con l'avvocato Celestio, con il quale si rifugiò, in seguito al sacco di Roma del 410, dapprima a Ippona, nel Nordafrica, conoscendo forse Agostino, e poi a Cartagine. Qui con Celestio elaborò la dottrina detta appunto Pelagianesimo[1].
Era un uomo di grande talento, oratore, scrittore ed esegeta molto apprezzato, rimase "dottore laico e indipendente". Suo scopo era quello di reagire contro una religione superficiale, quella dei pagani convertiti in massa al Cristianesimo. Pelagio era soprattutto un moralista severo e intransigente: predicava, infatti, il distacco dalle ricchezze, la povertà e la castità. Combatté con forza qualunque rilassamento, insistendo sull'esistenza dell'inferno e del paradiso.
Successivamente, Pelagio si trasferì in Palestina, dove scrisse vari testi e lettere, in gran parte pervenuti in frammenti, attraverso citazioni di Agostino.
Nel 415, Girolamo e Paolo Orosio, discepolo di Agostino, chiesero la sua condanna nel sinodo di Gerusalemme, ma il vescovo Giovanni, favorevole al Pelagianesimo, e la stessa difesa di Pelagio, fecero sì che il sinodo non prendesse alcuna decisione.
Lo stesso risultato si ebbe nel sinodo di Diospolis, convocato in seguito alla denuncia dei vescovi galli Ero di Arles e Lazzaro di Aix. L'anno seguente tuttavia furono convocati due sinodi, a Cartagine e a Milevi, in Numidia, che condannarono il Pelagianesimo. Gli atti dei concili, insieme con una lettera di Agostino, furono inviati a papa Innocenzo I (401-417) che in un sinodo a Roma nel 417 condannò di nuovo il Pelagianesimo.
Dopo la morte di Innocenzo I, il successore Zosimo (417-418) venne in un primo tempo convinto da Celestio dell'ortodossia del Pelagianesimo, ma successivamente, nel 418, convocò un sinodo a Cartagine, nel quale i 200 vescovi presenti condannarono nuovamente il Pelagianesimo stabilendo nove dogmi:
Il nono canone fu poi escluso dal novero degli articoli di fede della Chiesa cattolica. Tuttavia l'idea del limbo non è mai stata considerata a livello di verità di fede dogmatica quanto piuttosto un'ipotesi teologica creduta plausibile, come risulta da nel 2007, firmata da papa Benedetto XVI.
Anche l'imperatore Onorio (395-423) emanò nel 418 un ordine di espulsione dal territorio italiano per i pelagiani e per coloro che non approvassero l’Epistola tractoria di condanna inviata da papa Zosimo a tutti i vescovi: tra gli altri, furono esiliati Celestio e Giuliano di Eclano.
L'ordine non riguardò Pelagio che da tempo non interveniva più nelle polemiche e, forse sempre residente in Palestina o forse in Egitto, morì pochi anni dopo.
Uomo rigoroso fino all'ascetismo, secondo la testimonianza dei suoi stessi avversari, la sua concezione, di impronta classica, può essere compendiata dal seguente passo, da una lettera indirizzata alla nobildonna romana Demetriade:
«Pur avendolo creato debole e inerme esteriormente, Dio creò l'uomo forte interiormente, facendogli dono della ragione e della saggezza, e non volle che fosse un cieco esecutore della sua volontà, ma che fosse libero nel compiere il bene o il male. Se ci pensi bene, ti apparirà evidente come, proprio per questo, la condizione dell'uomo sia più alta e dignitosa, dove sembra e si crede invece più misera. Nell'essere capace di distinguere la duplice via del bene e del male, nella libertà di scegliere l'una o l'altra sta il suo vanto di essere razionale. Non vi sarebbe alcun merito nel perseverare nel bene, se egli non avesse anche la possibilità di compiere il male. Per cui è un bene che possiamo commettere anche il male; perché ciò rende più bella la scelta di fare il bene. Sembra che molti vogliano rimproverare il Signore per la sua opera, dicendo che avrebbe dovuto creare l'uomo incapace di fare il male: non sapendo emendare la loro vita, costoro vogliono emendare la natura! Invece la fondamentale bontà di questa natura è stata impressa in tutti, senza eccezioni, tanto che anche fra i pagani, che non conoscono il culto di Dio, essa affiora e non di rado si mostra palesemente. Di quanti filosofi, infatti, abbiamo sentito dire o visto con i nostri occhi che sono vissuti casti e astinenti, modesti, benevoli, sprezzanti degli onori del mondo e dei piaceri, amanti della giustizia? Di dove vennero loro queste virtù, se non dalla natura stessa? Fa' dunque che nessuno ti superi nella vita buona e virtuosa: tutto questo è in tuo potere e spetta a te sola, poiché non ti può venire dal di fuori, ma germina e sorge dal tuo cuore»
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