Battaglia del Volturno
battaglia decisiva della spedizione dei Mille (1860) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
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La battaglia del Volturno indica alcuni scontri armati tra i volontari garibaldini e le truppe borboniche, avvenuti tra il 26 settembre e il 2 ottobre 1860 nei pressi del fiume Volturno, durante la spedizione dei Mille.
Battaglia del Volturno parte della spedizione dei Mille | |||
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Combattimenti a Santa Maria Capua | |||
Data | 26 settembre - 2 ottobre 1860 | ||
Luogo | Valle del Volturno | ||
Causa | Tentativo borbonico di bloccare l'avanzata dei garibaldini e rioccupare il Regno delle Due Sicilie | ||
Esito | Vittoria dei volontari garibaldini | ||
Modifiche territoriali | Le regioni meridionali della penisola italica entrano nel Regno d'Italia | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
Effettivi | |||
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Il territorio impegnato dalle vicende belliche è sito nell'attuale provincia di Caserta, delimitato all'incirca in un triangolo avente i vertici nelle città di Capua, Caiazzo e Maddaloni.
Sebbene in inferiorità di uomini e mezzi, i volontari dell'Esercito meridionale al comando di Giuseppe Garibaldi, dopo duri combattimenti nelle località sunnominate, riuscirono a respingere il tentativo dei napoletani di rompere l'accerchiamento di Gaeta e marciare su Napoli, convincendo i generali borbonici ad interrompere ogni tentativo di avanzata e a ritirarsi nelle posizioni di partenza.
La battaglia fu l'ultimo tentativo fatto da Francesco II di respingere i garibaldini e riconquistare il proprio regno, ma il suo fallimento segnò definitivamente la fine del Regno delle Due Sicilie: il Re infatti, demotivato e persa la fiducia nei suoi comandanti, decise di chiudersi a Gaeta con i resti delle forze a lui fedeli, in attesa di un eventuale aiuto straniero alla sua causa, che tuttavia non giunse mai.
Francesco II si arrese definitivamente il 13 febbraio 1861, dopo cinque mesi di assedio da parte dell'esercito piemontese.
L'Esercito di Re Francesco II, almeno sulla carta, si presentava con una schiacciante superiorità numerica e di mezzi rispetto alla controparte garibaldina: stando ai documenti l'armata borbonica dispiegava, tra Capua, Gaeta e il Volturno, un numero di soldati oscillante tra i 40 e i 50.000 uomini comandati dal Maresciallo Giosuè Ritucci, di cui 8.000 appartenenti ai cosiddetti "corpi esteri", composti da mercenari svizzeri e bavaresi, al comando di Johann Lucas von Mechel.
Sulla carta l'esercito reale appariva come un'armata professionale formidabile, tuttavia vi erano molti elementi che contribuivano a qualificarla come il proverbiale "gigante dai piedi d'argilla": fatta eccezione per i corpi mercenari svizzeri e bavaresi, la stragrande maggioranza della truppa borbonica era composta principalmente da coscritti, con poca o nulla esperienza militare, se non le limitate operazioni di contrasto al fenomeno del brigantaggio, i quali, sebbene molti fossero tenacemente fedeli al Re, nutrivano scarsa fiducia nel corpo ufficiali; quest'ultimi infatti, nonostante i quadri intermedi fossero tutti formati all'ottima Accademia della Nunziatella, non si erano dimostrati all'altezza del proprio ruolo e, in alcuni casi, avevano mostrato una tale inettitudine da renderli invisi agli occhi dei soldati, i quali li sospettavano di vigliaccheria quando non di tradimento o connivenza con il nemico.
Alla battaglia tuttavia, non prese parte l'intera armata borbonica, ma vennero impiegati circa 28.000 uomini, tra questi tutti i mercenari svizzeri e bavaresi, e una forza di artiglieria di 42 pezzi da campagna.
A differenza dell'Esercito delle Due Sicilie, che almeno sulla carta era una forza armata professionale di tutto rispetto, l'Esercito Meridionale al comando di Giuseppe Garibaldi dava l'impressione di un'armata raccogliticcia di volontari che, apparentemente, non erano addestrati alla guerra; tuttavia, è bene ricordarlo, molti dei volontari che componevano l'armata garibaldina, a differenza dei soldati napoletani, avevano già avuto esperienze di combattimento: molti erano ex-soldati dell'Esercito Piemontese che, con il tacito assenso di Re Vittorio Emanuele II, si erano uniti all'impresa di Garibaldi dopo essersi congedati, mentre altri avevano partecipato alla Prima Guerra d'Indipendenza, combattendo anche al servizio della Repubblica Romana, o avevano condiviso con Garibaldi le esperienze belliche in America del Sud, quando l'Eroe dei Due Mondi aveva combattuto al servizio della Repubblica Riograndense, e nella Legione Italiana durante la Guerra Civile Uruguayana. Inoltre è da segnalare anche tra i Garibaldini la presenza di reparti composti da stranieri, anche se questi, a differenza degli svizzeri e bavaresi tra le file borboniche, non erano mercenari ma volontari che avevano già combattuto in guerre per la libertà come la Rivoluzione Greca contro gli Ottomani o la Rivolta Ungherese contro gli Austriaci; tra questi volontari stranieri è bene ricordare la Legione Ungherese (forte di 440 uomini, principalmente cavalleggeri) comandata da Stefano Turr, la Legione Britannica (forte di quasi 600 uomini) al comando del Colonnello John Whitehead Peard e una legione francese di circa 260 uomini.
Viene attestato che le forze garibaldine schierate sul Volturno si assommassero a circa 24.350 uomini e 24 pezzi d'artiglieria, ma solamente 20.000 soldati presero effettivamente parte al combattimento.
La battaglia principale si svolse il 1º ottobre 1860 a sud del fiume. Furono impegnati circa 24.000 garibaldini, costituenti l'Esercito Meridionale, contro circa 50.000 borbonici.[2] Secondo lo storico Trevelyan nella battaglia del 1º ottobre 1860 vennero impiegati effettivamente 28.000 soldati borbonici contro oltre 20.000 garibaldini.[3]
Dopo le scaramucce del 26 e 29 settembre il 30 i borbonici tentarono un'offensiva con il passaggio del fiume a Triflisco (casale del comune di Bellona), per puntare su Santa Maria a Valogno, ma furono arrestati dal fuoco di due compagnie della Brigata Spangaro, attestate a San Iorio. Finalmente il primo ottobre il maresciallo generale Giosuè Ritucci, che comandava i borbonici riuniti a Capua e in parte sulla destra del Volturno sino Caiazzo, si decise ad attaccare con l'intento di muovere frontalmente con due divisioni, la Ribera e la Tabacchi, sul centro garibaldino a Sant'Angelo in Formis e a Santa Maria Capua Vetere per raggiungere Caserta e da lì dirigersi su Napoli: due colonne laterali dovevano cooperare all'azione.
Le truppe di Garibaldi occupavano un fronte assai esteso, di ben venti chilometri, allo scopo di proteggere le numerose comunicazioni per Napoli e Caserta: avevano la destra a Sant'Angelo con i soldati comandati da Giacomo Medici e a Santa Maria Capua Vetere con gli uomini della brigata Milbitz, il centro a nord di Caserta con i volontari comandati da Gaetano Sacchi per la riserva e il quartier generale di Garibaldi con i volontari comandati da Stefano Türr. L'azione iniziò a ovest da parte dei borbonici che, incoraggiati dalla presenza del re Francesco II e dei conti di Trapani e Caserta fecero ripiegare gli avamposti garibaldini ottenendo qualche buon successo. Garibaldi, messosi alla testa di una compagnia e con i volontari di Medici, riuscì a ristabilire la situazione. In quell'occasione, mentre Garibaldi si recava a Sant'Angelo, la sua carrozza venne attaccata dai soldati borbonici; il cocchiere fu ucciso, l'ufficiale accanto a Garibaldi ferito mortalmente e Garibaldi stesso scampò alla morte saltando fuori dalla carrozza e proseguendo a piedi.[4]
Altre fonti riportano invece il ferimento da colpi di moschetto del nizzardo (Garibaldi), che fu salvato dall'intervento dei suoi che lo trasportarono in salvo fuggendo per un vallone. Le voci di popolo dell'epoca inoltre affermavano che egli fosse morto e che fu "sostituito" da un sosia, un falso Garibaldi ("I Napolitani al cospetto delle nazioni civili" Giacinto de' Sivo - 1861).
Intanto si continuava a combattere con accanimento a Santa Maria Capua Vetere, dov'era ferito lo stesso generale Izenschmid Milbitz, sostituito da Enrico Fardella al comando della brigata,[5] e si segnalava la presenza della cavalleria ungherese del maggiore Scheiter accorsa da Caserta insieme alla brigata Eber della riserva comandata da Türr. Alle ore 18 i borbonici furono costretti a ripiegare facendo ripristinare la linea garibaldina Santa Maria Capua Vetere-Sant'Angelo in Formis. Nel frattempo si combatteva pure sulle colline a est da Monte Tifata, a Monte Viro e a Castel Morrone, dove cadeva Pilade Bronzetti alla testa del 1º Battaglione Bersaglieri, che andò distrutto.
Un altro combattimento assai importante e di maggiori proporzioni si svolgeva frattanto a est, ai Ponti della Valle, sulla via per Maddaloni. Il settore era affidato a Nino Bixio, il quale si dichiarò deciso a morirvi prima di lasciarlo. Le truppe garibaldine il primo giorno di ottobre vennero attaccate dalla brigata estera del generale von Mechel, che nel primo scontro perse il proprio figlio che ricopriva il grado di tenente. Di fronte all'impeto delle truppe borboniche, bavaresi e svizzere, Bixio dovette retrocedere con gravi perdite oltre il Monte Caro; questa posizione nel corso della serata venne ripreso dal colonnello Dezza con i battaglioni Bersaglieri Menotti e con il battaglione Bersaglieri Taddei, facendo ripiegare von Mechel a nord oltre Dugenta.
Dopo il ripiegamento del von Mechel la colonna borbonica del colonnello Perrone rimase in posizione isolata presso Caserta con circa tremila uomini. Venne attaccata il 2 ottobre mattina, di fronte e alle spalle, dalle truppe garibaldine con il concorso di volontari del 1º Battaglione Bersaglieri piemontesi del maggiore Soldo. Questa unità era stata però concessa dall'ambasciatore piemontese a Napoli Villamarina contravvenendo agli ordini del capo del governo sabaudo Cavour di rimanere neutrale[6] e si disimpegnò dall'attacco ritirandosi a nord. La battaglia si poteva dire conclusa con una sostanziale vittoria, seppur sofferta e con gravi perdite, dei soldati agli ordini di Garibaldi. Si chiudeva così la battaglia garibaldina più grande e decisiva.
Sebbene il numero di morti e feriti tra le parti sostanzialmente si equivalesse (circa 306 morti, 1.328 feriti e 389 prigionieri per i garibaldini, 308 morti, 820 feriti e 3.063 prigionieri per i borbonici) la ritirata dell'Esercito delle Due Sicilie e la rinuncia ad ogni nuova azione offensiva da parte del Ritucci, lasciò Garibaldi padrone del campo e quindi vincitore della battaglia.
La sconfitta, patita soprattutto a causa della cattiva gestione strategica da parte dei comandi, fu devastante per il morale dei borbonici, che nel contempo si videro anche attaccare da nord dalle truppe piemontesi le quali, dopo aver occupato le Marche e l'Umbria pontificie, avevano invaso l'Abruzzo e le provincie settentrionali del Regno discendendo verso sud travolgendo le guarnigioni borboniche per ricongiungersi con l'Esercito Meridionale e, molto probabilmente, impedire che gli elementi mazziniani del seguito di Garibaldi prendessero il sopravvento e convincessero il Generale a proclamare la Repubblica nei territori da lui conquistati.
Francesco II, ormai totalmente sfiduciato dall'idea di riconquistare il suo regno manu militari, si ritirò a Gaeta con i rimasugli delle forze a lui ancora fedeli, confidando in un intervento internazionale da parte delle potenze europee che, nelle sue aspettative, avrebbe dovuto interrompere l'attacco piemontese e reinsediarlo sul trono; ciò tuttavia non avvenne, anche a causa dell'isolamento internazionale in cui suo padre Ferdinando II aveva lasciato il regno alla sua morte, e il Sovrano rimase rinchiuso a Gaeta dove venne sottoposto a cinque mesi d'assedio da parte dell'esercito piemontese, prima di arrendersi il 13 febbraio 1861. Comunque sia, il 26 ottobre del 1860 Giuseppe Garibaldi si era già incontrato con Vittorio Emanuele II nei pressi di Teano, salutandolo come Re d'Italia e affidandogli le provincie meridionali da lui conquistate, sancendo così sostanzialmente la fine dell'Impresa dei Mille.
È ritenuta una delle più importanti battaglie del Risorgimento, tanto per il numero dei combattenti coinvolti che per i risultati ottenuti da Garibaldi, che arrestò la ripresa offensiva dell'esercito borbonico dopo la sua ricostruzione tra le mura di Capua. Ragioni politiche e incomprensioni non diedero per lungo tempo la dovuta importanza a questa battaglia, di carattere offensivo per le truppe borboniche. Ai borbonici, bene armati ed equipaggiati, venne meno l'abilità dei capi, a differenza dei garibaldini, mal preparati, ma animati dall'ideale risorgimentale e comandati da militari capaci e di grande ascendente, a cominciare da Garibaldi, che mostrò un notevole intuito tattico, cercando di essere il più possibile presente sul campo di battaglia, incitando e guidando personalmente i garibaldini, che erano fortemente caricati e motivati dal carisma di Garibaldi.[7] I borbonici persero giorni preziosi prima di attaccare, a tutto vantaggio dei loro avversari che ebbero tempo di rafforzarsi sul terreno. Alla battaglia partecipò anche Carmine Crocco, come volontario garibaldino nell'esercito meridionale dopo avere disertato dall'esercito borbonico, che in seguito sarebbe divenuto il più noto capobanda del brigantaggio postunitario.[8]
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